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Verso altri paradigmi
LA DETERMINAZIONE DEL SIGNIFICATO

di Ezio Saia
Come ogni teoria, come ogni paradigma, anche quello combinatorio-gerarchico è assimilante, conquista e perde il “mondo” e non è la preteoria totale.

Il fatto che il mondo sia l’essere, che il mondo sia il linguaggio, che il mondo sia l’insieme dei mondi, l’insieme delle preteorie e teorie, che il mondo sia l’io e che contemporaneamente non sia tutte queste cose, noi non riusciamo a dirlo; come ciò accada ugualmente non riusciamo a dirlo. Gli stessi termini “io”, “mondo”, “linguaggio”, “essere” e così via appaiono irrimediabilmente legati, compromessi, costruiti con quella concettualità preteorica, combinatorio-gerarchica che ci guida nel nostro vivere lungo rotaie così rigide e radicate nella nostra storia biologica e sociale da farci dimenticare non solo il fatto che il nostro viaggio avviene su quelle rotaie, ma anche che esistano quelle rotaie. Le nostre preteorie, i linguaggi e i mondi non sembrano contenere la possibilità di concettualizzare un accadere diverso.
Questo non vuol dire che altre vie concettuali non possano essere individuate. Per esplorare questa possibilità è utile fare un passo indietro.
Nella prima parte si è parlato indifferentemente di schemi concettuali, di teorie, di sistemi di orientamento; questi termini assumono nella letteratura filosofica contemporanea significati differenti e queste differenziazioni avvengono in un qualche modo in relazione al concetto di verità anche quando gli approdi convergono verso un’affermazione, secondo la quale dal linguaggio non si esce.
La domanda sul concetto di verità è complessa ed è posta col presupposto spesso non confessato che a questo tipo di domanda si deve a tutti i costi dar risposta. Qual è l’ambito della verità? Dove si situa? Come va definita? Queste sono le tipologie di domanda che già nella loro formulazione mostrano una genesi entro paradigmi vecchi perché vecchio è il polo concettuale e vecchia la semantica che ruota attorno a questo polo.
La filosofia sul linguaggio e sulla verità dà, nelle sue argomentazioni spesso artificiosamente difficili, contorte, linguisticamente e concettualmente elaborate, l’impressione che più che contaminate da errore siano affette da stanchezza. E’ come se tutto fosse stato detto e ridetto e da quel detto e ridetto non si potesse uscire, se non per la porta d’ingresso attraverso la quale si è entrati buttando a mare la formulazione iniziale e quindi il concetto di verità.
Tutto questo avviene senza che neppure vengano cercati nuovi paradigmi di cui si possa parlare, in un isolamento ferocemente filosofico, cercato, ribadito e ostentato soprattutto rispetto al linguaggio tecnico e scientifico. L’avvertimento-invito formulato da Bachelard affinché i pensatori della filosofia compiano uno sforzo per comprendere il linguaggio della scienza e le sue innovazioni, è per lo più dimenticato, mentre assume quasi un significato sacrale l’invito di Heidegger a dialogare con i poeti.
Inutile dire che dai poeti emergono soluzioni poetiche e non concettuali. Il “romanzo” è l’accadere del concepimento o della nascita (nel senso rispettivamente di far emergere e di emergere) di individui in opposizione alla concettualità che comunque è costretta per la sua stessa natura alla soppressione-assimilazione degli individui.
Ma anche quando l’opzione poetica viene respinta, le risposte sono comunque una rimasticazione trita e ritrita di concettualità già esplorate, che, più che una ricerca, rinviano a una non ricerca, a un rinvio dei problemi, con la consapevolezza o la speranza che quello stesso problema muoia naturalmente per consunzione d’interesse e muoia con esso il senso della domanda.
L’argomento preliminare di questa ricerca sarà dunque la concettualità in generale e più in particolare l’analisi di quella concettualità che possiamo contrassegnare con i termini di “combinatoria” o “piana” o “lineare” o “verticale” e le cui caratteristiche verranno definite gradualmente.

Semantica verticale e riduzionismo.
Se cerchiamo il "senso" del termine "sei" in un gioco d'estrazione rispettivamente tra dieci numeri e tra cento numeri, non potremo dire che questo "senso" è lo stesso nei due giochi, anche se compare lo stesso termine "sei" e anche se questo stesso termine pare riducibile al concetto di numero "sei" che sovra ordina entrambi. E’ la stessa misura della quantità di informazione, così come è utilizzata nello studio delle trasmissioni, a dirci che, mentre il primo "sei" richiede una codifica binaria di tre variabili, il secondo ne richiede una di almeno sette. Questa differenza di "bit" misura qualcosa e significa qualcosa; un qualcosa che certamente contribuisce alla formazione del "senso" o del contesto di senso nei due casi.
Il senso del termine "nero" è diverso se ci riferisce al "nero" di una fotografia a colori o al "nero" di una fotografia in "bianco e nero". Né potremo in nessuno dei due casi degli esempi precedenti ricorrere solo a qualcosa di extraverbale; Wittgenstein insegna che il ricorrere a una tavoletta nera per eseguire comparazioni ci dice ben poco; non solo perché esistono vari tipi di nero, non solo perché dovremmo definire in maniera più o meno arbitraria il confine tra questo e altri colori, ma anche perché dovremmo in qualche maniera accompagnare la presentazione della tavoletta con un'indicazione verbale che, in questo caso, farebbe da ponte da un mondo simbolico a un altro. dove i simboli sono parole. Per far ciò dovremmo presentare un enunciato. (E presentare un enunciato del tipo "Questo è rosso" presuppone, come dice Wittgenstein, un bel po' di conoscenza del linguaggio.)
In casi come questi, che, in definitiva, sono la totalità, nel senso di un termine (quel "nero" della fotografia) entra tutto un sistema di concetti e d'informazioni che ci dicono in quale sistema concettuale stiamo lavorando (se nella fotografia a colori o in bianco e nero, di quante alternative di colore stiamo parlando, ecc.)
Il senso non può non tener conto di queste alternative di predicati né dell'insieme delle gerarchie di concetti coordinati, subordinati e sovra ordinanti che formano il contesto semantico della teoria in cui ci esprimiamo e che lo delimitano rispetto alle teorie.

Il senso in un sistema classificatorio
Tutto diventa semplice in un sistema classificatorio ordinato gerarchicamente, e certamente Carnap, quando parla della possibilità di riduzione a termini osservativi del concetto di artropodi mediante una definizione del tipo: "animali con corpo segmentato e con estremità articolate", si trova in queste semplici condizioni. Quando le cose stanno come sopra, dove ci si limita a “dare” il senso in riferimento a un modello, sembra ragionevole parlare del senso di un termine come del posto occupato nelle tautologie, in cui quel termine si connette con altri. In questo caso, conosciuto interamente il sistema classificatorio, il senso del termine è, relativamente al sistema, interamente definito dalla sua posizione nella struttura del sistema.
Disgraziatamente, quando si parla di concetti ci si riferisce in genere al tipo di concettualità più semplice, secondo la quale un predicato definisce un concetto. Questo punto di partenza è buono, come, in genere, è buono qualsiasi analisi che parta dal semplice per approdare al complesso. Non è quindi il punto di partenza che non funziona, il guaio sta nel fatto che, per quanto concerne l'area dei concetti, spesso il punto di partenza è anche il punto di arrivo.
Si parla di concetti e si torna sempre ai predicati. Anche se si avverte che l'area concettuale, non solo nelle teorie, ma nella stessa vita quotidiana, è molto più complessa, la tendenza è quella di pensare i concetti come costruzioni con semplici operazioni su predicati. L'analisi della concettualità si è sbizzarrita in senso estensionale e intensionale e nell'esame dei rapporti fra estensione e intensione, più che nel tentativo di andare oltre quelle operazione di combinazioni logiche di predicati, operazioni tutte riducibili all'operatore barra, ai quantificatori e, al più, a qualche tipo di operazione aritmetica o analogica. In ogni caso si limita l’analisi sempre entro concettualità combinatorie, quasi che le concettualità sequenziali non esistessero.
Eppure in matematica, in filosofia, nella vita reale, nella tecnica si parla e si agisce maneggiando concettualità complesse, sequenziali, autocorrettive, retroazionate, stabili o instabili, tutte irriducibili a operazione su predicati. Si usano concetti disposizionali e sequenziali, ma si trascura con disinvoltura l'analisi di questi concetti, quasi come se tutti i predicati per il solo fatto di essere espressi da un simbolo, fossero tutti simili fra loro. Questo è di fatto un riduzionismo inconfessato.

Il secondo Wittgenstein
Anche il Wittgenstein delle Ricerche non pare andare oltre alla caratterizzazione concettuale come operazione di predicati: prendiamo dei predicati, li combiniamo con operazioni logiche e otteniamo concetti, oppure estensionalmente parliamo di classi, le riuniamo, le intersechiamo, ne ricaviamo come risultato una classe. Wittgenstein non esce da questo schema; alla fine conclude (vedi l'esempio dei giochi) che si riesce a concettualizzare ben poco e che è meglio abbandonare tutti questi inutili sforzi e parlare, ad esempio, di somiglianze di famiglia. Lo stesso concetto di "concetto"- e questo è un tema ricorrente in Wittgenstein - riunisce troppe cose diverse che non hanno alcuna nota comune, ma solo somiglianze di famiglia.
All'interno di quell’insieme che Wittgenstein definisce di "giochi linguistici" il suo ragionamento pare inconfutabile, ma tutto il ragionamento è viziato dai limiti entro i quali lavora. Paradossalmente lavorare con concetti semplici porta a conclusioni più limitative. Il presupposto di questi esiti sta nel fatto che, se neppure nella semplice concettualità predicativa si riesce a definire i concetti, è inutile andare oltre.

Verso altri tipi di concettualità
Non bisogna andare molto lontano per allargare il nostro orizzonte: qualsiasi esposizione teorica, i fatti della nostra vita, come le macchine che vengono usate quotidianamente, richiedono in genere, per comprendere il loro funzionamento, paradigmi concettuali diversi.
Per quanto sembri incredibile, quando noi costruiamo una "macchina" che, sollecitata da certi stimoli (ingressi), reagisce con determinate risposte (uscite), noi "costruiamo" concetti. (1) Una certa abitudine a una concettualità di tipo analitico, che oltretutto ha dimostrato di non saper andare lontano, ha fatto sì che si sia indotti a credere che le teorie vadano edificate su concetti come si edifica un edificio sovrapponendo mattoni e non viceversa che i concetti si costituiscano all'interno delle teorie e vengano definite da queste. Accettato questo punto di vista, diventa facile accettare che il funzionamento di un sistema, di una macchina, possa definire un concetto o una pluralità di concetti.

Il problema del riduzionismo.
Il problema del riduzionismo potrebbe essere condensato in una domanda: esiste la possibilità di ridurre le nostre conoscenze ad un albero del sapere? Questa domanda può essere esemplificata con domande più deboli e parziali del tipo: la fisica è riconducibile a una teoria dei fenomeni? La matematica è riducibile alla logica? Le varie discipline scientifiche sono riconducibili a un'unica scienza?
Volendo restringere, almeno inizialmente, il campo e rivolgere l'attenzione a un singolo problema, assunto come esemplare, è difficile non scegliere quello della riduzione della matematica alla logica, sia perché ampiamente dibattuto, sia per la forte personalità filosofica dei molti pensatori che lo affrontarono anche indirettamente. Paradigmatici sono i percorsi filosofici di Russell e Wittgenstein, deciso sostenitore il primo della riducibilità della matematica alla logica, ferocemente contrario, il secondo.
La novità della posizione di Wittgenstein non fu tanto nel fatto di rifiutare questo o quel riduzionismo, ma di rifiutarne l'idea come abito mentale. In questo senso non confuta questa o quella teoria riduzionista con argomenti presi dall'interno. Discutere secondo simili modalità significherebbe accettare almeno parzialmente il terreno e le regole dell'avversario e quindi un tipo di logica e un contesto teorico e semantico, che una volta accettato, definisce irrimediabilmente il contesto di senso e non senso che è invece l'effettivo argomento da discutere. Accettando quel contesto si presuppone, non la validità di quello o questo paradigma di riduzione, ma la possibilità che un simile paradigma esista.
Il riduzionismo è possibile e sensato purché se ne intendano i limiti (questo Wittgenstein non lo comprende). Il problema della validità del riduzionismo e di questa o quella riduzione ricalca il problema della verità del teorizzare o di questa o quella teoria.
Anche qui è una questione funzionale e la riduzione è una teoria che ci dà informazioni. Frege e Russell costruiscono una teoria in cui i numeri sono definiti logicamente e insiemisticamente e, anche se i numeri inseriti in questa teoria non sono più numeri nella loro completezza di significato, questo non vuol dire che la teoria di Frege e Russell e, quindi, la loro riduzione della matematica alla logica, sia insensata. Sbagliavano Russell e Frege a ritenere di aver ridotto la Matematica alla logica e sbaglia Wittgenstein a ritenere questa riduzione priva di ogni senso. Il problema del riduzionismo è, in questo senso, un falso problema; come tutte le teorie, assimila, informa e, informando, occulta e deforma. Il riduzionismo è una forma di assimilazione.

Nonostante ciò, sembrerebbe che il problema del riduzionismo sia un problema di grado e che sia pressoché impossibile dare una risposta generale se non si dà una risposta al problema primario di cosa siano le teorie in generale, ma questo non vuol dire che ogni riduzione sia insensata. Se così fosse non funzionerebbe nulla nel nostro comprenderci e nel nostro comunicare. Riconoscere che il nostro comunicare non è una completa babele significa accettare una certa possibilità di operare riduzioni.
Un atteggiamento antiriduzionista anima le Osservazioni sopra i Fondamenti della Matematica e non solo in relazione al riduzionismo matematico. L’antiriduzionismo si manifesta in maniera così radicale da indurre Bernays a bollare il testo come un irrazionale atteggiamento distruttivo, condotto senza alcun chiaro fine verso il pensiero speculativo.
Le Osservazioni non hanno un impianto unitario; sono successioni di pensieri, esempi, impressioni, appunti, scritti in periodi diversi, in preparazione, forse, di un saggio che poi non fu mai scritto. Un filo conduttore però c'è. Wittgenstein si esprime sia contro il formalismo, sia contro il logicismo e in genere contro ogni pretesa di dare un fondamento, un impianto unitario alla matematica. Anche se talvolta il suo discorso ricalca il pensiero finitista o intuizionista, Wittgenstein è in effetti lontano da ogni teorizzazione. Sembra quasi che la sua profonda avversione per ogni dottrina, per ogni teoria che sarebbe, in ogni caso, "una" (sola) teoria sul "mondo" (tutto), lo metta in guardia dall'esprimere una sua teoria. Il suo atteggiamento filosofico è ossessivamente avverso a ogni tentativo che, in qualche modo, cerchi di unificare concettualmente tutto ciò che va sotto il nome di "Matematica". Tutto il trattato è un ossessionante esposizione di esempi a confutazione del principio di estensionalità: per Wittgenstein il pensiero secondo il quale concetti con ugual estensione sono interscambiabili è una malattia.
Se i rappresentano, in matematica, l'estremo riduzionismo (dove il riduzionismo avviene dalla matematica alla logica), gli sparsi pensieri di Wittgenstein rappresentano l'antiriduzionismo teorico estremo, che si manifesta come opposizione a ogni unità di significato della matematica e quindi a ogni tipo di fondazione della stessa matematica.
Così il numero 60 non è lo stesso che il numero 6x10 (la pratica della vita lo testimonia: si può essere capaci di fare sei mucchietti da dieci o dieci da sei senza saper contare fino a 60), la retta popolata da numeri non rappresenta la potenza del continuo, il calcolo letterale è irriducibile a quello numerico, il calcolo nella notazione decimale è altra cosa rispetto a quello eseguito con bastoncini. I numeri del pallottoliere non sono quelli definiti dal logicismo.
Tutto ciò non viene argomentato, ma viene illustrato da esempi che fungono da esemplari. Per Wittgenstein tutto il riduzionismo si basa sulla perdita d'identità, sul camuffamento: "Se li avvolgiamo in una quantità sufficiente di carta, tavoli, sedie, sbarre, alla fine, ci sembrano sfere." (2.52).
Secondo le Osservazioni un numero irrazionale è la legge che lo genera. In casi come questi, sembra che, per Wittgenstein, il carattere definitorio sia di tipo genetico, ma qui il “genetico” non è né sistematico né definitorio e pare più l'occasione per divaricare identità e negare possibilità d'estensione. Questa impressione trova piena conferma in altre occasioni quando, ad esempio, viene più volte ribadito che la proposizione finale di un teorema non trova il suo senso in se stessa, ma lo riceve dal processo di calcolo, tramite il quale a essa siamo pervenuti. E' lo stesso calcolo, con cui perveniamo a un numero, a dar il senso di quel numero. Paradossalmente qui si potrebbe sostenere che se una stessa p può essere dimostrata con due o più metodi, quelle p non possono condividere pienamente il senso.
Wittgenstein non dà alcun peso al fatto che con i “numeri” della logica si riesca a pervenire agli stessi teoremi a cui si perviene con i “numeri” della matematica. Per lui i due tipi di numeri non sono gli stessi numeri. Fare calcoli con numeri grandi diventa impossibile se si usano i numeri intesi come classi di classi ed è inutile dire che in teoria sarebbe possibile; anche misurare la distanza dalla terra alla luna con un righello in teoria è possibile, ma in effetti non si può fare. Altrove Wittgenstein sostiene che non ha lo stesso senso chiedere "Hai cinque cani?" ed esprimere la stessa domanda in termini di classe di classi.
Come si vede l'opposizione verso il principio di estensionalità è radicale. Possiamo assimilare fra loro numeri diversi, ma solo al prezzo di camuffarli, di perdere qualcosa (ad esempio, la semplicità di certe operazioni, la loro coordinazione nelle varie notazioni posizionali), di ridurli a maschere impotenti e goffe. Il formalismo logico, lungi dal fondarli, li appesantisce e li traveste.
Al più Wittgenstein sarebbe disposto ad ammettere che i numeri dei Principia sono cose che, all'interno dei Principia e del suo orizzonte teorico, si comportano più o meno come gli altri tipi di numeri all'interno dei rispettivi orizzonti teorici, ma, in ogni caso, quei numeri non sono quegli altri numeri: i numeri dei Principia non sono quelli di Peano, non sono quelli dell'abaco e neppure quelli di Kroneker.

Concettualità gerarchica
Nella filosofia della matematica soprattutto, ma in tutte le teorie in generale, il problema della possibilità del riduzionismo presuppone il problema dei fondamenti e quest'ultimo è intimamente connesso con la possibilità di risoluzione delle antinomie. Il discorso delle antinomie, benché collegato al problema dei fondamenti della matematica, è in realtà più vasto e si spinge al di là dei suoi confini. Basti pensare alla semantica del principio assoluto e della causa assoluta, dove la connessione delle cause spinge sempre più in alto lungo una catena che non può aver fine. Grossolanamente la catena infinita è presupposta dal principio universale che tutto è causato mentre la fondazione della catena afferma che qualcosa è causa incausata e questa è una contraddizione.
Le antinomie in logica sono state il vero rompicapo, l'ostacolo, la barriera con cui il teorizzare secondo un certo paradigma doveva confrontarsi. Lo sono state in una tal misura da indurre pensatori come Russell e Frege a credere che non si potesse procedere oltre senza aver risolto "quel problema", dove "quel problema" non si riduceva alla soluzione di questa o quella antinomia, ma riguardava la risoluzione generale del problema delle antinomie. Il problema, visto sotto questa luce, non è stato risolto.
Gerarchizzazioni di oggetti, espressioni secondo tipi o ordini, introduzioni di sistemi di assiomi ad hoc, ecc., evitano pericolose proliferazioni di questi oggetti mostruosi che divorano se stessi, evitano questa o quella antinomia o tutte le antinomie conosciute, ma non garantiscono che altre sconosciute non siano in agguato. Anche il programma di Hilbert che si prefiggeva la dimostrazione della coerenza della totalità delle discipline matematiche ha trovato ostacoli insuperabili.
Storicamente l'avventura delle antinomie assume le caratteristiche di una narrazione drammatica. Questa storia narra come la costruzione dell'edificio logico-matematico crescesse regolarmente e assolvesse altrettanto regolarmente ai suoi compiti fino a che non venne scoperta (o costruita) la prima antinomia. Tutto, dunque, funzionava senza problemi e tutto crollò miseramente dopo quella scoperta. Questi eventi non paiono solo svolgersi sul piano narrativo e storico-temporale, ma anche sul piano teorico ed atemporale fino ad indurci a riflettere come sia possibile che la matematica prima funzionante diventi, con la scoperta dell'antinomia, inaffidabile.
Eppure da una contraddizione antinominica si derivano tutti i teoremi e tutte le loro negazioni e questo è tanto incontestabile quanto il fatto che una proposizione falsa implichi tutte le proposizioni. Questa circostanza indica il punto focale del problema e ci rivela, forse, che nel ragionare sulle teorie si è in balia di metafore coercitive.
E’ come se in un palazzo, in cui si abita felicemente, un bel giorno venisse scoperto un errore di calcolo nel progetto e questa scoperta causasse l’immediato crollo del palazzo, come se la sua tenuta strutturale dipendesse non dalla gracilità della costruzione conseguente all’errore di calcolo ma dall'essere o non essere a conoscenza di questo errore.
Tornando alla metafora dell'edificio, può apparire perlomeno bizzarro cercare lumi su un problema, indagando sulle anomalie di un’analogia campata in aria. Se paragoniamo il deserto a un mare di sabbia, non per questo ci sentiamo costretti, consapevolmente o inconsapevolmente, a inferire una corrispondenza puntuale tra animali del mare e animali del deserto. Anche qui però un esempio non può divenire un esemplare e dare garanzie verso metafore e analogie più antiche, più comunicative e più consolidate a livello funzionale, biologico e operativo. In effetti colle analogie ci capiamo e le usiamo normalmente, anche se con opportune precauzioni. Nel nostro pensare, costruire teorie, operare informaticamente ci serviamo di componenti analogiche e paradigmi il cui uso è così radicato, collaudato e operativo da agire come un vero e proprio campo coercitivo già a livello di linguaggio.

Preteorie e campi di coercizione
In effetti questi veri campi di coercizione esistono a vari livelli. La coercizione dei sensi è potentissima, come lo è l'esigenza del pensare metafisico o di pensare secondo certi principi logici, ecc. E' la forza di questa coercizione ad aver fatto assumere ai loro oggetti, nella storia del pensiero, il valore di "fondamenti", ossia di verità certissime su cui costruire il nostro sapere. Non deve stupire quindi un'indagine su dove cada l'analogia dell'edificio reale costruito su fondamenta con l'edificio teorico del nostro sapere.
Una teoria è una struttura particolare? Noi scopriamo la contraddizione o la costruiamo? L'edificio esiste con la sua struttura verticale, con le sue fondazioni, i suoi pilastri, i suoi piani che poggiano uno sull'altro e tutti sulle fondazioni o in effetti tutta la struttura è circolare?
Noi assimiliamo gli assiomi a fondazioni su cui si basano i teoremi, così come le fondazioni reali reggono la casa; la teoria regge se abbiamo usato correttamente le regole d'inferenza e derivato correttamente i teoremi dagli assiomi così come diciamo che la casa è stabile se costruita secondo le regole della scienza delle costruzioni. Non è questo un parlare profondamente metaforico? È grazie a un pensare di questo tipo, appoggiato a un "fare" tecnologico”, (inteso in senso ampio di "agire vitale con strumenti") che noi "comprendiamo" il connettersi di proposizioni in teorie? E’ o non è l’idea dell’edificio strutturale che, articolandosi in senso verticale, ci fa erigere analoghi monumenti teorici, anch’essi articolati verticalmente, oscurando così la natura circolare e retroazionante del pensare? Incappare in una contraddizione ci spinge alla disperazione solo perché, imprigionati da quel paradigma edificatorio, non riusciamo più ad uscirne?
Per quanto possa apparire distante, il problema concerne sempre quel rapporto fra mondo e teoria che chiamiamo verità. Una volta accettato il mondo non concrescente con le sue teorie, ci troviamo imprigionati dal paradigma mondo-teoria-verità-sul-mondo. del tutto corrispondente a quello edificatorio fondazioni-edificio-regole di costruzione che, come un sistema viario, ci guida nel mondo.

Il problema delle antinomie e le preteorie gerarchiche
Il problema delle antinomie preoccupò Wittgenstein e non solo limitatamente al periodo del Tractatus. La soluzione proposta nel Tractatus, benché tecnica, lo è in maniera del tutto particolare poiché la messa in causa dell'opposizione Dire/Mostrare propone elementi analogici del tutto estranei alla coniugazione del paradigma tutto "logico", trasmesso dalla precedente riflessione filosofica. Successivamente Wittgenstein abbandonò ogni tentativo di soluzione tecnica; il problema non è più la soluzione dell'antinomia, ma lo statuto stesso della contraddizione. Nei Fondamenti Wittgenstein affronta più volte il problema. L'atteggiamento generale è di sdrammatizzare il problema, di evitarlo come si evita un burrone e di irridere alla morbosità con cui la si vuol guardare. A volte tende a ridurre le antinomie ad equivoci: se asseriamo che un punto C è sia a destra che a sinistra di un punto A, esprimiamo una contraddizione solo se i punti giacciono su una retta, ma asseriamo una proposizione del tutto accettabile se i punti giacciono su un circolo. In altre occasioni mette in evidenza la sua ininfluenza nel calcolo mentre in altre ancora insinua che la contraddizione possa avere compiti o impieghi ”sensati” in campi molto lontani dalla logica quale quelli legati al mistico o al religioso.
L'atteggiamento di Wittgenstein non è quello del precursore di logiche paraconsistenti o tolleranti verso contraddizioni locali, non lo è perché non c'è in lui alcuna intenzione di formalizzazione di alcuna logica alternativa meno che mai una logica paraconsistente o inconsistente; il richiamo è piuttosto alle attività della vita e ai suoi giochi; in alcuni di questi la rappresentazione drammatica dell'antinomia non ha luogo, in altri si dissolve, in altri ancora può essere oggetto di adorazione misterica e, dove proprio non si riesce ad esorcizzare il suo aspetto abissale di buco nero, è insensato drammatizzare: piuttosto che buttarsi nel baratro è meglio allontanarsi, o gettare un ponte o chiudere gli occhi per non patire inutili vertigini o semplicemente mettere un cartello "STOP-PERICOLO-ANTINOMIA".
Alla base di questi atteggiamenti sta il fatto che nonostante le antinomie, la matematica funziona e che se questa funziona la malattia non è grave. Dunque non dramma, ma apparenza di dramma. La contraddizione non può far vacillare "il" palazzo erodendo le sue fondazioni semplicemente perché non c'è fondazione e non c'è palazzo.
Wittgenstein parla di giochi linguistici, ma non approfondisce la tematica di questi "giochi". Anche nelle Ricerche filosofiche, dove ben più ampio è lo spazio a essi dedicato (soprattutto in connessione al problema della definizione dei concetti), non va oltre l'analisi di concetti elementari costruiti con operazioni su predicati. Una concezione limitativa e vincolata ad una analisi tradizionale. Wittgenstein non vede la possibilità di possibili costruzioni concettuali al di fuori della concettualità verticale. Per questo motivo la metafora dell'edificio, dei fondamenti, della non drammaticità della antinomia appare sfocata. In definitiva, anche se seguiamo Wittgenstein, dobbiamo concludere che al gioco della logica non possiamo giocare fino in fondo senza che il gioco scompaia. Allora è un gioco antinominico? Ma quali sono le regole per costruire giochi non antinominici? Il problema non scompare. Wittgenstein non si pone il problema di una concettualità sequenziale o circolare; la sua nuova concettualità respinge un vecchio paradigma, ma non ne vede altri; non li vede neppure in quello stesso agire quotidiano e vitale a cui spesso si richiama. Non vede che altri paradigmi sono già operanti nell’operare umano e in altre macchine che non siano quelle costruite poggiando mattoni su mattoni.
La difficoltà ad accettare un sapere senza fondamenti è tuttora estremamente difficile, perché connaturato con una sapienza preteorica di tipo combinatorio gerarchico che costituisce la nostra apertura concettuale e operativa verso il mondo. E' il nostro stesso pensiero a tradirci: la preteoria è così connaturata in noi da essere coercitiva. L'incapacità di pensare il teorizzare senza fondamenti o, addirittura, il cercare un paradigma di filosofia che fonda la mancanza di fondazione, mostra la profonda coercizione che questo paradigma esercita su di noi e la nostra grande difficoltà di uscire dai suoi binari. Una delle domande a cui si deve dare risposta riguarda proprio l’esistenza di questo paradigma, di questa sua stabile solidità, della sua coercitività nei nostri confronti, della sua strutturalità nel nostro aprirsi e agire nel mondo della vita. Perché un sapere preteorico? Perché il saper preteorico verticale?
Gerarchie combinatorie con inizio e termine, esistenza di un mondo, di una verità sul mondo, relazioni, oggetti, solidità e principi logici sono schemi di uno stesso coacervo fondamentale di preteorie e abitudini che determinano il nostro orizzontarsi nella vita: un paradigma d’ordine così solido da costituire esso stesso il "fondamento" vero, nonostante tutte le crepe e i buchi ciechi a cui la storia del pensiero ci ha “abituato”. Non solo le antinomie, ma anche il proliferare verticale e trasversale di teorie, il concetto di verità, l’impossibilità di chiudere la serie di cause, la causa incausata, il motore immoto, gli assiomi e così via.
Si può pensare a una casa i cui muri poggiano sulle fondazioni e queste sul terreno, ma si può pensare anche a un albero le cui radici diffuse tutto intorno si abbarbicano nel terreno, si nutrono da esso e ricavandone nutrimento e facendo crescere l'albero, creano le condizioni stesse per cui l'albero perdendo le foglie alimenta il proprio terreno e cresce con esso. Se si allarga un po’ la visuale, ci si accorge che il sistema albero non comprende solo l'albero ma tutto l'ambiente che è in concrescita con esso; cresce l'albero. cresce il terreno, cresce l'interscambio fra l'ambiente e l'albero.
Con questa consapevolezza riesce difficile assegnare l'albero al terreno, o all'ambiente o a se stesso o al proprio seme. Tutti questi fattori hanno una loro storia che è la storia dell'albero e a cui l'albero in ogni sua situazione di vita è assegnato sia come passato e sia come via tracciata nel futuro.
Del resto la concettualità gerarchica è presente in tutta la storia del pensiero, è una concettualità consolidata, un'apertura verso il vivere che ha funzionato, funziona e funzionerà. Il suo carattere preteorico mette in luce il carattere funzionale. Come ogni teoria, come ogni paradigma, anche quello combinatorio-gerarchico è assimilante, conquista e perde il “mondo” e non è la preteoria totale.
Note:
1) sarebbe più esatto dire: simuliamo il funzionamento di concetti. La differenza ha che fare con la differenza fra calcolo e simulazione, fra simulazione analogica e calcolo digitale, ma in questo caso l'uso improprio non porta fuori strada.

ES - pubblicato febbraio 2013

PENSATORI CITATI
Hilbert, Kroneker, Peano, Bernays, Russell, Carnap, Wittgenstein, Heidegger, Bachelard


Concetti e testi citati
pensiero finitista, intuizionismo, concettualità preteorica, riduzionismo, Principia, somiglianze di famiglia, antinomia, Osservazioni sopra i Fondamenti della Matematica


Ludwig Wittgenstein