Verso altri paradigmi
LA DETERMINAZIONE DEL SIGNIFICATO
di Ezio Saia
Come ogni teoria, come ogni paradigma, anche
quello combinatorio-gerarchico
è assimilante,
conquista e perde il “mondo”
e non è la preteoria
totale.
Il fatto che il mondo sia
l’essere, che il
mondo sia il linguaggio,
che il mondo sia
l’insieme dei mondi, l’insieme
delle preteorie
e teorie, che il mondo
sia l’io e che contemporaneamente
non sia tutte queste cose,
noi non riusciamo
a dirlo; come ciò accada
ugualmente non riusciamo
a dirlo. Gli stessi termini
“io”, “mondo”,
“linguaggio”, “essere”
e così via appaiono
irrimediabilmente legati,
compromessi, costruiti
con quella concettualità
preteorica, combinatorio-gerarchica
che ci guida nel nostro
vivere lungo rotaie
così rigide e radicate
nella nostra storia
biologica e sociale da
farci dimenticare
non solo il fatto che il
nostro viaggio avviene
su quelle rotaie, ma anche
che esistano quelle
rotaie. Le nostre preteorie,
i linguaggi
e i mondi non sembrano
contenere la possibilità
di concettualizzare un
accadere diverso.
Questo non vuol dire che
altre vie concettuali
non possano essere individuate.
Per esplorare
questa possibilità è utile
fare un passo
indietro.
Nella prima parte si è
parlato indifferentemente
di schemi concettuali,
di teorie, di sistemi
di orientamento; questi
termini assumono
nella letteratura filosofica
contemporanea
significati differenti
e queste differenziazioni
avvengono in un qualche
modo in relazione
al concetto di verità anche
quando gli approdi
convergono verso un’affermazione,
secondo
la quale dal linguaggio
non si esce.
La domanda sul concetto
di verità è complessa
ed è posta col presupposto
spesso non confessato
che a questo tipo di domanda
si deve a tutti
i costi dar risposta. Qual
è l’ambito della
verità? Dove si situa?
Come va definita?
Queste sono le tipologie
di domanda che già
nella loro formulazione
mostrano una genesi
entro paradigmi vecchi
perché vecchio è il
polo concettuale e vecchia
la semantica che
ruota attorno a questo
polo.
La filosofia sul linguaggio
e sulla verità
dà, nelle sue argomentazioni
spesso artificiosamente
difficili, contorte, linguisticamente
e concettualmente
elaborate, l’impressione
che più che contaminate
da errore siano affette
da stanchezza. E’
come se tutto fosse stato
detto e ridetto
e da quel detto e ridetto
non si potesse
uscire, se non per la porta
d’ingresso attraverso
la quale si è entrati buttando
a mare la
formulazione iniziale e
quindi il concetto
di verità.
Tutto questo avviene senza
che neppure vengano
cercati nuovi paradigmi
di cui si possa parlare,
in un isolamento ferocemente
filosofico,
cercato, ribadito e ostentato
soprattutto
rispetto al linguaggio
tecnico e scientifico.
L’avvertimento-invito formulato
da Bachelard
affinché i pensatori della
filosofia compiano
uno sforzo per comprendere
il linguaggio
della scienza e le sue
innovazioni, è per
lo più dimenticato, mentre
assume quasi un
significato sacrale l’invito
di Heidegger
a dialogare con i poeti.
Inutile dire che dai poeti
emergono soluzioni
poetiche e non concettuali.
Il “romanzo”
è l’accadere del concepimento
o della nascita
(nel senso rispettivamente
di far emergere
e di emergere) di individui
in opposizione
alla concettualità che
comunque è costretta
per la sua stessa natura
alla soppressione-assimilazione
degli individui.
Ma anche quando l’opzione
poetica viene respinta,
le risposte sono comunque
una rimasticazione
trita e ritrita di concettualità
già esplorate,
che, più che una ricerca,
rinviano a una
non ricerca, a un rinvio
dei problemi, con
la consapevolezza o la
speranza che quello
stesso problema muoia naturalmente
per consunzione
d’interesse e muoia con
esso il senso della
domanda.
L’argomento preliminare
di questa ricerca
sarà dunque la concettualità
in generale
e più in particolare l’analisi
di quella
concettualità che possiamo
contrassegnare
con i termini di “combinatoria”
o “piana”
o “lineare” o “verticale”
e le cui caratteristiche
verranno definite gradualmente.
Semantica verticale e riduzionismo.
Se cerchiamo il "senso"
del termine
"sei" in un gioco
d'estrazione
rispettivamente tra dieci
numeri e tra cento
numeri, non potremo dire
che questo "senso"
è lo stesso nei due giochi,
anche se compare
lo stesso termine "sei"
e anche
se questo stesso termine
pare riducibile
al concetto di numero "sei"
che
sovra ordina entrambi.
E’ la stessa misura
della quantità di informazione,
così come
è utilizzata nello studio
delle trasmissioni,
a dirci che, mentre il
primo "sei"
richiede una codifica binaria
di tre variabili,
il secondo ne richiede
una di almeno sette.
Questa differenza di "bit"
misura
qualcosa e significa qualcosa;
un qualcosa
che certamente contribuisce
alla formazione
del "senso" o
del contesto di senso
nei due casi.
Il senso del termine "nero"
è diverso
se ci riferisce al "nero"
di una
fotografia a colori o al
"nero"
di una fotografia in "bianco
e nero".
Né potremo in nessuno dei
due casi degli
esempi precedenti ricorrere
solo a qualcosa
di extraverbale; Wittgenstein
insegna che
il ricorrere a una tavoletta
nera per eseguire
comparazioni ci dice ben
poco; non solo perché
esistono vari tipi di nero,
non solo perché
dovremmo definire in maniera
più o meno arbitraria
il confine tra questo e
altri colori, ma
anche perché dovremmo in
qualche maniera
accompagnare la presentazione
della tavoletta
con un'indicazione verbale
che, in questo
caso, farebbe da ponte
da un mondo simbolico
a un altro. dove i simboli
sono parole. Per
far ciò dovremmo presentare
un enunciato.
(E presentare un enunciato
del tipo "Questo
è rosso" presuppone,
come dice Wittgenstein,
un bel po' di conoscenza
del linguaggio.)
In casi come questi, che,
in definitiva,
sono la totalità, nel senso
di un termine
(quel "nero"
della fotografia)
entra tutto un sistema
di concetti e d'informazioni
che ci dicono in quale
sistema concettuale
stiamo lavorando (se nella
fotografia a colori
o in bianco e nero, di
quante alternative
di colore stiamo parlando,
ecc.)
Il senso non può non tener
conto di queste
alternative di predicati
né dell'insieme
delle gerarchie di concetti
coordinati, subordinati
e sovra ordinanti che formano
il contesto
semantico della teoria
in cui ci esprimiamo
e che lo delimitano rispetto
alle teorie.
Il senso in un sistema
classificatorio
Tutto diventa semplice
in un sistema classificatorio
ordinato gerarchicamente,
e certamente Carnap,
quando parla della possibilità
di riduzione
a termini osservativi del
concetto di artropodi
mediante una definizione
del tipo: "animali
con corpo segmentato e
con estremità articolate",
si trova in queste semplici
condizioni. Quando
le cose stanno come sopra,
dove ci si limita
a “dare” il senso in riferimento
a un modello,
sembra ragionevole parlare
del senso di un
termine come del posto
occupato nelle tautologie,
in cui quel termine si
connette con altri.
In questo caso, conosciuto
interamente il
sistema classificatorio,
il senso del termine
è, relativamente al sistema,
interamente
definito dalla sua posizione
nella struttura
del sistema.
Disgraziatamente, quando
si parla di concetti
ci si riferisce in genere
al tipo di concettualità
più semplice, secondo la
quale un predicato
definisce un concetto.
Questo punto di partenza
è buono, come, in genere,
è buono qualsiasi
analisi che parta dal semplice
per approdare
al complesso. Non è quindi
il punto di partenza
che non funziona, il guaio
sta nel fatto
che, per quanto concerne
l'area dei concetti,
spesso il punto di partenza
è anche il punto
di arrivo.
Si parla di concetti e
si torna sempre ai
predicati. Anche se si
avverte che l'area
concettuale, non solo nelle
teorie, ma nella
stessa vita quotidiana,
è molto più complessa,
la tendenza è quella di
pensare i concetti
come costruzioni con semplici
operazioni
su predicati. L'analisi
della concettualità
si è sbizzarrita in senso
estensionale e
intensionale e nell'esame
dei rapporti fra
estensione e intensione,
più che nel tentativo
di andare oltre quelle
operazione di combinazioni
logiche di predicati, operazioni
tutte riducibili
all'operatore barra, ai
quantificatori e,
al più, a qualche tipo
di operazione aritmetica
o analogica. In ogni caso
si limita l’analisi
sempre entro concettualità
combinatorie,
quasi che le concettualità
sequenziali non
esistessero.
Eppure in matematica, in
filosofia, nella
vita reale, nella tecnica
si parla e si agisce
maneggiando concettualità
complesse, sequenziali,
autocorrettive, retroazionate,
stabili o
instabili, tutte irriducibili
a operazione
su predicati. Si usano
concetti disposizionali
e sequenziali, ma si trascura
con disinvoltura
l'analisi di questi concetti,
quasi come
se tutti i predicati per
il solo fatto di
essere espressi da un simbolo,
fossero tutti
simili fra loro. Questo
è di fatto un riduzionismo
inconfessato.
Il secondo Wittgenstein
Anche il Wittgenstein delle
Ricerche non pare andare oltre alla caratterizzazione
concettuale come operazione
di predicati:
prendiamo dei predicati,
li combiniamo con
operazioni logiche e otteniamo
concetti,
oppure estensionalmente
parliamo di classi,
le riuniamo, le intersechiamo,
ne ricaviamo
come risultato una classe.
Wittgenstein non
esce da questo schema;
alla fine conclude
(vedi l'esempio dei giochi)
che si riesce
a concettualizzare ben
poco e che è meglio
abbandonare tutti questi
inutili sforzi e
parlare, ad esempio, di
somiglianze di famiglia.
Lo stesso concetto di "concetto"-
e questo è un tema ricorrente
in Wittgenstein
- riunisce troppe cose
diverse che non hanno
alcuna nota comune, ma
solo somiglianze di
famiglia.
All'interno di quell’insieme
che Wittgenstein
definisce di "giochi
linguistici"
il suo ragionamento pare
inconfutabile, ma
tutto il ragionamento è
viziato dai limiti
entro i quali lavora. Paradossalmente
lavorare
con concetti semplici porta
a conclusioni
più limitative. Il presupposto
di questi
esiti sta nel fatto che,
se neppure nella
semplice concettualità
predicativa si riesce
a definire i concetti,
è inutile andare oltre.
Verso altri tipi di concettualità
Non bisogna andare molto
lontano per allargare
il nostro orizzonte: qualsiasi
esposizione
teorica, i fatti della
nostra vita, come
le macchine che vengono
usate quotidianamente,
richiedono in genere, per
comprendere il
loro funzionamento, paradigmi
concettuali
diversi.
Per quanto sembri incredibile,
quando noi
costruiamo una "macchina"
che,
sollecitata da certi stimoli
(ingressi),
reagisce con determinate
risposte (uscite),
noi "costruiamo"
concetti. (1)
Una certa abitudine a una
concettualità di
tipo analitico, che oltretutto
ha dimostrato
di non saper andare lontano,
ha fatto sì
che si sia indotti a credere
che le teorie
vadano edificate su concetti
come si edifica
un edificio sovrapponendo
mattoni e non viceversa
che i concetti si costituiscano
all'interno
delle teorie e vengano
definite da queste.
Accettato questo punto
di vista, diventa
facile accettare che il
funzionamento di
un sistema, di una macchina,
possa definire
un concetto o una pluralità
di concetti.
Il problema del riduzionismo.
Il problema del riduzionismo
potrebbe essere
condensato in una domanda:
esiste la possibilità
di ridurre le nostre conoscenze
ad un albero
del sapere? Questa domanda
può essere esemplificata
con domande più deboli
e parziali del tipo:
la fisica è riconducibile
a una teoria dei
fenomeni? La matematica
è riducibile alla
logica? Le varie discipline
scientifiche
sono riconducibili a un'unica
scienza?
Volendo restringere, almeno
inizialmente,
il campo e rivolgere l'attenzione
a un singolo
problema, assunto come
esemplare, è difficile
non scegliere quello della
riduzione della
matematica alla logica,
sia perché ampiamente
dibattuto, sia per la forte
personalità filosofica
dei molti pensatori che
lo affrontarono anche
indirettamente. Paradigmatici
sono i percorsi
filosofici di Russell e
Wittgenstein, deciso
sostenitore il primo della
riducibilità della
matematica alla logica,
ferocemente contrario,
il secondo.
La novità della posizione
di Wittgenstein
non fu tanto nel fatto
di rifiutare questo
o quel riduzionismo, ma
di rifiutarne l'idea
come abito mentale. In
questo senso non confuta
questa o quella teoria
riduzionista con argomenti
presi dall'interno. Discutere
secondo simili
modalità significherebbe
accettare almeno
parzialmente il terreno
e le regole dell'avversario
e quindi un tipo di logica
e un contesto
teorico e semantico, che
una volta accettato,
definisce irrimediabilmente
il contesto di
senso e non senso che è
invece l'effettivo
argomento da discutere.
Accettando quel contesto
si presuppone, non la validità
di quello
o questo paradigma di riduzione,
ma la possibilità
che un simile paradigma
esista.
Il riduzionismo è possibile
e sensato purché
se ne intendano i limiti
(questo Wittgenstein
non lo comprende). Il problema
della validità
del riduzionismo e di questa
o quella riduzione
ricalca il problema della
verità del teorizzare
o di questa o quella teoria.
Anche qui è una questione
funzionale e la
riduzione è una teoria
che ci dà informazioni.
Frege e Russell costruiscono
una teoria in
cui i numeri sono definiti
logicamente e
insiemisticamente e, anche
se i numeri inseriti
in questa teoria non sono
più numeri nella
loro completezza di significato,
questo non
vuol dire che la teoria
di Frege e Russell
e, quindi, la loro riduzione
della matematica
alla logica, sia insensata.
Sbagliavano Russell
e Frege a ritenere di aver
ridotto la Matematica
alla logica e sbaglia Wittgenstein
a ritenere
questa riduzione priva
di ogni senso. Il
problema del riduzionismo
è, in questo senso,
un falso problema; come
tutte le teorie,
assimila, informa e, informando,
occulta
e deforma. Il riduzionismo
è una forma di
assimilazione.
Nonostante ciò, sembrerebbe
che il problema
del riduzionismo sia un
problema di grado
e che sia pressoché impossibile
dare una
risposta generale se non
si dà una risposta
al problema primario di
cosa siano le teorie
in generale, ma questo
non vuol dire che
ogni riduzione sia insensata.
Se così fosse
non funzionerebbe nulla
nel nostro comprenderci
e nel nostro comunicare.
Riconoscere che
il nostro comunicare non
è una completa babele
significa accettare una
certa possibilità
di operare riduzioni.
Un atteggiamento antiriduzionista
anima le
Osservazioni sopra i Fondamenti della Matematica
e non solo in relazione al riduzionismo matematico.
L’antiriduzionismo si manifesta
in maniera
così radicale da indurre
Bernays a bollare
il testo come un irrazionale
atteggiamento
distruttivo, condotto senza
alcun chiaro
fine verso il pensiero
speculativo.
Le Osservazioni non hanno un impianto unitario; sono successioni
di pensieri, esempi, impressioni,
appunti,
scritti in periodi diversi,
in preparazione,
forse, di un saggio che
poi non fu mai scritto.
Un filo conduttore però
c'è. Wittgenstein
si esprime sia contro il
formalismo, sia
contro il logicismo e in
genere contro ogni
pretesa di dare un fondamento,
un impianto
unitario alla matematica.
Anche se talvolta
il suo discorso ricalca
il pensiero finitista
o intuizionista, Wittgenstein
è in effetti
lontano da ogni teorizzazione.
Sembra quasi
che la sua profonda avversione
per ogni dottrina,
per ogni teoria che sarebbe,
in ogni caso,
"una" (sola)
teoria sul "mondo"
(tutto), lo metta in guardia
dall'esprimere
una sua teoria. Il suo
atteggiamento filosofico
è ossessivamente avverso
a ogni tentativo
che, in qualche modo, cerchi
di unificare
concettualmente tutto ciò
che va sotto il
nome di "Matematica".
Tutto il
trattato è un ossessionante
esposizione di
esempi a confutazione del
principio di estensionalità:
per Wittgenstein il pensiero
secondo il quale
concetti con ugual estensione
sono interscambiabili
è una malattia.
Se i rappresentano, in
matematica, l'estremo
riduzionismo (dove il riduzionismo
avviene
dalla matematica alla logica),
gli sparsi
pensieri di Wittgenstein
rappresentano l'antiriduzionismo
teorico estremo, che si
manifesta come opposizione
a ogni unità di significato
della matematica
e quindi a ogni tipo di
fondazione della
stessa matematica.
Così il numero 60 non è
lo stesso che il
numero 6x10 (la pratica
della vita lo testimonia:
si può essere capaci di
fare sei mucchietti
da dieci o dieci da sei
senza saper contare
fino a 60), la retta popolata
da numeri non
rappresenta la potenza
del continuo, il calcolo
letterale è irriducibile
a quello numerico,
il calcolo nella notazione
decimale è altra
cosa rispetto a quello
eseguito con bastoncini.
I numeri del pallottoliere
non sono quelli
definiti dal logicismo.
Tutto ciò non viene argomentato,
ma viene
illustrato da esempi che
fungono da esemplari.
Per Wittgenstein tutto
il riduzionismo si
basa sulla perdita d'identità,
sul camuffamento:
"Se li avvolgiamo
in una quantità sufficiente
di carta, tavoli, sedie,
sbarre, alla fine,
ci sembrano sfere."
(2.52).
Secondo le Osservazioni
un numero irrazionale
è la legge che lo genera.
In casi come questi,
sembra che, per Wittgenstein,
il carattere
definitorio sia di tipo
genetico, ma qui
il “genetico” non è né
sistematico né definitorio
e pare più l'occasione
per divaricare identità
e negare possibilità d'estensione.
Questa
impressione trova piena
conferma in altre
occasioni quando, ad esempio,
viene più volte
ribadito che la proposizione
finale di un
teorema non trova il suo
senso in se stessa,
ma lo riceve dal processo
di calcolo, tramite
il quale a essa siamo pervenuti.
E' lo stesso
calcolo, con cui perveniamo
a un numero,
a dar il senso di quel
numero. Paradossalmente
qui si potrebbe sostenere
che se una stessa
p può essere dimostrata
con due o più metodi,
quelle p non possono condividere
pienamente
il senso.
Wittgenstein non dà alcun
peso al fatto che
con i “numeri” della logica
si riesca a pervenire
agli stessi teoremi a cui
si perviene con
i “numeri” della matematica.
Per lui i due
tipi di numeri non sono
gli stessi numeri.
Fare calcoli con numeri
grandi diventa impossibile
se si usano i numeri intesi
come classi di
classi ed è inutile dire
che in teoria sarebbe
possibile; anche misurare
la distanza dalla
terra alla luna con un
righello in teoria
è possibile, ma in effetti
non si può fare.
Altrove Wittgenstein sostiene
che non ha
lo stesso senso chiedere
"Hai cinque
cani?" ed esprimere
la stessa domanda
in termini di classe di
classi.
Come si vede l'opposizione
verso il principio
di estensionalità è radicale.
Possiamo assimilare
fra loro numeri diversi,
ma solo al prezzo
di camuffarli, di perdere
qualcosa (ad esempio,
la semplicità di certe
operazioni, la loro
coordinazione nelle varie
notazioni posizionali),
di ridurli a maschere impotenti
e goffe.
Il formalismo logico, lungi
dal fondarli,
li appesantisce e li traveste.
Al più Wittgenstein sarebbe
disposto ad ammettere
che i numeri dei Principia sono cose che, all'interno dei Principia e del suo orizzonte teorico, si comportano
più o meno come gli altri
tipi di numeri
all'interno dei rispettivi
orizzonti teorici,
ma, in ogni caso, quei
numeri non sono quegli
altri numeri: i numeri
dei Principia non sono quelli di Peano, non sono quelli
dell'abaco e neppure quelli
di Kroneker.
Concettualità gerarchica
Nella filosofia della matematica
soprattutto,
ma in tutte le teorie in
generale, il problema
della possibilità del riduzionismo
presuppone
il problema dei fondamenti
e quest'ultimo
è intimamente connesso
con la possibilità
di risoluzione delle antinomie.
Il discorso
delle antinomie, benché
collegato al problema
dei fondamenti della matematica,
è in realtà
più vasto e si spinge al
di là dei suoi confini.
Basti pensare alla semantica
del principio
assoluto e della causa
assoluta, dove la
connessione delle cause
spinge sempre più
in alto lungo una catena
che non può aver
fine. Grossolanamente la
catena infinita
è presupposta dal principio
universale che
tutto è causato mentre
la fondazione della
catena afferma che qualcosa
è causa incausata
e questa è una contraddizione.
Le antinomie in logica
sono state il vero
rompicapo, l'ostacolo,
la barriera con cui
il teorizzare secondo un
certo paradigma
doveva confrontarsi. Lo
sono state in una
tal misura da indurre pensatori
come Russell
e Frege a credere che non
si potesse procedere
oltre senza aver risolto
"quel problema",
dove "quel problema"
non si riduceva
alla soluzione di questa
o quella antinomia,
ma riguardava la risoluzione
generale del
problema delle antinomie.
Il problema, visto
sotto questa luce, non
è stato risolto.
Gerarchizzazioni di oggetti,
espressioni
secondo tipi o ordini,
introduzioni di sistemi
di assiomi ad hoc, ecc., evitano pericolose proliferazioni
di questi oggetti mostruosi
che divorano
se stessi, evitano questa
o quella antinomia
o tutte le antinomie conosciute,
ma non garantiscono
che altre sconosciute non
siano in agguato.
Anche il programma di Hilbert
che si prefiggeva
la dimostrazione della
coerenza della totalità
delle discipline matematiche
ha trovato ostacoli
insuperabili.
Storicamente l'avventura
delle antinomie
assume le caratteristiche
di una narrazione
drammatica. Questa storia
narra come la costruzione
dell'edificio logico-matematico
crescesse
regolarmente e assolvesse
altrettanto regolarmente
ai suoi compiti fino a
che non venne scoperta
(o costruita) la prima
antinomia. Tutto,
dunque, funzionava senza
problemi e tutto
crollò miseramente dopo
quella scoperta.
Questi eventi non paiono
solo svolgersi sul
piano narrativo e storico-temporale,
ma anche
sul piano teorico ed atemporale
fino ad indurci
a riflettere come sia possibile
che la matematica
prima funzionante diventi,
con la scoperta
dell'antinomia, inaffidabile.
Eppure da una contraddizione
antinominica
si derivano tutti i teoremi
e tutte le loro
negazioni e questo è tanto
incontestabile
quanto il fatto che una
proposizione falsa
implichi tutte le proposizioni.
Questa circostanza
indica il punto focale
del problema e ci
rivela, forse, che nel
ragionare sulle teorie
si è in balia di metafore
coercitive.
E’ come se in un palazzo,
in cui si abita
felicemente, un bel giorno
venisse scoperto
un errore di calcolo nel
progetto e questa
scoperta causasse l’immediato
crollo del
palazzo, come se la sua
tenuta strutturale
dipendesse non dalla gracilità
della costruzione
conseguente all’errore
di calcolo ma dall'essere
o non essere a conoscenza
di questo errore.
Tornando alla metafora
dell'edificio, può
apparire perlomeno bizzarro
cercare lumi
su un problema, indagando
sulle anomalie
di un’analogia campata
in aria. Se paragoniamo
il deserto a un mare di
sabbia, non per questo
ci sentiamo costretti,
consapevolmente o
inconsapevolmente, a inferire
una corrispondenza
puntuale tra animali del
mare e animali del
deserto. Anche qui però
un esempio non può
divenire un esemplare e
dare garanzie verso
metafore e analogie più
antiche, più comunicative
e più consolidate a livello
funzionale, biologico
e operativo. In effetti
colle analogie ci
capiamo e le usiamo normalmente,
anche se
con opportune precauzioni.
Nel nostro pensare,
costruire teorie, operare
informaticamente
ci serviamo di componenti
analogiche e paradigmi
il cui uso è così radicato,
collaudato e
operativo da agire come
un vero e proprio
campo coercitivo già a
livello di linguaggio.
Preteorie e campi di coercizione
In effetti questi veri
campi di coercizione
esistono a vari livelli.
La coercizione dei
sensi è potentissima, come
lo è l'esigenza
del pensare metafisico
o di pensare secondo
certi principi logici,
ecc. E' la forza di
questa coercizione ad aver
fatto assumere
ai loro oggetti, nella
storia del pensiero,
il valore di "fondamenti",
ossia
di verità certissime su
cui costruire il
nostro sapere. Non deve
stupire quindi un'indagine
su dove cada l'analogia
dell'edificio reale
costruito su fondamenta
con l'edificio teorico
del nostro sapere.
Una teoria è una struttura
particolare? Noi
scopriamo la contraddizione
o la costruiamo?
L'edificio esiste con la
sua struttura verticale,
con le sue fondazioni,
i suoi pilastri, i
suoi piani che poggiano
uno sull'altro e
tutti sulle fondazioni
o in effetti tutta
la struttura è circolare?
Noi assimiliamo gli assiomi
a fondazioni
su cui si basano i teoremi,
così come le
fondazioni reali reggono
la casa; la teoria
regge se abbiamo usato
correttamente le regole
d'inferenza e derivato
correttamente i teoremi
dagli assiomi così come
diciamo che la casa
è stabile se costruita
secondo le regole
della scienza delle costruzioni.
Non è questo
un parlare profondamente
metaforico? È grazie
a un pensare di questo
tipo, appoggiato a
un "fare" tecnologico”,
(inteso
in senso ampio di "agire
vitale con
strumenti") che noi
"comprendiamo"
il connettersi di proposizioni
in teorie?
E’ o non è l’idea dell’edificio
strutturale
che, articolandosi in senso
verticale, ci
fa erigere analoghi monumenti
teorici, anch’essi
articolati verticalmente,
oscurando così
la natura circolare e retroazionante
del
pensare? Incappare in una
contraddizione
ci spinge alla disperazione
solo perché,
imprigionati da quel paradigma
edificatorio,
non riusciamo più ad uscirne?
Per quanto possa apparire
distante, il problema
concerne sempre quel rapporto
fra mondo e
teoria che chiamiamo verità.
Una volta accettato
il mondo non concrescente
con le sue teorie,
ci troviamo imprigionati
dal paradigma mondo-teoria-verità-sul-mondo.
del tutto corrispondente
a quello edificatorio
fondazioni-edificio-regole
di costruzione
che, come un sistema viario,
ci guida nel
mondo.
Il problema delle antinomie
e le preteorie
gerarchiche
Il problema delle antinomie
preoccupò Wittgenstein
e non solo limitatamente
al periodo del Tractatus. La soluzione proposta nel Tractatus, benché tecnica, lo è in maniera del tutto
particolare poiché la messa
in causa dell'opposizione
Dire/Mostrare propone elementi
analogici
del tutto estranei alla
coniugazione del
paradigma tutto "logico",
trasmesso
dalla precedente riflessione
filosofica.
Successivamente Wittgenstein
abbandonò ogni
tentativo di soluzione
tecnica; il problema
non è più la soluzione
dell'antinomia, ma
lo statuto stesso della
contraddizione. Nei
Fondamenti Wittgenstein
affronta più volte
il problema. L'atteggiamento
generale è di
sdrammatizzare il problema,
di evitarlo come
si evita un burrone e di
irridere alla morbosità
con cui la si vuol guardare.
A volte tende
a ridurre le antinomie
ad equivoci: se asseriamo
che un punto C è sia a
destra che a sinistra
di un punto A, esprimiamo
una contraddizione
solo se i punti giacciono
su una retta, ma
asseriamo una proposizione
del tutto accettabile
se i punti giacciono su
un circolo. In altre
occasioni mette in evidenza
la sua ininfluenza
nel calcolo mentre in altre
ancora insinua
che la contraddizione possa
avere compiti
o impieghi ”sensati” in
campi molto lontani
dalla logica quale quelli
legati al mistico
o al religioso.
L'atteggiamento di Wittgenstein
non è quello
del precursore di logiche
paraconsistenti
o tolleranti verso contraddizioni
locali,
non lo è perché non c'è
in lui alcuna intenzione
di formalizzazione di alcuna
logica alternativa
meno che mai una logica
paraconsistente o
inconsistente; il richiamo
è piuttosto alle
attività della vita e ai
suoi giochi; in
alcuni di questi la rappresentazione
drammatica
dell'antinomia non ha luogo,
in altri si
dissolve, in altri ancora
può essere oggetto
di adorazione misterica
e, dove proprio non
si riesce ad esorcizzare
il suo aspetto abissale
di buco nero, è insensato
drammatizzare:
piuttosto che buttarsi
nel baratro è meglio
allontanarsi, o gettare
un ponte o chiudere
gli occhi per non patire
inutili vertigini
o semplicemente mettere
un cartello "STOP-PERICOLO-ANTINOMIA".
Alla base di questi atteggiamenti
sta il
fatto che nonostante le
antinomie, la matematica
funziona e che se questa
funziona la malattia
non è grave. Dunque non
dramma, ma apparenza
di dramma. La contraddizione
non può far
vacillare "il"
palazzo erodendo
le sue fondazioni semplicemente
perché non
c'è fondazione e non c'è
palazzo.
Wittgenstein parla di giochi
linguistici,
ma non approfondisce la
tematica di questi
"giochi". Anche
nelle Ricerche filosofiche, dove ben più ampio è lo spazio a essi dedicato
(soprattutto in connessione
al problema della
definizione dei concetti),
non va oltre l'analisi
di concetti elementari
costruiti con operazioni
su predicati. Una concezione
limitativa e
vincolata ad una analisi
tradizionale. Wittgenstein
non vede la possibilità
di possibili costruzioni
concettuali al di fuori
della concettualità
verticale. Per questo motivo
la metafora
dell'edificio, dei fondamenti,
della non
drammaticità della antinomia
appare sfocata.
In definitiva, anche se
seguiamo Wittgenstein,
dobbiamo concludere che
al gioco della logica
non possiamo giocare fino
in fondo senza
che il gioco scompaia.
Allora è un gioco
antinominico? Ma quali
sono le regole per
costruire giochi non antinominici?
Il problema
non scompare. Wittgenstein
non si pone il
problema di una concettualità
sequenziale
o circolare; la sua nuova
concettualità respinge
un vecchio paradigma, ma
non ne vede altri;
non li vede neppure in
quello stesso agire
quotidiano e vitale a cui
spesso si richiama.
Non vede che altri paradigmi
sono già operanti
nell’operare umano e in
altre macchine che
non siano quelle costruite
poggiando mattoni
su mattoni.
La difficoltà ad accettare
un sapere senza
fondamenti è tuttora estremamente
difficile,
perché connaturato con
una sapienza preteorica
di tipo combinatorio gerarchico
che costituisce
la nostra apertura concettuale
e operativa
verso il mondo. E' il nostro
stesso pensiero
a tradirci: la preteoria
è così connaturata
in noi da essere coercitiva.
L'incapacità
di pensare il teorizzare
senza fondamenti
o, addirittura, il cercare
un paradigma di
filosofia che fonda la
mancanza di fondazione,
mostra la profonda coercizione
che questo
paradigma esercita su di
noi e la nostra
grande difficoltà di uscire
dai suoi binari.
Una delle domande a cui
si deve dare risposta
riguarda proprio l’esistenza
di questo paradigma,
di questa sua stabile solidità,
della sua
coercitività nei nostri
confronti, della
sua strutturalità nel nostro
aprirsi e agire
nel mondo della vita. Perché
un sapere preteorico?
Perché il saper preteorico
verticale?
Gerarchie combinatorie
con inizio e termine,
esistenza di un mondo,
di una verità sul
mondo, relazioni, oggetti,
solidità e principi
logici sono schemi di uno
stesso coacervo
fondamentale di preteorie
e abitudini che
determinano il nostro orizzontarsi
nella
vita: un paradigma d’ordine
così solido da
costituire esso stesso
il "fondamento"
vero, nonostante tutte
le crepe e i buchi
ciechi a cui la storia
del pensiero ci ha
“abituato”. Non solo le
antinomie, ma anche
il proliferare verticale
e trasversale di
teorie, il concetto di
verità, l’impossibilità
di chiudere la serie di
cause, la causa incausata,
il motore immoto, gli assiomi
e così via.
Si può pensare a una casa
i cui muri poggiano
sulle fondazioni e queste
sul terreno, ma
si può pensare anche a
un albero le cui radici
diffuse tutto intorno si
abbarbicano nel
terreno, si nutrono da
esso e ricavandone
nutrimento e facendo crescere
l'albero, creano
le condizioni stesse per
cui l'albero perdendo
le foglie alimenta il proprio
terreno e cresce
con esso. Se si allarga
un po’ la visuale,
ci si accorge che il sistema
albero non comprende
solo l'albero ma tutto
l'ambiente che è in
concrescita con esso; cresce
l'albero. cresce
il terreno, cresce l'interscambio
fra l'ambiente
e l'albero.
Con questa consapevolezza
riesce difficile
assegnare l'albero al terreno,
o all'ambiente
o a se stesso o al proprio
seme. Tutti questi
fattori hanno una loro
storia che è la storia
dell'albero e a cui l'albero
in ogni sua
situazione di vita è assegnato
sia come passato
e sia come via tracciata
nel futuro.
Del resto la concettualità
gerarchica è presente
in tutta la storia del
pensiero, è una concettualità
consolidata, un'apertura
verso il vivere
che ha funzionato, funziona
e funzionerà.
Il suo carattere preteorico
mette in luce
il carattere funzionale.
Come ogni teoria,
come ogni paradigma, anche
quello combinatorio-gerarchico
è assimilante, conquista
e perde il “mondo”
e non è la preteoria totale.
Note:
1) sarebbe più esatto dire:
simuliamo il
funzionamento di concetti.
La differenza
ha che fare con la differenza
fra calcolo
e simulazione, fra simulazione
analogica
e calcolo digitale, ma
in questo caso l'uso
improprio non porta fuori
strada.
ES - pubblicato febbraio 2013
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PENSATORI CITATI
Hilbert, Kroneker, Peano, Bernays,
Russell,
Carnap, Wittgenstein, Heidegger, Bachelard
Concetti e testi citati
pensiero finitista, intuizionismo, concettualità
preteorica, riduzionismo, Principia, somiglianze
di famiglia, antinomia, Osservazioni sopra
i Fondamenti della Matematica
Ludwig Wittgenstein
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