Teorie come vivere
Universali, Leggi, Teorie
di Ezio Saia
Le leggi generali e, in genere, le espressioni
quantificate sono compendi
di informazioni?
Assolvono solo una funzione
economica? La
questione non è da poco,
se si pensa che
coinvolte non sono solo
le leggi scientifiche,
ma problemi delicati e
vitali quali l’omologazione
del singolo al gruppo inteso
come totalità.
Tutto il nostro vivere
ne è coinvolto; tanto
quello ‘intellettuale’
quanto quello quotidiano;
avere un’abitudine significa,
infatti, comportarsi
in conformità ad essa e
questo sottintende
o è descritto da forme
del tipo: “Tutte le
volte che mi trovo in queste
situazioni.
agisco in questa maniera”.
Una trattazione
delle leggi universali
ed esistenziali deve,
dunque, in qualche modo
coinvolgere e tenere
conto di tutte le sfaccettature
e le maschere
sotto le quali esse si
presentano.
L’interpretazione delle
espressioni quantificate
divenne nella prima metà
del ‘900 per molti
pensatori un’ossessione.
Esemplare, a questo
proposito, è il percorso
di Ramsey che, inizialmente,
ispirandosi alle teorie
del Tractatus, aveva proposto di interpretarle come congiunzioni
o disgiunzioni di proposizioni
calcolabili
e decidibili come vere
o come false. In seguito
rinnegò questa impostazione:
constatato che
(x)fx non può essere scritta
come congiunzione
se non in caso di classi
finite per le quali
si disponga di una regola
applicativa, si
rese conto che un'espressione
contenente
"tutti…" si presenta
come “una
carta geografica estesa
all'infinito che
non potrebbe né essere
letta né seguita per
cui un nostro qualsiasi
viaggio sarebbe finito
prima che avessimo bisogno
delle parti più
remote”.
Ramsey, però, era ben cosciente
che, per
poter pensare le proposizioni
in termini
di verità o falsità, bisognava
per forza
pensarle come congiunzioni
di proposizioni,
anche se come tali non
potevano essere espresse.
Le ragioni “teoriche” pro
e contro sembravano
dunque inconciliabili,
se ci si ostinava
a considerarle in termini
di verità. Ramsey
abbandonò questo punto
di vista e propose
di interpretarle, non come
proposizioni,
ma come regole per formare
proposizioni,
Se le espressioni quantificate
non sono giudizi
ma regole per giudicare
e, quindi, schemi
d'orientamento nel mondo,
un problema di
verità non si pone; come
schemi e regole
di formazione, passando
dallo statuto teorico
a quello pratico, dal sistema
delle verità
a quello delle credenze,
non possono essere
né affermate né negate,
ma solo “adottate
o respinte”;
Queste conclusioni rafforzano
un’interpretazione
delle teorie come sistemi
di orientamento
per il nostro vivere nel
mondo e ci spingono
verso territori, quali
l’operare quotidiano
e il nostro passato storico-biologico,
entrambi
lontani da quelli abitualmente
assegnati
alle teorie.
Di fatto teorie e preteorie
regolano la nostra
vita e l’hanno sempre regolata
anche quando
il termine “teoria“ neppure
esisteva. Posiamo
una mela sul tavolo e siamo
certi che questa
non sparirà né si fonderà
con esso. In sostanza
agiamo in coerenza con
regole, con teorie,
con saperi certi e con
‘probabilità a priori’
di tipo abitudinario sopravvenuti
come strumenti
per affrontare il futuro,
del cui stato non
siamo neppure coscienti.
All’inizio di questo secolo,
la quasi totalità
dei pensatori era ossessionata
dall’idea
di dare oggettività al
sapere probabilistico.
Keynes, addirittura, teorizzava
che esistessero
nella realtà relazioni
logiche di probabilità
fra proposizioni, che tali
relazioni fossero
accessibili e che, infine,
questa accessibilità
costituisse la corrispondenza
tra gradi di
probabilità e gradi di
credenza. Più credibili
erano le teorie frequentiste
che basavano
il grado di probabilità
su frequenze statistiche.
La teoria funzionava in
molti campi, ma era
del tutto impotente in
relazione all’assegnazione
di probabilità a eventi
singoli.
Che l’agire e il decidere
umano, in condizioni
di incertezza, fossero
conseguenti alle credenze
probabilistiche era ovvio
per tutti, ma prevaleva
l’idea che queste credenze
si basassero su
qualcosa di reale e di
oggettivo. Né andava
diversamente per l’induzione.
Hume aveva
dimostrato l’irriducibilità
del processo
induttivo alla logica formale.
Tutti i tentativi
per demolire gli argomenti
di Hume, anche
quello di Kant, non avevano
avuto successo,
eppure l’opinione che la
logica induttiva
dovesse trovare una sua
fondazione “razionale”,
per il bene stesso della
“razionalità”, era
così forte che gli insuccessi
gettavano nello
sconforto i loro sostenitori,
ma non li inducevano
a ripensare l’obiettivo.
Broad giunse a dichiarare
che il problema irrisolto
dell’induzione
era uno “scandalo della
filosofia” e Russell
che senza soluzione a questo
problema “non
si dà alcuna differenza
intellettuale fra
normalità e pazzia.”
Le teorie come soggetti
La soluzione allo ‘scandalo’
non andava cercata
in una dimensione di verità
inumane ed eterne,
ma in una dimensione antropologica,
trasferendo
l’indagine dal sistema
delle verità a quello
delle credenze. Non: “perché
l’induzione
è vera?”, ma: “perché e
in qual misura crediamo
nell’induzione?”
Anche se l’uomo crede nell’induzione
“in
modo abitudinario” e non
intellettuale, altrimenti
non sarebbe sopravvissuto,
anche se più che
i concetti di “verità”
o di “realtà” sono
interessati piuttosto quelli
di “utilità”
e di sopravvivenza, si
constata che il concetto
di verità è così coercitivo
e radicato, da
non poter essere estromesso
da quel paradigma
che costituisce, nello
stesso tempo, il mondo
e il nostro vivere nel
mondo. Noi abbiamo
bisogno di decidibilità
e il linguaggio di
verità ci offre proprio
quell’articolazione
di certezze per muoverci
in quel mondo da
esso stesso colonizzato.
Parliamo di probabilità
e ci esprimiamo con
proposizioni vero-decidibili,
parliamo di
generalità e ci esprimiamo
con proposizioni
vero-decidibili. La nostra
spinta sul linguaggio
e sul mondo si esprime
proprio in quella
direzione vero funzionale
di un mondo finito
e di un’unica tautologia
che lo organizzi.
E’ l’organizzazione di
decidibilità a garantire
il nostro orizzontarsi
vincolando ad essa
e a qualsiasi prezzo, la
forma linguistica.
Non sappiamo che numero
uscirà gettando i
dadi, ma inventiamo il
concetto di “probabilità”
e su questo costruiamo
connessioni di teorie
per poterci esprimere con
proposizioni del
tipo “La probabilità che
esca il 6 è pari
ad un sesto” che, essendo
decidibili come
vere o come false, possono
costituire un
frammento di tautologia
totale. Lo stesso
si può dire delle asserzioni
di generalità.
I connettivi sono i testimoni
della spinta
linguistica a creare tutte
le possibili risorse
per ridurre ogni informazione
a proposizione
decidibile.
Parlare dell’“utile” come
criterio di validità
sostitutivo del vero appare
del tutto insoddisfacente
anche perché non sappiamo
bene cosa si intenda
con questo termine. Eppure
l’induzione non
è che uno dei brandelli
teorici di cui ci
fidiamo perché ci è utile
e vitale. Ci fidiamo
della nostra vista, del
nostro udito, della
nostra memoria, dell’esistenza
del mondo,
della sua costituzione,
e dell’esistenza
di una verità. Lo facciamo
perché ci è utile,
perché, se non lo facessimo,
saremmo paralizzati,
perché il mondo ci apparirebbe
come un pauroso,
doloroso, mortale groviglio
inestricabile.
Qui non è in gioco un calcolo
di utilità
secondarie, ma la nostra
stessa possibilità
di vivere e sopravvivere,
soprattutto in
riferimento al nostro passato
biologico più
antico, poiché, se non
si fossero formate
queste forti credenze abitudinarie,
noi,
oggi, non saremmo.
Certamente memoria, vista,
udito possono
ingannarci, ma nel lungo
cammino evolutivo
e culturale abbiamo imparato
a cautelarci.
Lo abbiamo imparato così
bene e con risultati
così vantaggiosi che il
fidarci dei sensi
e della memoria sono divenuti
comportamenti
e saperi abitudinari e
preteorici.
La credenza abitudinaria
nei nostri sensi,
l’induzione, l’esistenza
di un mondo, di
un soggetto, di una relazione
di verità,
di un ordine e di una verità
sul mondo, con
tutti i loro relativi corollari
di assimilazioni
teoriche, sono da un lato
abitudini e, dall’altro,
teorie. Esse vivono dentro
di noi indipendentemente
dalle riflessioni “culturali”
sopravvenute
quando ormai tali credenze
si erano strutturalmente
assestate come porte di
accesso al mondo
e come sistemi d’orientamento
per il nostro
vivere: un mondo da esse
colonizzato che
si presenta a noi con i
suoi oggetti e i
suoi eventi connessi in
una fitta e inestricabile
matrice di anticipazioni
teoriche. Alla base
del nostro agire sta un
coacervo di saperi
abitudinari e preteorici
che costituisce
il nostro paradigma fondamentale.
Vivendo la vita e il mondo,
viviamo teorie.
Se i sensi sono per noi
coercitivi, non meno
lo sono le teorie connesse.
Antiche teorie
e antichi saperi assumono
il significato
di paradigmi generali di
comportamento come
metaforiche rotaie che
percorrono il mondo
e ci costringono su di
esse, anche se intellettualmente
non ne abbiamo mai conosciuto
l’esistenza.
Questo significa anche
ricercare la preistoria
biologica che è in noi,
dove non sono solo
le teorie che abbiamo elaborato
e collaudato
secondo canoni intellettuali
a poterci illuminare.
I nostri saperi preteorici
e biologici dobbiamo
trovarli in quel mondo
di “oggetti” e di
“fatti "che si offrono
a noi come forme
solide, eterne e stabili
di riferimento.
Esistenze che mai ci tradiscono.
Nel mondo
degli oggetti e dei fatti
troviamo le tracce
di una colonizzazione lontana,
troviamo i
presupposti di quel nostro
sapere antico,
consolidato verbale e preverbale,
ma comunque
teorizzante, su cui tutti
gli altri saperi
si appoggiano: quelle rotaie
su cui scorrono
tutte quelle che, restrittivamente,
oggi
chiamiamo “teorie”, tutti
quei comportamenti
e quelle abitudini che
classifichiamo come
"istintivi" e
"innati".
Sono teorie che ci vivono
in maniera così
coercitiva da non permetterci
di affermare
che noi viviamo in conformità
a esse. Le
teorie sono e assumono
il significato di
Soggetti Attivi.
La primitiva domanda che
recitava: “Come
decidiamo della bontà delle
teorie?” non
ha perso la sua attualità,
ma ha cambiato
il suo senso. I primitivi
interrogativi sulle
teorie che riguardavano
problemi circa la
natura teorica, le condizioni
di verità,
la natura ontologica si
sono rivelati non
pertinenti, hanno cambiato
forma e riguardano
ora l’estensione, la funzione
e il senso
delle teorie e dell’agire
teorico nel nostro
vivere, da ricercarsi nelle
loro genesi come
Soggetti.
Assegnazione al passato
del senso del vivere
teorico
Il senso del nostro essere
nel mondo come
viventi è assegnato al
dispiegarsi del nostro
passato; non ad un singolo
cominciamento
nel passato e neppure al
passato “storico”
depositato nei documenti
e nelle narrazioni.
Quest’ultimo presuppone
un linguaggio e dei
sistemi di rappresentazione
nei quali già
è depositato un vincolante
sapere preteorico;
quindi una grammatica del
senso e la costituzione
di un mondo di oggetti,
di eventi e di gerarchie
che costituiscono un paradigma.
La ricerca
del senso del nostro vivere
va ricondotto
non solo al passato storico,
ma al passato
“biologico” dell’uomo mammifero,
rettile,
pesce, avendo come punto
d’approdo il ritrovamento
del senso del nostro operare
informatico,
scientifico assimilatorio.
Bisogna procedere lungo
la strada dei bisogni.
Perché abbiamo bisogno
di teorie? Perché
non possiamo vivere senza?
Cosa ha indotto
l'uomo nel suo percorso
evolutivo a produrre
teorie e a divenire l'uomo
informatico? Se
teorizzare vuol dire assimilare
e assimilare
vuol dire da una parte
conquistare, ma dall'altra
perdere il mondo, perché
l'uomo ha intrapreso
questa strada informatica
di perdita/conquista
e non quella di comunione
col mondo? Certamente
l'uomo non ne occupa una
nicchia né lo contempla:
la sua apertura verso di
esso è di assimilazione,
di utilizzo e di tirannia.
Questo è il vivere che
la nostra biologia
ha adottato? Siamo noi
ad aver selezionato
queste abitudini? O sono
esse ad averci selezionato
e a viverci?
A questo punto una concezione
delle teorie
come sistemi d'orientamento
appare troppo
riduttiva. Non appena,
però, si approfondisce
la “minimalità” di questo
senso, ci si accorge
che è tutt'altro che minimale.
Se l’insieme
dei giudizi, delle paure,
dei pregiudizi
costituisce la casa simbolica
trasmessaci
dalla nostra cultura, l’assimilazione
del
mondo costituisce in senso
ampio, la casa
simbolica trasmessaci dalla
nostra stirpe;
un assimilare e rendere
compatibile al nostro
essere nel mondo l'essere
del mondo esterno;
un mondo esterno che, se
non assimilato,
se non mappato, ci appare
incomprensibile
e minaccioso. La mancanza
di informazioni
costituisce per noi l'ignoto,
l’imprevedibile,
la paura. Dobbiamo vivere
e agire senza poter
anticipare gli eventi,
mentre intorno a noi
le cose si evolvono incomprensibilmente,
generando situazioni che
percepiamo come
ostili, pericolose e aliene.
Il disordine, l’incomprensione
e la minaccia
sono nel nostro sangue
connessi al dolore,
alla menomazione e alla
morte, secondo una
teoria che ci vive e che
è costitutiva del
nostro vivere. Le teorie
sono le nostre difese.
Rappresentano l’attività
di trasformazione
dell’incomprensibile in
comprensibile, del
caos in progetti di sicurezza.
Così noi mutiamo
un mondo, pericoloso, ostile
e indifferente
per disporlo di fronte
a noi come domato,
usabile e benigno. Il teorizzare
viene ad
assumere il significato
“forte” di costruzione
di mondi sicuri.
Una teoria funziona quando
migliora il nostro
muoverci in sicurezza nel
mondo. Muoverci
in sicurezza significa
evitare situazioni
di pericolo, portatrici
di dolore. Sentiamo
il dolore e soffriamo,
ma non ci limitiamo
a soffrire. Sappiamo che
il dolore è un messaggio
di pericolo e una richiesta
di manutenzione.
Ce lo dicono oggi esplicitamente
le teorie
biologiche, ma il nostro
sangue lo sa da
sempre; questa conoscenza
è anch’essa un
sapere preteorico, antico,
strutturale e
coercitivo, senza il quale
noi non saremmo.
Il messaggio di dolore
è anche un messaggio
di morte, un messaggio
che, trascurato, elimina
il nostro vivere. Questo
non vuol dire che
il senso del nostro vivere
deve essere rinviato
a quell’evento totale che
è la morte. Attribuire
a un evento, nel suo essere
terminale di
una catena di connessioni,
la proprietà di
assorbire su di sè la totalità
del senso,
è un errore paradigmatico,
così come, in
altri tempi, lo era quel
rinvio del senso
del vivere umano alla causa
prima, identificata
in un dio motore o creatore.
Il senso va
invece rinviato a quel
percorso di evoluzione
dell’uomo dominatore, alla
storia di quell’essere
che si prefigura e si destina
immortale sulle
morti di noi singoli mortali,
a quella colonizzazione
del mondo che ci vive,
a quel coacervo di
preteorie e comportamenti
che costituiscono
il mondo; una storia a
cui il nostro essere
come individui e come stirpe
è assegnata
nel generarsi dei sensi.
Il fondamento
L’esistenza di un mondo
e di una verità sul
mondo costituisce il fondamento
del paradigma
verticale. Un fondamento
lo esigono la sua
funzione di casa sicura,
di sistema d’orientamento,
la forma del paradigma
che procede per catena
di cause, di derivazioni,
di subordinazioni
e la sua semantica che
trovando la distribuzione
dei propri sensi nelle
connessioni di teorie
e preteorie genera costantemente
quel rinvio
di senso che ha anche la
funzione di delega
di responsabilità.
Quello stesso paradigma
che per esistere
come tale esige un fondamento
e, nello stesso
tempo, per la sua struttura
proliferatrice
all’infinito di teorie
e di deleghe di senso,
nega il fondamento. Il
paradigma è in se
stesso, nelle sue basi
di senso, contraddittorio.
La ricerca del fondamento
di senso ci spinge
o verso l’informazione,
alla ricerca di una
differenza significativa,
o verso ciò che
non è teoria.
La seconda è la via di
ritrovamento del mondo
che si appella ai dati
sensibili. La sua
base è la coercitività
dei sensi, almeno
in quelle forme più brutali
di dolore e di
piacere, che, nel loro
essere patite come
esterne, appaiono come
certamente reali e
immuni da ogni contaminazione
teorica. Anche
qui l'obiettivo è quel
mondo oggettivo delle
cose e degli oggetti, che
da un lato si vorrebbe
precategoriale, mentre
dall'altra si vorrebbe
solido, reale, completo
di tutti quegli oggetti
che sentiamo pesanti o
leggeri, taglienti
o non taglienti, caldi,
o freddi, e che,
in ogni caso, indifferenti
a tutte le nostre
angosce, alle nostre pazzie
e ai nostri sogni,
sono sempre lì, nel perdurare
della loro
solidità, a offrirci quell'ancora
di salvezza
che mai ci ha abbandonato.
Se gli oggetti
sono geneticamente teorici,
le sensazioni
di dolore e di piacere
sembrano pure e immuni
da contaminazioni teoriche.
Qui ci attende però una
delusione che, del
resto, tutta la nostra
storia, tutto il nostro
teorizzare, tutta la nostra
esperienza, hanno
già prefigurato come una
sconfitta. Già la
multiformità delle idee
sulla realtà indica
stratificazioni culturali
o teoriche, a cui
neppure la coercitività
delle sensazioni
sfugge; tutto assume il
senso di segnale
d’informazione; anche quelle
sensazioni fisiche
di dolore, che parevano
all'esperienza ingenua
dolori e basta, ora assumono
l'abito dei
segnali che stanno per
sofisticate informazioni
di manutenzione, organizzate
in feedback.
L’uomo che non sente il
dolore non sopravvive
e l’uomo che non sentì
il dolore non poté
sopravvivere. Senza un
sistema organizzato
di segnalazione di guasti
non si esegue manutenzione
e, senza manutenzione,
si muore. Il dolore
ci giunge con connessioni
parallele di pericolo,
di paura, di manutenzione
in un coacervo
di messaggi che testimoniano
forme di anticipazioni
e connessioni teoriche.
Anche la ricerca di un
fondamento, in una
differenza così significativa
da essere fondante,
non porta in alcun luogo
Un mondo da ritrovare
non c’è, come non c’è una
fondazione di cominciamento
come suggerirebbe l’assegnazione
al passato.
Anche qui la tentazione
è quella di ripercorrere
un viaggio a ritroso alla
ricerca di quel
fondamento che diviene
fondamento di esistenza,
di senso e di verità. Ma
vanamente noi ripercorreremmo
la nostra storia biologica
alla ricerca del
sopravvenire di quella
singola differenza
che possa darci il fondamento
di significato.
Il processo logico di questo
percorso non
può che, di differenza
in differenza, sfociare
nell'indifferenziato totale
in cui non c’è
alcun principio di senso.
Se si accetta poi
che il sopravvenire delle
differenze (come
recita Darwin) sia casuale,
scompare anche
l'idea di fondamento come
causalità per via
gerarchica, per cui il
nostro essere si consegna
veramente a una storia
senza un cominciamento
che possa illuminare il
senso del nostro
vivere.
Il mondo come stratificazione
di teorie
Insomma non si riesce a
toccare il mondo;
anche il mondo è teoria;
non una teoria,
ma un agglomerato stratificato
di teorie.
Come se tutto ciò che chiamiamo
mondo, nella
sua multiformità di volti,
ivi compreso quello
della molteplicità di oggetti,
non fosse
che un'altra rassicurante
casa simbolica,
quella stessa che la specie
ha codificato
come bussola fondamentale
di funzionalità.
Il “nostro mondo” è una
stratificazione di
teorie, è la casa simbolica
della “nostra”
stirpe.
Non a caso non si deve
parlare del mondo
come di una teoria, ma
di molte teorie stratificate,
in parte alternative, in
parte neppure comunicanti.
Una sola teoria non potrebbe
essere la teoria
né potrebbe essere il mondo,
per l’intrinseca
+natura funzionale delle
teorie. Proprio
per questa molteplicità
le teorie manifestano
il loro carattere di adattamento
e funzionalità,
di provvisorietà e scelta.
La complessità
e la molteplicità del vivere
esigono più
di un sistema d'adattamento,
più di un sistema
di orientamento. Non una
casa, ma molte case,
non un solo abito, ma molti
abiti, non una
sola corazza, ma molte
corazze; una molteplicità
di teorie che ci abitano
come soggetti ordinatori
della nostra vita. Il mondo
come casa simbolica,
gli oggetti come costrutti
teorici si presentano
come l'esterno già colonizzato
dalle teorie
del nostro passato biologico-teorico.
Il mondo è un coacervo
di teorie stratificatosi
come casa simbolica totale.
Le teorie sono
tendenzialmente assestate
secondo organizzazione
unitaria perché, solo così
connesse, possono
costituire quello che può
costantemente ispirare
e dar luogo a un comportamento
che comunque,
vivendo, decide. Questo
non potrebbe certo
accadere entro una pluralità
disorganizzata
di sistemi d’orientamento.
Assestamento unitario non
significa assestamento
secondo un unico paradigma.
Il mondo non
è una sola teoria ma, appunto,
un coacervo
di teorie stratificate:
l'assestamento delle
teorie non avviene secondo
il (e neppure
secondo un) concetto logico
di coerenza.
Il mondo è un coacervo
di teorie anche contraddittorie
che di volta in volta si
presentano e a cui
di volta in volta si attinge.
Teorizzare è un agire per
raggiungere ciò
che vogliamo e per evitare
ciò che temiamo.
Lo è in due sensi. E’ un
agire a bassa energia
che si attua in quel pensare
addebitato allo
spirito e un agire ad alta
energia per elaborare,
collaudare, consolidare
quel pensare. Le
due cose non sono disgiunte
perché non pensiamo
solo con la testa né agiamo
solo col corpo.
Teorizzare è un agire sul
mondo. Non descrizione
ma manipolazione. Il mondo
viene assimilato,
funzionalizzato all'uso
e alle informazioni.
La produzione dell’informazione
e la loro
organizzazione in teorie
comporta una conquista
e una +++perdita. Il mondo
si rivela e si
nasconde attraverso l'informazione,
il cui
processo di produzione
costituisce una limitata
chiave d’accesso al mondo.
Le teorie sono per noi
corazze, armi e case
simboliche. Il nostro sistema
di abitarle
si è specializzato, complicato,
sofisticato,
così come le nostre abitazioni,
ma non per
questo il nostro vivere
ha cessato d’essere
anche un "abitare
le nostre teorie";
in entrambi i casi è pur
sempre un tetto
simbolico unito a pareti
simboliche che ci
proteggono da un mondo
ostile o che crediamo
ostile, indifferente o
che crediamo indifferente.
Una concezione delle teorie
come sistemi
d'orientamento, lungi dal
considerare le
teorie "romanzi d'idee",
fa del
teorizzare una necessità
connessa al vivere
nel mondo, da cui il vivere
stesso non può
disgiungersi perché è il
vivere stesso a
presupporre la propria
protezione. Noi siamo
obbligati, vivendo, a teorizzare
così come
la vita ci vive nell’attività
teorizzante.
Vivere senza teorie sarebbe
come vivere nudi.
Le teorie ci abitano come
protagonisti forti;
tanto forti da costituire
la nostra vita,
a cominciare dai nostri
comportamenti più
banali. Sono case, abiti,
strumenti, armi
che si interpongono fra
noi e ciò che non
è noi, che, in questo loro
modularsi, possono
manifestare tutto il loro
potere, perché
la casa simbolica può diventare
un labirinto
o una prigione, crollare
o cacciarci fuori
in un eterno e ansioso
trasferimento.
Teorizzare come vivere.
Irrimediabilità della
perdita.
Il problema non sta però
in una ricerca delle
possibili patologie delle
nostre case simboliche
quanto nella patologia
generale che riguarda
la vitale necessità di
teorizzare e l'aspetto
assimilatorio di tutte
le teorie. Di per
sé una teoria è innocua.
Le stesse procedure
del prodursi di un modello
o di una teoria,
identificando la perdita,
ne sdrammatizzano
il +++pericolo. Potremmo
affermare che qualsiasi
teoria lascia il mondo
come era, come se
fosse sufficiente retrocedere
da quella singola
teoria per riconquistarlo.
Ma se così fosse, perché
un’ostilità così
diffusa contro la scienza
e le teorie?
E’ chiaro che il problema
non è la singola
teoria, ma l'attività del
teorizzare e quindi
l'attività del vivere teorizzante
e domandante
a tutto campo. La condanna
delle teorie non
tocca questa o quella teoria.
L’enorme, tenace
inimicizia, l’ostilità
diffusa contro la
scienza, vista come minaccia
sia all’umanesimo
che alla comunione con
il mondo, non è diretta
contro questa o quella
singola teoria ma
contro il vivere teorico
e contro il mondo
teorizzato, entrambi interpretati
come sinistre
minacce contro l’“umanità”
del vivere.
Di fatto noi continuiamo
a teorizzare, a
domandarci, a rispondere,
a conquistare e
a perdere. L’assimilazione
e la perdita si
rinnovano, si riconfermano
e si autoalimentano
perché noi continuiamo
a teorizzare con la
stessa intensità con cui
continuiamo a parlare
con il linguaggio di verità.
L’uomo è un
operante teorico vissuto
dalle teorie. L’uomo
è anche il proprio sapere
teorico in virtù
del quale è sopravvissuto
come tale. Il teorizzare
è il suo peccato originale
senza il quale
non sarebbe. Vivere-Essere
vissuto dalle
teorie è la dimensione
umana della sopravvivenza.
Se teorizzare è una colpa
perché si perde
il mondo, allora anche
il pensare articolato,
il comunicare, il produrre
sensi è una colpa
e questo essere colpevole
è costitutivo dell’uomo.
Non esiste l’uomo incolpevole
se non quello
morto.
Noi siamo condannati a
teorizzare. Siamo
condannati alla domanda,
siamo condannati
all’informazione dal successo
del teorizzare,
che si autoalimenta e che
non può non autoalimentarsi
perché la sua natura è
anche in questo inarrestabile
autoalimentarsi, e dall’insuccesso
dell’uomo,
nel quale una domanda tenace,
ostinata, cieca
non si è stabilizzata come
funzione e apertura.
Non appartiene alla nostra
libertà il soggiacere
o il non soggiacere all’aprirsi
verso il
mondo senza occhio teorizzante.
A tutti gli
effetti siamo di fronte
a un rovesciamento
del paradigma tradizionale
agire/patire nei
confronti delle teorie.
Non siamo noi ad
agire facendo teorie, ma
le teorie o la nostra
natura teorizzante e totalizzante
agisce
in noi e nonostante noi.
Questo sovrapporsi di paradogmi,
di cui si
appena parlato o di sensi,
costituisce un
campo di ramificazioni
richiama verso quelle
autentiche case simboliche,
angeli custodi,
peccati capitali, violenti
padroni che sono
le teorie. Non la morte,
non la finitezza
solamente, ma l’orientamento
generale dell’uomo
a vivere, sperimentare,
ubbidire a teorie:
non lo sperimentare, il
‘vivere secondo’,
l’ubbidire a teorie, ma
il selezionarsi come
vincenti su quelle sofferenze
e quelle morti
di quegli altri soggetti
che sono i singoli
mortali. La storia dell’accadere
dell’imporsi
delle teorie, come presenze
attive in ogni
singolo mortale sacrificabile,
che è stato
e sarà sacrificato, se
inadatto. dall’Essere
destinalmente immortale,
è l’Essere teorizzante.
Non unicità del paradigma
gerarchico
L’unita concettuale del
nostro conoscere
come dislocazione del fondamento
ha sempre
trovato una sua versione
paradigmatica nella
metafora concettuale di
un albero del sapere
che esaurisca il conoscibile
nelle forme
di una Teoria Unitaria.
Ma l’idea di un albero
del sapere è stata irrimediabilmente
screditata
dal fallimento del riduzionismo.
L’olismo
di Quine rappresenta forse
la più moderna
riproposta di una concezione
unitaria del
sapere come organizzazione;
una concezione
che però presenta anche
i sintomi della sua
negazione.
Quine ci rappresenta il
complesso delle teorie
sul mondo con un'immagine
metaforica, che
è contemporaneamente una
teoria globale circa
il sapere e una nuova proposta
circa la forma
e la struttura dell'albero
del sapere.
La sua teoria è di tipo
olistico e in diretta
concorrenza contro le teorie
verificazioniste
derivanti in qualche modo
dal primo neopositivismo.
Quine nega che un singolo
enunciato o una
singola teoria possano
essere verificate
e con ciò sostiene l'esistenza
di una totale
interconnessione del sapere.
Per Quine le nostre conoscenze,
connesse
in un sistema di teorie,
costituiscono metaforicamente
un campo che solo ai suoi
bordi può essere
verificato. Scienze come
la logica e la matematica
occupano le zone più interne
del campo mentre
le scienze naturali occupano
le zone più
periferiche; proprio quelle
periferie, dove
in qualche modo il campo
tocca il mondo e
può essere collaudato su
questo.
Secondo la teoria di Quine,
quei confronti
ai bordi del campo possono
confermare o non
confermare le teorie del
campo e quando non
le confermano provocano
un mutamento del
nostro sapere e, quindi,
della conformazione
del campo. Questi assestamenti
interessano
in genere le teorie più
periferiche e meno
sicure, ma, qualora ciò
non fosse possibile,
l'assestamento dovrà avvenire
su teorie più
interne e più sicure.
La "sicurezza"
di teorie più forti
come la logica e la matematica
dà loro una
posizione quasi intoccabile.
Noi siamo sicuramente
molto riluttanti ad accettare
modifiche alle
teorie più certe anche
perché le loro leggi
fungono da presupposto
per tutte le altre
e una modifica di questi
presupposti avrebbe
conseguenze e metterebbe
in gioco la validità
di tutte le teorie del
campo. Dovendo scegliere
fra il modificare una regola
logica e una
legge naturale, è più semplice
modificare
la seconda perché la modifica
della prima
sconvolgerebbe tutto il
campo e richiederebbe
non solo una sua completa
revisione.
Quine ha indubbiamente
ragione quando sostiene
la quasi intoccabilità
di teorie forti come
la logica e la matematica;
noi siamo, infatti,
sicuramente molto riluttanti
ad accettare
modifiche alle teorie più
certe le cui leggi
fungono da presupposto
per il sapere in generale.
Una modifica di questi
principi logici, che
solo all'inizio del XX
secolo parevano montagne
di solidità, viene riconosciuta
dagli esiti
di quelle stesse filosofie
nate come costruzione
teoriche per trasformare
quelle solidità
in eternità e universalità.
Le logiche paraconsistenti,
quelle alternative, lo
stesso principio di
"tolleranza"
di Carnap non sono
che le varie e multiformi
affermazioni di
questa nuova mentalità
svincolata da quelle
mitiche sicurezze. Lo stesso
Bohr non si
fece certo condizionare
da timori di lesa
maestà quando costruì il
suo (incoerente
da questo punto di vista)
modello di atomo.
Il principio di indeterminazione,
l’accettazione
di una luce che è insieme
onda e corpuscolo,
gettano lunghe ombre proprio
su questi principi
che in precedenza avevano
funzionato così
bene da creare il mito
della loro universale
ed eterna validità.
Pur nei suoi meriti la
teoria di Quine ha
però una profonda debolezza.
Veri punti delicati
sono il suo ambito troppo
limitato, la gerarchia
delle discipline più profonde
e quel collaudo
o controllo o verifica
ai bordi sulla quale
si basa tutta la struttura
del campo.
L'ambito limitato si riferisce
a ciò che
Quine intende per sapere
e conoscenza e che
non si estende comunque
oltre quel sapere
da lui considerato scientifico.
A questo
limite, che esclude ogni
valore conoscitivo
alla metafisica, alla poesia,
all'arte in
generale, è collegata anche
la scelta della
logica e della matematica
come discipline
più sicure e più consolidate
che occuperebbero,
secondo Quine, le zone
più interne del campo
dove le eventuali modifiche
si irrigidiscono.
E' chiaro che Quine, che
pure adotta una
visione pragmatista della
conoscenza, si
dimentica di quei paradigmi
e preteorie che
sono alla base non solo
del nostro ragionare
preteorico ma che costituiscono
quelle configurazioni
per cui si possono sviluppare
quelle discipline
così certe come la matematica
e la logica.
Tralasciando per ora la
ben più complessa
discussione su come possano
essere fatte
le verifiche ai bordi del
campo, è chiaro
che con qualche procedura
questo confronto
deve pur avvenire. Il che
vuol dire che verranno
coinvolti principi logici
come quello di
contraddizione o del terzo
escluso; come
è pure chiaro che entreranno,
in qualche
modo, in gioco l'induzione,
alcune leggi
generali, una varietà di
strumenti di misura,
ecc. Insomma c'è tutta
una serie di teorie
e di strutture preteoriche
che non possono
non esserci come presupposto
necessario affinché
quel "confronto"
ai bordi del campo
possa avvenire. Ebbene
l'insieme di queste
preteorie la cui origine,
formazione, integrazione
si perde nella storia del
nostro vivere,
non è un albero unitario
del sapere, ma un
coacervo di teorie che
comprende certamente
principi, indirizzi e teorie
che "occupano"
i posti più interni del
campo del sapere.
La teoria di Quine ha,
comunque, una struttura
concettualmente circolare
proprio per il
carattere problematico
di quella "verifica
ai bordi". Anche la
sua cultura pragmatista
ci invita a considerare
la struttura del
campo come circolare.
Di montagne di solidità,
oltre che a proposito
della concettualità gerarchica,
possiamo
parlare a proposito di
quei principi logici
di cui il sapere tradizionale
ha spesso,
se non quasi sempre, cercato
di dimostrare
una validità assoluta e
a cui ha assegnato
l’unità del sapere. Platone
costruisce un
mondo delle idee e Aristotele
argomenta che
se si vuole argomentare,
si devono accettare
certi principi che costituiscono
il presupposto
stesso del ragionamento
perché non si dissolva.
Questi principi sono il
punto focale di una
disputa che coinvolse Heidegger
e Carnap.
Carnap analizzò alcune
proposizioni di Heidegger
in cui il termine "nulla"
veniva
usato come soggetto, mostrando
come con questo
uso improprio venisse violato,
in frasi come
"Il nulla esiste",
lo stesso principio
di non contraddizione.
Carnap non riconosceva
al pensiero di Heidegger
(come a tutto il
pensiero da lui definito
"metafisico")
un valore concettuale,
ma un valore esclusivamente
espositivo d'atteggiamento,
simile all'espressione
poetica, con la differenza
che la poesia
non rivendica pretese d'argomentazione
per
cui "In fondo i metafisici
sono musicisti
senza talento musicale".
L'attacco di
Carnap non si trasformò
in polemica. Paradossalmente
Heidegger fu d'accordo
con Carnap circa il
significato da attribuire
alla sua filosofia
o meglio non vedeva come
con due basi concettuali
così diverse ci fosse terreno
comune per
accendere una disputa.
Il suo atteggiamento
di fronte alle critiche
di Carnap fu che
il pensiero filosofico
non poteva dispiegarsi
mantenendo vincoli di rispetto
verso principi
come il principio di non
contraddizione;
per cui tanto peggio per
il principio di
contraddizione.
Di fatto Heidegger esprimeva
come esigenza
filosofica l'impossibilità
di potersi esprimere
nell'ambito di un linguaggio
vincolato alla
metafisica così come si
era dispiegata nella
cultura occidentale. Di
qui l'esigenza per
la filosofia di dover imparare
a dialogare
con i poeti.
E' difficile qui analizzare
il pensiero di
Heidegger. E' indubbio
che i nostri ragionamenti
siano vincolati dalla forma
stessa dell'argomentare,
ma questi vincoli, secondo
Heidegger, posti
dal linguaggio della metafisica,
non sono
certo da addebitarsi a
un percorso metafisico
che abbia una partenza,
ad esempio, con Socrate.
Questi sono vincoli legati
a preteorie e
forme linguistiche ben
più antiche, non databili
e assegnabili alla vita
e all'evoluzione
del dominio dell'uomo sul
mondo. Heidegger
aveva certamente ragione
a considerare la
metafisica una fisica perché
come questa
s'illude di raggiungere
il senso dell'essere
a partire dagli enti come
se questi fossero
il suo fondamento, ma l'impressione
è che
manchi a Heidegger un significato
genetico
degli enti che lo porti
a vedere il loro
valore funzionale e la
loro relatività e
subordinazione di senso.
Certamente una rappresentazione
analogica, ad esempio,
non ha bisogno del
principio di non contraddizione,
come non
ha bisogno di nessun altro
principio logico
e quindi di tutto quel
sapere preteorico
che il linguaggio trasporta
con le sue regole,
i suoi enti e quei principi
gerarchici di
cui si è parlato, ma una
rappresentazione
analogica è cieca e priva
di senso. C'è qui
una confusione sul significato
dell'"essere"
che verrà analizzata più
avanti, nell'ambito
di una "concettualità
destinale",
ancora da elaborare.
Questo non vuol certo dire
che Heidegger
avesse ragione. Una cosa
è buttare via un
principio consolidato e
dire "tanto
peggio", un'altra
è cercare di individuare
genesi e campi di validità
per poter, entro
quei campi, produrre argomentazioni
conseguenti.
Altrimenti l'obiezione
di Aristotele è invalicabile:
noi non possiamo argomentare
sull'invalidità
di un principio con argomenti
che lo presuppongono
senza produrre una disintegrazione
del senso.
Effettivamente Heidegger
non potrebbe neppure
argomentare senza delimitare
delle zone di
validità di quel sistema
logico che sorregge
il senso di quel suo argomentare.
Principi
come quello d'identità,
di non contraddizione,
del terzo escluso e così
via sono teorie
stabilizzatesi come abitudini
utili e vincenti
nel nostro uso del mondo.
Certamente senza
una forte credenza in essi
non potremmo vivere
né l'uomo sarebbe sopravvissuto
come quell'uomo
informatico che oggi è:
questo è il nostro
“peccato originale”, questa
è l’assegnazione
che fa dell'uomo nella
sua storia quell'essere
informatico che prefigura
la schiavitù del
suo destino.
Ma forse le cose sono più
complicate di quanto
appaiano.
Heidegger non sfugge alla
tentazione dei
profeti di identificare
l'uomo "autentico"
e di prescrivere quell'uomo
"autentico"
la cui realizzazione prefigura
nuove ere
“autentiche”. Non cade
nell'errore di condannare
la singola scienza o la
singola argomentazione
concettuale, ma invita
a dialogare con i
poeti al fine di recuperare
l’autenticità
del rapporto con l'Essere.
La dimensione
informatica dell’uomo viene
identificata
come un peccato che attende
redenzione.
Ma, se il teorizzare è
una colpa perché si
perde il mondo, allora
anche il pensare articolato
è una colpa, anche l’uso
del linguaggio dell’informazione
è una colpa. Il teorizzare
è una dimensione
strutturale dell’essere
dell’uomo e appartiene
al vivere dell’uomo in
quanto sopravvivente.
Paradigma verticale
Le teorie ci vivono secondo
una pluralità
di paradigmi. Una pluralità
dove, però, un
paradigma si è selezionato
come predominante
e vincente. E’ un paradigma
illimitato, verticale
e gerarchico secondo il
quale si procede
per concetti subordinati
per via logica,
per via temporale, ecc.
Questo rapporto diviene
fornitore di senso e giustificazione
d'esistenza
e di verità. La giustificazione
e il senso
vengono riportati alle
giustificazioni e
ai sensi del dispiegarsi
della gerarchia
vedi il rinvio di senso
creato dalla successive
cause incausate verità.
Più che una soluzione
appare un processo di rinvio
e una delega
di responsabilità, per
cui senso e verità
restano sospesi fino a
che tutta la catena
non viene fondata.
Entro il paradigma verticale
avviene il nostro
teorizzare sul mondo. Questo
non vuol dire
che sia quello giusto.
Vuol dire solo che
è quello che, come vincente,
ci vive. Che
ha funzionato e che funziona.
Non vuol neppure
dire che secondo esso e
da esso discenda
la comprensione e il senso
del nostro vivere.
Le domande che recitano:
1) come interpretiamo
e interroghiamo il mondo?
E 2) come dovremmo
interpretarlo e interrogarlo?
Hanno o possono
avere risposte differenti.
ES - pubblicato febbraio 2013
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PENSATORI CITATI
J. M. Keynes, D. Hume, I. Kant, C.
D. Broad,
B. Russell, W.V.O Quine, R.
Carnap, M. Heidegger
Concetti citati
Teorie, Anticipazioni teoriche, Conquistare,
Perdere, Assimilare. Mondi sicuri,
Preteorie,
Fondamento, Casa simbolica
Frank Pluton Ramsey
Frank Pluton Ramsey nacque nel 1903
. Figlio
del preside del Magdalene College, studiò
al Trinity college di Cambridge . Dopo
la
laurea, per interessamento di Keynes,
che
ne aveva grande stima, divenne fellow
all'età
di 21 anni e docente di matematica
(due anni
dopo) al King's College .
Divenuto docente di matematica non
limitò
a questa disciplina le sue ricerche,
ma si
dedicò all'economia, all'algebra astratta,
al calcolo della probabilità' e alla
logica,
privilegiandone gli aspetti epistemologici
e filosofici .
Russell e Wittgenstein, per la logica,
Keynes,
per la teoria della probabilità', furono
i 1 suoi primi importanti punti di
riferimento
. Dalla meditazione delle opere dei
primi
due nacquero le conferenze sui Fondamenti
della matematica della Logica matematica",
dal terzo trasse polemicamente lo spunto
per la sua opera incompiuta (e nemmeno
parzialmente
pubblicata mentre era in vita) su Verità e Probabilità'
Se le opere sulla logica matematica
erano
in, un certo senso, di retroguardia,
l'opera
sulla probabilità,def inita da De Finetti^
come un'oasi in terra di Babele, è
un'opera
veramente innovativa e anticonformista,
in
cui vengono gettate le basi per interpretare
la teoria matematica della probabilità'
come
teoria della decisione e, come logica
del
comportamento umano. L'impostazione
"
soggettivistica", a quei tempi
in forte
sospetto, impedì' forse di comprenderne
subito
quel grande valore che gli verrà poi
riconosciuto.
Intanto Ramsey allarga 1' orizzonte
dei suoi
interessi , la sua attività' si fa
quasi
frenetica. Gli universali, i rapporti
fra
i fatti e le proposizioni, l'attività'
giudicante,
il concetto di verità, l'induzione,
le leggi
teoriche ed empiriche, le teorie in
generale,
la matematica pura, l'economia diventeranno
i molteplici campi in cui si esercita
la
sua riflessione. I riferimenti non
sono solo
più Russell e Wittgenstein ma si allargano
all'intuizionismo, a Carnap, e a Pierce.
Sopratutto la lettura di Pierce fu
importante.
Ramsey era venuto a conoscenza delle
dottrine
pragmatiste tramite l'esposizione critica
fattane da Russell^, ma la lettura
diretta
di Pierce fu senz'altro più feconda.
Se il
linguaggio, l'impostazione dei problemi,
la stessa terminologia logica rimarranno
una costante in tutti i suoi scritti,
la
concezione pragmatista entrerà' gradualmente
nei suoi pensieri fino a divenirne
sempre
più vero filo conduttore ed atteggiamento
filosofico unificante.
In effetti la frenetica attività di
Ramsey
negli anni dal 1925 al 1929 si esplica
in
campi cosi disparati da apparire anche
impermeabili
fra di loro senza quell'elemento aggregante
rappresentato dal pragmatismo.
Quell'evoluzione, che da un atteggiamento
platonico verso la realtà e gli enti
matematici
finisce per approdare a una concezione
finitista,
operativa e antropologica del pensiero,
delle attività teoriche e della stessa
matematica,
sarebbe incomprensibile.
Ramsey mori nel 1930 quando non aveva
ancora
compiuto ventisette anni. Si può dire
che
la sua breve vita fu piena di meditazioni
e di filosofia, ma scarna di eventi. Si
recò
una prima volta a Vienna nel 1923 per
incontrare
Wittgenstein, diventato volontariamente
umile
maestro elementare in una scuola di
montagna,
riportandone un'impressione vivissima.
L'ambiente
di paese, le condizioni di relativa
povertà,
il tipo di lavoro impressionarono molto
Ramsey
e più ancora lo impressionò il vivo
ingegno
di quel filosofo che, ritenendo di
aver dato
ormai tutto ciò' che poteva dare alla
filosofia,
si era ritirato rinunciando a filosofare.
Un secondo incontro nel 1924 non si
rivelò
altrettanto soddisfacente.
Nel frattempo Ramsey aveva ampliato
i suoi
orizzonti e si era molto allontanato
dalle
concezioni di Wittgenstein. Quando
questi
tornò a Cambridge, ebbe ancora molte
discussioni
con lui, ma non più da allievo a maestro.
Se enorme fu l'influenza del Tractatus su
Ramsey, grande fu certamente, come
ammette
lo stesso Wittgenstein, quella di Ramsey
sulla sua successiva filosofia. Scrive
Wittgenstein
nella prefazione alle Ricerche Filosofiche:
" Riprendendo a occuparmi di nuovo
di
filosofia, sedici anni fa, dovetti
infatti
riconoscere i gravi errori che avevo
commesso
in quel primo libro ( il Tractatus).
A riconoscere
questi errori mi fu d'aiuto- in una
misura
che io stesso riesco difficilmente
a valutare
la critica a cui le mie idee furono
sottoposte
da Frank Ramsey, col quale le avevo
discusse
in innumerevoli conversazioni negli
ultimi
anni della sua vita."
*L'amico R. B. Braithwaite pubblicò
dopo
la morte nel 1930 il volume che sotto
il
titolo Fondamenti della matematica comprende
anche scritti del tutto inediti ancora
da
sistemare per la pubblicazione.Fra
gli altri
sono notevoli quelli compresi sotto
il titolo Ultimi
scritti dove compaiono un saggio sulle
teorie
e uno sulle proposizioni generali che
segnano
la svolta nel pensiero di Ramsey .
In essi
le proposizioni generali ed esistenziali,
che nei Fondamenti erano simbolismi
per indicare
somme e prodotti logici anche illimitati
di proposizioni, divengono schemi per
produrre
proposizioni e sistemi d'orientamento
nel
mondo. Ad esse vengono assimilate le
teorie
sul mondo, dove nuovamente Ramsey prende
una motivata posizione sulle definizioni
esplicite e sulle entità' astratte
nelle
teorie. A questo scopo propone un semplice
ma universale schema di teoria, condensabile
in una unica formula, conosciuta come
"
Formula di Ramsey" . L'importanza
di
questa formula, riscoperta da Braithwaite,
verrà molto più tardi riconosciuta
da Carnap,
nel suo Fondamenti filosofici della
Fisica[1].
IL TRAMONTO DEL LOGICISMO
1. I FONDAMENTI COME ULTIMA PROPOSTA
LOGICISTA
In sistema di Ramsey rappresenta l'ultimo
sforzo sistematico di presentare un sistema
logicistico. Ormai il dibattito sui fondamenti
si era fortemente smorzato e le filosofie
matematiche del formalismo e dell'intuizionismo
si erano dimostrate ben più produttive e
feconde. Al contrario il logicismo dimostra
tutta la sua sterilità e la sua impotenza
nel superare i suoi problemi. Gli ostacoli,
i vincoli, i limiti che si oppongono alla
riduzione della matematica alla logica appaiono
insuperabili e l'entusiasmo con cui il nuovo
programma era stato lanciato da Frege e poi
da Russell dopo pochi decenni è già disciolto.
Nel 1930 viene organizzata una conferenza
sui fondamenti della matematica con l'intento
di fare il punto sullo stato delle ricerche.
Vi partecipano Heyting, Von Neuman e Carnap.
Heytìng nella sua memoria non dedica neppure
un paragrafo per confutare il logicismo mentre
Carnap, che dovrebbe fungerne da avvocato
difensore, lo fa in modo così problematico
e poco convincente che la sua difesa può
essere considerata l'atto di morte del logicismo.
La difesa di Carnap appare , in sostanza,
una difesa d'ufficio dovuta, forse più al
suo passato di allievo dei grandi logicisti
Frege e Russell che a una reale convinzione.
In questa occasione Carnap prende in considerazione
il sistema di Ramsey, ma lo fa solo per confutarne
i presupposti filosofici. Ciò che Carnap
respinge è il realismo concettuale su cui
si basa il sistema di Ramsey. Questo realismo
viene contrassegnato come un realismo "
platonico " ove “le idee esistono di
per sé, indipendentemente da se e come le
pensiamo". La concezione matematica
di Ramsey viene denominata “teleologica"
e respinta in nome di quella concezione "
antropologica" che, nel costruttivismo
finitista, accomuna sia Hilbert e la sua
scuola sia l'intuizionismo di Brouwer ed
Heyting.
Carnap respinge l'assioma di riducibilità'
ed indica la possibilità di ricostruire ugualmente
la matematica nella logica, non rifiutando
di accettare, in linea di principio, le definizioni
impredicative che non sarebbero necessariamente,
per il solo fatto di essere impredicative,
fonte di antinomie.
2. CONSIDERAZIONE SUI PRINCIPIA E SUI FONDAMENTI
L'accusa di platonismo di Carnap non è certo
ingiustificata, la concezione delle classi
esistenti ma non definite o indefinibili,
la concezione dei quantificatori come somme
o prodotti logici, ed in generale tutto l'impianto
della costruzione di Ramsey sembrano presupporlo.
Ma se la concezione di Ramsey fosse così
esasperatamente platonica, c'è da chiedersi
perché non abbia accettato quell'assioma
di riducibilità' che, da un punto di vista
platonico, è vero.
I presupposti filosofici delle costruzioni
logiciste di Russell e Ramsey non sono affatto
facili da dipanare. Se poi esiste un'ampia
letteratura critica sulle opere del primo,
quella sul secondo è pressoché inesistente.
Ciò non accadde certo perché la sua concezione
filosofico- matematica fosse priva di interesse.
I veri motivi vanno forse ricercati nel clima
culturale del tempo in cui Ramsey espose
il suo sistema , quando già la concezione
logicista appariva irrimediabilmente datata.
Non e' quindi inutile dare un quadro delle
filosofie logico- matematiche di quel periodo
per consentire una collocazione della filosofia
di Ramsey . Un quadro lo si può dare sotto
vari punti di vista, ma forse il migliore
è quello che identifica le varie posizioni
esaminando le soluzioni adottate per superare
le antinomie. Questo perché, anche se non
fu l'unico, certamente il problema delle
antinomie fu il motore più potente per l'evoluzione
del pensiero filosofico sul significato del
calcolo logico-matematico.
L'antinomia scoperta da Russell pareva irrimediabilmente
collegata con la possibilità di formare sempre
un insieme con qualsiasi collezione di elementi
comunque definiti. Così si poteva anche parlare
ad esempio di collezioni di insiemi, la cui
condizione definitoria fosse l'appartenenza
o la non appartenenza dello stesso insieme
a se stesso come elemento.
II presupposto di questa possibilità nasce
dalla stessa teoria degli insiemi di Cantor,
che comincia a essere definita "ingenua".
Cantor non aveva dato una definizione esplicita
del concetto di insieme, ma ne aveva definito
le condizioni di costruibilità'.
Queste condizioni, molto liberali e molto
"platoniche", venivano ora messe
sotto accusa. In particolare la possibilità
che ogni gruppo di oggetti comunque scelto
generasse un insieme, che questo insieme
fosse un "oggetto" e che quindi,
come tutti gli altri "oggetti",
potesse entrare in un insieme come membro
dell'insieme.
Il platonismo di questo postulato di comprensione
è evidente. Come è altrettanto evidente l’esigenza
di modificare questo principio restringendo
una liberalità fonte di antinomie. Per i
platonici , che certo non volevano rinunciare
alle costruzioni di Cantor, si trattò di
accettare il principio, di porgli dei vincoli
e di limitarne le possibilità; per i predicativisti
il principio , forte o debole, si doveva
comunque rifiutare per il suo platonismo.
Predicativisti e platonici adottarono quindi
differenti soluzioni e diedero origine a
sistemi differenti.
Almeno due possibili soluzioni, quella di
Russell-CHwistek1 e quella di Zermelo2, erano
già note e discusse nell'ambiente culturale
in cui Ramsey si formò.
Entrambe le soluzioni prevedevano di limitare
l'illimitata possibilità di costruire insiemi
in corrispondenza a ogni condizione, ma con
vincoli differenti.
Zermelo pensava che si dovesse limitare l'ampiezza
delle molteplicità, ma non in base a criteri
ontologici, giacché non doveva essere la
natura degli oggetti a determinare le leggi
di formazione degli insiemi. Nel suo sistema
sono, quindi, accettabili come insiemi-oggetti
solo quelli costituiti secondo leggi di buona
determinazione descritte dagli assiomi.
Chiwstek, sulle orme di Russell condivide
coi Principia l'idea che vadano limitate
le collezioni in riferimento al tipo di "oggetti
" che vi intervengono come elementi.
La limitazione dovrà riguardare l'omogeneità
di tipo e darà luogo alla gerarchla conosciuta
come " teoria dei tipi semplici".
E' notevole che la proposta di Chwstek fosse
presentata, non come sistema originale,ma
come accettazione di una parte della teoria
dei Principia, la parte, appunto, riguardante
la teoria dei tipi semplici. Chiwstek rifiutava
la gerarchla degli ordini e l'assioma di
riducibilità, poiché pensava che l'assioma
potesse ripristinare le antinomie che la
gerarchia degli ordini aveva eliminato. La
teoria di Chwistek , come rileva lo stesso
Ramsey in una nota a piè di pagina (p. 45
) era errata. Ciò non impedì che l'idea di
una teoria dei tipi semplici per eliminare
una parte delle antinomie prendesse piede.
La teoria di Zermelo, invece, con la richiesta
di definitezza della condizione eliminava
tutte le antinomie
Quanto a Ramsey, stante la sua posizione
logicista, non poteva accettare la proposta
di Zermelo, né negli esiti, né nella forma
né nella filosofia che l'aveva ispirata.
Un sistema assiomatico come quello di Zermelo
non poteva che apparirgli una soluzione ad
hoc e come tale filosoficamente immotivata.
Ma c'era una ragione più' profonda. Una limitazione
puramente formale delle molteplicità era
inaccettabile per un logicista, per cui la
matematica e la logica dovevano per lo meno
fornirsi di un senso. La limitazione non
poteva quindi essere di natura ontologica:
solo con questo procedimento le regole limitatrici
potevano acquisire lo statuto di regole di
significanza.
Per i predicativisti, quali Poincarè, che
derivavano le loro concezioni da Kronecher
il principio di comprensione era semplicemente
falso. Per un predicativista, come per gli
intuizionisti la matematica non era una scienza
descrittiva e i suoi oggetti come le sue
strutture non venivano scoperte ma costruite.
Gli eventuali difetti andavano quindi ricercati
nelle modalità e nelle condizioni di questa
costruzione. E' quindi assolutamente naturale
che Poincarè identificasse nel circolo vizioso
la fonte di tutti i problemi ; tanto più
che effettivamente questo circolo vizioso
compariva in tutte le antinomie.
Russell che contribuì a formulare e, infine,
accettò questa diagnosi, adottò con questa
decisione un punto di vista predicativista
e costruttivo. Ma lo adottò veramente? In
altre parole adottò con la diagnosi anche
la filosofia che l'ispirava?
Sembrerebbe di sì poiché l'accettazione della
necessità di utilizzare solo definizioni
predicative, presuppone che siano le definizioni
a costituire gli enti matematici. Per un
matematico rigidamente realista ( per il
Russell dei Prìnciples ) numeri .classi ecc.
sono enti che esistono di per sé, e quindi
ininfluenzabili dal sistema definitorio.
E' vero che il Russell dei Principia non
era più il Russell dei Prìnciples, ma questo
non vuoi dire che avesse abbracciato una
filosofia costruttìvista; è anzi probabile
che l'esclusione delle definizioni impredicative
e il conseguente sistema gerarchico degli
ordini di funzioni fossero stati accettati
per ragioni pratiche. Russell aveva studiato
e si era dannato per risolvere le antinomie
per circa cinque anni, durante i quali aveva
tentato tutte le strade possibili. La gerarchia
degli ordini di funzioni dovette apparirgli
l'unica teoria naturale, possibile e accettabile
da un punto di vista logicista.
Di solito la teoria dei tipi ramificati con
assioma di riducibilità presentata nei Principia
viene vista come una fusione, mal riuscita,
dei punti di vista concettualista e realista.
L'idea che può giustificare la gerarchia
degli ordini è che le classi debbano essere
costituite mediante condizioni che le definiscono.
Costituite non descritte. Ma affermare che
una volta costituita una funzione esista
già una classe predicativa equivalente e'
per lo meno contraddittoria. In altre parole
se l'assioma di riducibilità è vero (e da
un punto di vista platonico lo è) allora
tutta la costruzione dei tipi ramificati
èsenza senso.
Questa è forse una critica troppo impietosa
della teoria di Russell; una critica che
certamente trascura alcune circostanze. Lo
si può constatare confrontando fra loro le
teorie di Weyl esposte in Das Kontìnuum e
quelle dei Principia.
Queste teorie sul piano formale si corrispondono
ma, Weyl, in coerenza con la sua concezione
predicativista e costruttiva, rifiuta l'idea
di un principio in qualche modo analogo a
quello di riducibilità e accetta alcune mutilazioni
dell'analisi. Di fronte a quello di Weyl
il comportamento di Russell sembra, a prima
vista, incoerente, ma almeno in parte non
è così.
Le gerarchie dei tipi vengono costruite sulle
espressioni quantificate ed è ovvio e coerente
che per Weyl, che considerava le asserzioni
esistenziali e generali non proposizioni
ma schemi o "promesse" di proposizioni,
la matematica debba procedere per costituzioni
successive. Appare pure ovvio che le ammissioni
di esistenza delle classi e delle funzioni
trovino legittimità in quelle costituzioni.
Un principio di riducibilità e' impensabile
con questi presupposti.
Ma il pensiero di Russell non segue una simile
filosofia. Per comprenderlo bisogna forse
risalire alla genesi delle sue concezioni
e seguire, almeno per sommi capi, i successivi
Per il Russell dei Principles il linguaggio
è in un certo senso lo specchio della realtà
mentre la sua sintassi e la sua grammatica
rispecchiano i rapporti fra i significati.
In altre parole la lingua è un medium trasparente
a cui fanno parzialmente eccezione solo le
espressioni denotanti. Con l'elaborazione
del saggio sulle descrizioni definite (On
denoting l905) questa visione ingenua subisce
una frattura. Diminuisce il numero degli
enti ammissibili, ma soprattutto si produce
una spaccatura fra linguaggio comune e ciò
che Russell denota come "forma logica"
di una espressione linguistica. Con ciò Russell
non rinuncia alla sua posizione realista
e neppure alla tesi di una trasparenza linguistica
tra linguaggio e mondo. La diversità sta
nel fatto che la trasparenza è ora tra forma
logica e realtà e non fra grammatica del
linguaggio comune e realtà.3
La forma logica di una proposizione va ricercata
mediante regole di traduzione e va manipolata
con regole. In un certo senso ci sono, sì,
regole di costituzione, ma queste non vanno
intese come vere regole costitutive in senso
predicativistico, bensì solo come regole
logiche che consentono al linguaggio "logico"
di mantenere la sua funzione di medium trasparente.
La diversità', se questa interpretazione
è corretta, consiste nel fatto che ciò che
per Weyl e i predicativistì in genere sono
regole di costituzione, per Russell sono
regole logiche che garantiscono la buona
descrizione.
Una riprova sta nel fatto che mai Russell
fu afflitto da dubbi circa le espressioni
esistenziali e generali. Per lui sono effettive
proposizioni a tutti gli effetti e "descrivono"
come le proposizioni singolari.
Di fatto l'assioma di riducibilità, che mai
convinse Russell, si offriva a diverse possibilità
interpretative, e, fra queste, anche a una
interpretazione linguistica in linea con
il pensiero di Ramsey.
Russell4 non si limita a presentare il suo
assioma, ma cerca di difenderlo sostenendo
che esso è equivalente all'assunzione che
qualsiasi combinazione logica di predicati
(data intensionalmente ) è equivalente a
un singolo predicato. Questo equivale a considerare
un quantificatore esistenziale come una congiunzione
e un quantificatore esistenziale come una
disgiunzione di predicati.
In sostanza (ricorrendo allo stesso esempio
di Russell) che Napoleone abbia tutte le
proprietà di un grande generale, equivarrebbe,
se l'assioma di riducibilità fosse vero,
ad accettare che esiste una combinazioni
di predicati, finita o no, esprimibile o
no, che è equivalente all'avere la proprietà
di avere tutte le proprietà di un grande
generale.
Questo non vuoi dire che Russell asserisse
che tutte le espressioni con quantificatori
potessero essere esplicitate. E' indubbio,
però, che la sua proposta possa essere letta
come una dichiarazione d'impotenza del linguaggio.
Non sappiamo come esplicitare l'espressione
"tutte le qualità' di un grande generale"
in termini di predicati e connettivi logici,
ma sappiamo che questo avviene solo perché
le risorse limitate del linguaggio non ce
lo consentono.
Da questa considerazione alla conclusione
di Ramsey che solo le carenze linguistiche
di nomi e connessioni di nomi ci impediscono
di esplicitare un quantificatore universale
come somma logica il passo è breve.
Ramsey dice di aver derivato la sua teoria
dei quantificatori dal Tractatus, ma, in
realtà, Wittgenstein si guarda bene dall'affermare
la possibilità che un quantificatore universale
possa essere una congiunzione di infiniti
termini. Questa sarebbe stata per lui un'affermazione
semplicemente insensata. Ramsey, al contrario,
ne parla anche se, al momento di discutere
l'assioma dell'infinito, non mostra altrettante
certezze.
Accettando la lettura che Ramsey fa di Wittgenstein
su questo argomento si può affermare che
il concetto di infinito, se ha un senso,
deve essere una tautologia o una contraddizione.
Ramsey concorda con questa analisi e da per
scontato che un senso il concetto lo deve
avere, mentre Wittgenstein, non solo non
avrebbe minimamente sottoscritto questa affermazione,
ma neppure avrebbe accettato come sensata
la domanda . Diversamente da Wittgenstein,
Ramsey, come Hilbert, non accetta di essere
cacciato dal "paradiso" creato
da Cantor.
In ogni caso accettare questa teoria comporta
sia l'accettazione che la gerarchia degli
ordini abbia a che vedere con le esigenze
del nostro linguaggio, sia l'accettazione
dell'ipotesi che esistano predicati o combinazioni
logiche di predicati inesprimibili. Da questo
punto di vista (e così l'intese Ramsey )
l'intera gerarchia degli ordini poggia non
sui significati, ma sulle risorse linguistiche
utilizzate per esprimere questi significati.
In definitiva, se appare faticoso interpretare
le teorie dei Principia come l'espressione
di una coerente filosofia platonica, queste
difficoltà non ci sono per una analoga interpretazione
della teoria di Ramsey. Il problema sta nell'alternativa
realismo/predicativismo. Nel primo caso una
teoria dei tipi semplici accompagnata da
regole linguistiche per evitare le antinomie
del secondo tipo è una soluzione naturale
e coerente.
La soluzione classica per eccellenza, in
linea con questi principi ispiratori, è quella
di Tarski che risolve le antinomie semantiche
con una gerarchia di linguaggi. Ma anche
quella di Ramsey è una soluzione di questo
tipo e , al di là della nomenclatura e degli
espedienti tecnici utilizzati, la sua è,
a tutti gli effetti, una soluzione semantica
a un problema riconosciuto come semantico.
3. L'EVOLUZIONE DELLE CONCEZIONI DI RAMSEY
Dopo lo scritto sui fondamenti della matematica
il pensiero di Ramsey subisce una graduale
evoluzione verso altre concezioni. Non ci
sono documenti conclusivi su queste riflessioni,
anche perché nella sua così breve vita ,
Ramsey trasferì la sua attenzione su temi
sempre diversi e non ebbe il tempo né di
documentare questa trasformazione né di dare
forma sistematica alla concezione finitista
che andava maturando. Si è parlato di un
approdo al formalismo, ma anche di una sua
adesione alli'intuizionismo.
Le fonti di testimonianza per questa evoluzione
sono sostanzialmente alcuni accenni contenuti
nello scritto "le Teorie", l'articolo
sulla matematica scritto per l'Enciclopedia
britannica, la trattazione delle proposizioni
generali nelle scritto Proposizioni generali
e causalità , l'esposizione di un sistema
intuizionista negli inediti, la testimonianza
dell'amico, e poi curatore delle sue opere,
R. B. Braithwaite che nella prefazione ai
Fondamenti della matematica del suo amico
scrisse: “..nel 1929 egli si converti' ad
un punto di vista finitista che rifiuta l'esistenza
di ogni aggregato infinito attuale e al quale
fa allusione in alcuni degli ultimi appunti.”
E' probabile che l'adesione di Ramsey alle
concezioni finitiste sia dovuto alla maturazione
di una diversa interpretazione delle espressioni
contenenti quantificatori.
Questo lo si può' arguire da un generale
riesame dello statuto delle proposizioni
generali che Ramsey espone appunto nello
scritto sopracitato del 1929.
L'esame di Ramsey non riguarda espressamente
l'uso dei quantificatori in matematica e
in logica. Da alcuni accenni sembra anzi
che voglia escludere dalla sua analisi il
campo matematico. Ma ciò non toglie che il
mutamento in proposito sia così profondo
da presupporre un visione filosofica generale
totalmente diversa che non può non coinvolgere
anche la filosofia della matematica.
PROPOSIZIONI GENERALI
Come sopradetto, nello scritto Proposizioni
Generali e Causalità viene ridiscusso lo
statuto logico dei quantificatori. Ramsey
si pone la domanda se sia ragionevole interpretare
un'espressione contenente un quantificatore
universale come una congiunzione ed esamina
i possibili argomenti a favore e contrari.
La conclusione di Ramsey è che queste espressioni
differiscono dalle congiunzioni perché possono
essere scritte come congiunzioni solo 1)
se si riferiscono a classi finite e 2) se
esiste una regola applicativa . Diversamente,
esse sono per noi come una carta dello spazio
circostante che, estesa all'infinito , non
potremmo mai leggere interamente, per cui
ci troveremmo nella condizione di non poterci
" muovere secondo essa". "IL
nostro viaggio, di conseguenza, sarebbe finito
prima che avessimo bisogno delle sue parti
più' remote" .( p.255 )
E' vero , aggiunge Ramsey, che un'espressione
con quantificatore universale contiene tutte
le congiunzioni minori ed è pur vero che,
in riferimento alle condizioni di verità,
siamo costretti a " renderla una congiunzione"
e ad "avere una teoria delle congiunzioni",
ma è questa stessa teoria che non possiamo
"esprimere per mancanza di potere simbolico"
e " ciò che non possiamo dire non possiamo
dirlo e nemmeno fischiettarlo".
Con queste premesse, di un'espressione contenente
un quantificatore non si può neppure più
decidere se sia vera o falsa. Ma può ancora,
con queste premesse, essere considerata un'autentica
proposizione una "proposizione generale",
quando non siamo neppure certi che esista
la possibilità di assegnarle un valore di
verità'?
A prima vista la risposta non può che essere
negativa, ma Russell non era di questo parere.
Pur non avendo mai accettato la riducibilità
dei quantificatori a operazioni logiche,
non era incorso mai in quel tipo di dubbi
sulle espressioni quantificate che tanto
avevano ossessionato "i nemici"
intuizionisti e formalisti. Ciò poteva accadere
poiché, per Russell, le espressioni contenenti
quantificatori, riferendosi a "universali",
sono proposizioni a tutti gli effetti e non
promesse di proposizioni.
Ramsey era di tutt'altro parere. Non solo
non poteva accettare la conclusione di Russell,
ma nell'articolo Universali ( scritto nel
1925 e quindi contemporaneo al trattato sui
Fondamenti della Matematica ) aveva discusso
e motivato una concezione circa lo statuto
logico di questi termini, secondo la quale,
negando qualsiasi base logica alla distinzione
fra universali e particolari, ne negava anche
una precisa identità logica.
In conclusione, Ramsey deve abbandonare l'idea
che le espressioni quantificate siano proposizioni.
Con questo abbandono la sua posizione è ormai
simile a quella di Hilbert e degli intuizionisti:
mancando un criterio di verità' queste formule
non possono sempre essere considerate vere
o false e quindi non possono essere considerate
autentiche proposizioni.
L'ipotesi avanzata da Ramsey è che siano
schemi per produrre proposizioni. La nuova
interpretazione dei quantificatori, come
sopra detto, viene esposta da Ramsey nello
scritto " Proposizioni Generali e Causalità",
elaborato nel 1929 e concernente la natura
delle leggi e delle teorie scientifiche in
generale. Come si è però già anticipato,
anche se lo studio non riguarda espressamente
la natura delle espressioni quantificate
in logica e in matematica, non c'è' ragione
di pensare che il ragionamento non si estenda
anche a questo dominio, anche se a questo
proposito
Ramsey cosi si esprime:
Nel caso di una proposizione, corretto e
scorretto, cioè vero o falso, si presentano
in due modi. Si presentano all'uomo che costruisce
la proposizione ogni volta che ne costruisce
una funzione di verità, cioè ragiona disgiuntivamente
sui casi della verità o falsità. Ora noi
non facciamo mai una cosa del genere con
queste ipotetiche variabili eccetto che nella
matematica, in cui ora questo
procedimento viene riconosciuto fallace.
( p. 255 )
Del resto, considerando l'evoluzione del
pensiero di Ramsey, che si va indirizzando
sempre di più verso una concezione olistico-pragmatista,
sembra difficile pensare che le sue idee
circa l'ambito logico-matematico possano
viaggiare separate dal resto della sua filosofia.
Da questo punto di vista, l'analisi dell'evoluzione
del pensiero di Ramsey circa la logica e
la matematica va fatto in un ambito più vasto.
Ramsey aveva iniziato le sue riflessioni
affrontando temi diversi. Le sue riflessioni
sulla logica, sulla matematica, sulla probabilità,
sulla natura delle leggi ecc. paiono inizialmente
svilupparsi separatamente con minime interconnessioni.
Gradatamente si evolve, pero, un disegno
generale e unitario che tende ad unificare
questi pensieri sotto una sorta di olismo
pragmatista. E', quindi, nell'ambito di questa
concezione unitaria che va esaminata, anche
l'evoluzione del suo pensiero sulla filosofia
della matematica, accettando come probabile
che le sue riflessioni sulla natura delle
leggi generali abbiano influenzato il suo
pensiero sulla funzione dei quantificatori
in matematica.
La teoria positiva di Ramsey circa le proposizioni
generali, il loro statuto logica, la loro
funzione nella scienza sono esposte nel capitolo
riguardante le concezione di Ramsey sulla
natura delle teorie e sulla funzione delle
leggi generali nei sistemi scientifici. Ciò
che interessa qui è solo il fatto che Ramsey
abbandonò sicuramente nel 1929 l'idea che
le proposizioni generali fossero vere proposizioni.
L'abbandono della teoria dei quantificatori
come somme o prodotti di un numero finito
di proposizioni non è solo l'abbandono di
una teoria della matematica, ( quella esposta
ne I Fondamenti della matematica ), ma quello
di una filosofia della matematica.
Se una espressione contenente quantificatori
non può più essere considerata una proposizione,
essa non può più entrare come componente
in un calcolo proposizionale e non può più
essere assimilata a una operazione logica
( con un numero finito o infinito di termini
). Su questo presupposti poggiava tutta la
teoria della tautologicità della matematica,
tutta la teoria delle funzioni predicative
e, con esse, la possibilità di dare a ogni
funzione un "significato".
Ora questo passaggio da "forma"
a "significati" non poteva più
essere ottenuto e le funzioni non potevano
più essere classificate in base a quel metodo
"oggettivo" in contrapposizione
al metodo costruttivista " soggettivo"
utilizzato nei Principia.
Ramsey riteneva con la teoria dei significati
di aver escogitato una base estensionale
per eliminare dalla struttura matematica
tutta la sovrastruttura delle pseudofunzioni.
La teoria della quantificazione, derivata
dal Tractatus, gli offriva il mezzo tecnico
per giungere ai significati (condizioni di
verità), eludendo gli inganni e le limitazioni
del nostro parlare di significati. Se i quantificatori
universali e i quantificatori esistenziali
non possono più essere concepiti in termini
di operazioni logiche di verità, cade questa
possibilità e, con essa, cade tutta la costruzione.
Non cade solo il platonismo che soggiaceva
al logicismo ma il logicismo stesso; quel
logicismo che senza il riferimento ai significati,
aveva dimostrato nei Principia di non poter
ricostruire la matematica, senza dover ricorrere
all'assioma di riducibilità.
Oltre all'abbandono della teoria dei significati
era proprio la nuova concezione dei giudizi
generali ed esistenziali, in se stessa, a
indirizzare Ramsey verso altre vie.
Se una proposizione esistenziale non è una
proposizione ma uno schema per costruire
proposizioni è ovvio che è proprio la costruibilità
di una entità a divenire criterio della sua
esistenza, e, solo l'effettiva costruzione,
dimostrazione d'esistenza.
Queste circostanze e le riflessioni sul mai
risolto assioma dell'infinito, di cui ammette,
già nei Fondamenti, la difficolta se non
l'impossibilita di parlare, non possono che
aver spinto Ramsey ad estendere la sua attenzione
a quelle incertezze e a quei dubbi che Hilbert,
Weyl e Brouwer andavano manifestando. Quelle
stesse tesi che in precedenza aveva respinto
e caratterizzato come un "conformarsi
ai (propri) pregiudizi privati."
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