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Banfi, marxista intransigente?
di Daniele Lo Giudice
Il dopoguerra segna un distacco di Banfi dalla comunità filosofica dei "neoilluministi" e dei razionalisti, molti dei quali sono stati suoi allievi. Banfi si dice marxista, si riconosce in un testo "duro da digerire" come Questioni del leninismo di Stalin, il pensiero di un despota che pochi marxisti oggi sarebbero disposti ad accettare nemmeno in minima parte. Banfi potrebbe diventare, in questa luce, assurdamente inattuale, un corpo estraneo non solo alla filosofia italiana, ma alla stessa filosofia marxista italiana. Togliatti, ad esempio, non fu così radicalmente liquidatorio nei confronti di Benedetto Croce. Inoltre, in molti dirigenti comunisti, sia "di destra" che "di sinistra", l'atteggiamento verso le filosofie e la cultura borghesi, furono piuttosto contrassegnate dall'apertura e non dalla condanna. Banfi entrò nel marxismo italiano in modo tutt'altro che diplomatico. Dichiarandosi "materialista dialettico", finiva col mettersi di traverso anche rispetto a Gramsci e perfino a Labriola, che erano stati tutt'altro che "materialisti dialettici", ovvero tutt'altro che metafisici e dogmatici. Circola così un giudizio, non sempre corroborato da letture, di un Banfi a doppio regime, di qui il Banfi razionalistico "aperto", di là il marxista scolastico che, tuttavia riesce ad apparire in qualche modo coerente ponendo l'accento sulla prassi e non sul momento teoretico.
La storiografia filosofica è chiamata a un compito non esente da difficoltà: deve chiedersi, in primo luogo, se Banfi abbandonò le posizioni del razionalismo critico assunte (potremmo dire: costruite) in precedenza, per abbracciare totalmente il marxismo, potremmo dire da dentro il marxismo, in una prospettiva totalizzante, oppure riuscì a conservare e sviluppare il razionalismo anche in una prospettiva marxista di adesione incondizionata all'obiettivo del comunismo. In secondo luogo, deve anche mostrare se quella che abbiamo chiamato "enfasi sulla positività" del processo storico concreto (il lato costruttivo della lotta di classe) non sia da ricondurre ad una marcata unilateralità, ad un vedere tutti i mali nella borghesia e nel filosofare dei suoi sostenitori, e tutto il bene nei soli marxisti.
Per queste ragioni, proveremo a disegnare un profilo di Banfi "marxista" che evidenzi sia gli aspetti paradossali della sua vetero-inattualità, sia quelli più logici e conseguenti al razionalismo critico professato e dichiarato, di cui abbiamo anche disegnato alcuni tratti essenziali nel file precedente.
Con tale compito si sono cimentati in molti. Giulio Preti, allievo di Banfi, ha sostenuto che per il suo maestro fu decisivo salvare l'autonomia della ragione; per questo fu costretto a concepire la stessa come eterogenea rispetto all'esperienza, precludendo in tal modo la possibilità di cogliere limiti e interne contraddizioni alla ragione. Così, quando Banfi provò, e non poteva non farlo, a definirla, finì con l'assegnarle un contenuto particolare. Anche rispetto al marxismo, Banfi, secondo Preti, ripeté l'errore: lo concepì come storicità pura, come semplice successione di eventi e trasformazioni strutturali, presumendo che esso "funzionasse" come coscienza immanente che si realizza nel proletariato in lotta per riconquistare la propria umanità integrale. (1) Il marxismo, secondo Preti, diventava così qualcosa di mitico, una sorta di fatica di Eracle.
Ludivico Geymonat, dal canto suo, parla del marxismo banfiano definendolo "marxismo cinese". Geymonat pensa sia erroneo vedere nell'incontro tra Banfi e il marxismo un momento conclusivo del suo impegno per il razionalismo critico precedente. In sostanza, Banfi non arriva al marxismo seguendo la via italiana Labriola-Croce-(Gentile)-Gramsci. Il "suo" marxismo incrocia Kant ed Hegel, si nutre di una critica molto particolare alla filosofia di Husserl, in particolare l'Husserl della Krisis delle scienze europee. Banfi, insomma, crede che l'Europa, con la rivoluzione industriale e il positivismo, abbia smarrito la sua essenza umanistica, e che anche il marxismo si sia rigenerato a partire da un umanesimo diverso, trovando una sponda nella fenomenologia. (2) Il marxismo si presenta in Banfi non solo come metodo conoscitivo per comprendere la realtà contemporanea, ma come articolazione di pensiero risolutiva della crisi di civiltà maturata agli inizi del Novecento.
All'interpretazione di Geymonat noi preferiamo quella di G. D. Neri (3) che vedremo più avanti, ma è indubbio che presenti aspetti di grande interesse in quanto muove dalla crisi generale della cultura e della filosofia europea di fronte all'unilaterale riduzionismo positivista. Vediamo quanto scriveva Banfi in un saggio non molto conosciuto e mettiamolo in rapporto con Geymonat: «Il senso che noi viviamo in un'età di crisi radicale della vita e della cultura è così diffuso - scrive Banfi - da divenir banale e astratto; il che non significa affatto una sua risoluzione e dispersione, puttosto un adattamento alla sua forma astratta negativa (così come l'ideologia progressista era un adattamento alla sua forma astratta positiva) coi medesimi effetti di fronte alla personalità e alla vita, di ridurre le energie, toglierne il vigore e il senso di responsabilità. Questa forma di coscienza è la più astratta e la più povera: meramente formale, essa non abbraccia in una visione concreta la realtà nei suoi movimenti interiori, ma piuttosto informa di sé e significa in sé ogni processo concreto e costituisce il piano a disposizione di tutti per un'evasione dai problemi. Essa corrisponde press'a poco alla coscienza rivoluzionaria diffusa nei salotti alla fine del secolo XVIII. Caratteri di questa coscienza sono: rilievo e accettazione immediata del lato negativo degli eventi, di mano in mano che si producono, rimadandone la responsabilità a questa forma generale - deplorazione dolorosa, scetticismo o catastrofismo entusiastico a freddo - mancanza di senso di responsabilità e di volontà energica, demoralizzazione etica - assenza di controllo, mancanza di umorismo o accentuazione di un umorismo sarcastico a tinta pesante, disperazione banale.» (4)
Di che sta parlando Banfi? Di quale crisi? E' la crisi culturale tra le due guerre, del secondo dopoguerra, viene durante la ricostruzione, Banfi la vive e la descrive in termini piuttosto generali e non solo come crisi di valori. E' crisi di orientamenti, è pensiero confuso e parziale, è il venir meno dell'uomo socratico e copernicano, cioè dell'umanesimo. In fondo, è il guardare le cose dalla cattedra. E' la disgregazione del sapere razionale in rivoli di sofismo che procede per tentativi scomposti ed improvvisati. Al di là dei fenomeni sociali più rilevanti, emigrazione (non più verso l'estero, ma dal sud al nord, dal nord-est al nord-ovest), disoccupazione, gioventù bruciata, metamorfosi dei costumi, oscillazioni e perturbazioni dell'identità femminile, Banfi coglie motivi culturali e filosofici nel cuore stesso della crisi. Prendere coscienza della crisi, non significa superarla. Si partecipa ad uno sforzo. Si pongono le premesse, prima ancora che le condizioni, per ristabilire un rapporto tra vita e cultura. Aprire la cultura alla problematica del reale, non può voler dire annullarsi in esso. E' necessario prendere posizione, partito filosofico, misurarsi con le filosofie della crisi. La cultura borghese contemporanea si è proposta come un mondo a se stante, «con una sua propria problematica astratta, colorita da un pathos artificiale e retorico». In esso la vera vita non arriva, e qualora vi arrivasse, «vi si riflette come la realtà in una sfera magica sformata e dissolta nella pretesa di una sua irreale luminosità essenziale, così che le sue presunte soluzioni in vitro, senza alcuna pratica efficacia.» (5) La cultura degenera, e non si trova sola. Con essa vanno in crisi le istituzioni, e gli uomini sono nell'incertezza, anche rispetto a problematiche verso le quali l'incertezza è un lusso, se non una lussuria. L'uomo, riconoscendosi «tangenzialmente sfuggito dal corso della storia», si scopre privo di rapporti umani anche inserito in rapporti economici e sociali. Precisi segni della crisi si trovano nell'arte, nella storia, nella filosofia. Testimonianza più evidente della disarmonia, vera e propria dissociazione tra vita e cultura è data dalla filosofia. «Tale minimum philosophicum, che non è un impegnarsi del pensiero e della valutazione, ma piuttosto un suo disimpegnarsi nel vago e nell'astratto, domina la maggior parte del pensiero filosofico dopo l'inizio del secolo.» (6) Spiritualismo francese, idealismo senza mordente dialettico e senza senso concreto della realtà, irrazionalismo: sono queste le correnti che hanno spinto più a fondo la deriva del pensiero. E quest'ultimo, l'irrazionalismo, guadagna i meriti maggiori. Evocando «forze profonde, originarie, demoniche o contemplative» travolge i problemi obiettivi e quasi sembra voglia impedire un approccio discorsivo ai problemi. L'esistenzialismo è, per Banfi, la fase suprema dell'irrazionalismo. Esso non è riuscito e «non ha saputo liberarsi della nostalgia del mondo immutabile ed eterno delle essenze e ha concepito l'esistenza come deiezione, abbandono, ansietà, ha veduto la vita sub specie mortis, senza pensare che anche la morte si può vedere sub specie vitae e che l'accidentalità, la individualità, l'interna tensione dell'esistente hanno un carattere profondamente positivo.» (7)
La crisi investe anche la religione. «Nel campo religioso, da un lato la valutazione dell'elemento istituzionale come unico rifugio, dall'altro il valore del momento negativo apocalittico. Caduta della religione liberale.» (8)
La crisi è ovunque. «Per "crisi" s'intende qui crisi di civiltà o di cultura e ciò significa una sintesi di cultura non presenta più un processo di evoluzione, ma di dissoluzione. Ogni sintesi di cultura è indubbiamente qualcosa di relativo e dinamico. Il suo organismo non è mai un equilibrio perfetto e tanto meno statico: piuttosto un equilibrio instabile, che però ha una sua legge di sviluppo e continuità, che si pone, almeno, e ci va posto per una legge di equilibrio. Crisi può dirsi quando questo equilibrio si spezza - non si evolve e i suoi elementi proseguono indipendentemente, così da diventare principi stabili di disquilibrio, e la continuità dello sviluppo viene infranta, così che affiorano forze nuove incontrollate, mentre la possibilità di un organismo equilibrato vien messa in forse.» (9) In tempo di crisi, si dissolvono rapporti e vengono chiari e indiscutibili riferimenti. Cade il sistema dei valori che dirige la cultura; gli stessi valori ideali perdono la loro vitalità universale; la vita, che non si lascia più descrivere nell'orizzonte dei valori tramontati, sembra inacapace di produrre nuove idealità; le istituzioni culturali prendono ad oscillare tra valori contrapposti (oggi si direbbe incommensurabili), perdono efficacia e concretezza; lo squilibrio incide negativamente sui rapporti personali, i quali sono abbandonati alla deriva di forze elementari o subiscono la prepotenza di velleità individualistiche. E' scontro tra generazioni, tra sessi, nella stessa unità familiare. Lo stesso rapporto tra individuo e natura risulta scosso nel profondo.
Tutto ciò, tuttavia, non deriva da un qualche misterioso o capriccioso spirito dei tempi, ma trova una sua precisa scaturigine dalla crisi di senso che è tipica della filosofia borghese, cioè dal pensiero delle classi dominanti nel tempo dell'imperialismo. Era l'anno 1947 e su "Studi filosofici" compariva un ampio saggio intitolato Verità e umanità nel pensiero contemporaneo. Qui il marxismo veniva presentato come l'apice della filosofia moderna e contemporanea e allo stesso tempo come una filosofia diversa da tutte le altre. «Il materialismo storico, in quanto connesso al materialismo dialettico che è l'indirizzo metodico generale, e come forma di una coscienza che non pur sa, ma fa la storia nel suo stesso processo - così che reciprocamente il sapere dipende dal fare processo - è necessariamente unito alla teoria della lotta di classe. E questa, mentre si riporta a un'esperienza concreta, si giustifica, nell'universalità della sua forma, come applicazione del metodo dialettico, momento essenziale del procedere critico del pensiero.» (10)
Il marxismo diventa così l'unica chance storica e concreta per ricostruire una prospettiva umanistica integrale di fronte alla frammentazione ed alla crisi. Giustamente alcuni studiosi, tra cui va segnalato Antonio Pieretti (11), hanno sottolineato la continuità tra una filosofia che valorizza la persona e l'opzione marxista. Un umanesimo non è possibile se prescinde dal problema della dignità della persona, il marxismo rischia di annurla in un bagno di strutture e di categorie astratte. Tuttavia, al di fuori di una prospettiva socialista, il problema della persona non ha alcuna possibilità di conquistare il giusto rilievo; nel capitalismo la dignità umana non può realizzarsi.
La questione è presente in diversi scritti di Banfi non dedicati esplicitamente al marxismo. Nello scritto del 1941, Il problema dell'esistenza, Banfi ha già chiarito che il razionalismo critico è un pensiero che aiuta a costruire una coscienza sempre più libera dai problemi della vita e quindi in grado di illuminare le azioni del singolo, nel determinare mezzi e fini, procurando alla coscienza stessa «efficacia, responsabilità, e la forza di superare anche se stessa.» (12) L'attenzione di Banfi si sposta progressivamente nel corso di tutti gli anni '40 verso la sfera pratica. La persona si assume la responsabilità nei confronti del reale mediante l'attività. Così, non solo si fa la storia, ma si ritrova anche il suo senso. Ovviamente, l'esistenza non va vista come un cammino isolato e singolare, ma nel suo aspetto relazionale e sociale. Di qui anche il carattere universale e filosofico. Pieretti nota che rimane quindi escluso dalla riflessione banfiana la ragion d'essere dell'esistenza stessa. «Ma questa assenza è l'effetto di una precisa scelta teoretica per la quale, poiché sulla persona grava la responsabilità verso il reale, da essa dipende anche il corso della storia e il modo in cui realizza se stessa.» (13)
Tutto ciò si ritrova nelle monografie dedicate a Galileo, a Socrate e a Pestalozzi. Ognuno di questi tre grandi del pensiero e dell'attività umana incarna tre diverse sfere della vita spirituale: educazione, conoscenza e moralità. Esse possono unificarsi senza sovrapporsi, tanto più che la sfera socratica e quella pestalozziana non costituiscono universi incommensurabili. In particolare, Banfi vede in Pestalozzi il protagonista di una pedagogia votata alla formazione della dignità della persona. Galileo, d'altro canto, è l'esistenza orientata alla conoscenza della realtà al fine di soggiogarla ai bisogni umani. «La moralità di Galileo - osserva Pieretti - non consiste nell'attenersi a principi astratti e generici, ma nella "fedeltà attiva a se stesso e alla propria opera", nell'energia con cui cerca di affermare la propria individualità e di conciliarla con la propria universalità.» (14) Quanto a Socrate, Banfi vi trova l'ideale della persona al suo grado più alto. Ogni suo discorso ed ogni suo comportamento incarna la problematicità dell'accordo tra l'ideale consistenza della persona e l'ideale realtà della comunità. L'uomo "copernicano" perviene al pieno compimento nell'esperienza morale. La vita etica non consiste nell'adeguazione dei comportamenti individuali o collettivi ad un ideale di saggezza, ma nella costruzione di un mondo via via migliore. Ciò esige che le idee morali non siano pensate come realtà a sé stanti, ma come problemi che si pongono. Inoltre, ciò è possibile solo adottando un atteggiamento critico nei confronti dei giudizi convenzionali, dei moralismi e delle soluzioni precostituite.
«Il secondo carattere del moralismo - scrive Banfi - sta nel suo tono e senso oggettivo. La realtà morale effettivamente non consiste per esso che nell'atteggiamento delle coscienze personali. Il dato di fatto concreto, la situazione, le condizioni di vita non hanno effettivamente alcuna importanza, giacché la volontà morale (proprio in quanto morale, proprio in quanto traduce in atto l'idealità dei puri principi) li trascende. Dal che deriva una duplice conseguenza. Da un lato, per il moralismo, la moralità ha la sua compiutezza nella direzione, nell'intenzione della volontà morale, qualunque ne sia il risultato concreto. Ciò che importa effettivamente non è quale mondo si costruisca, ma quale mondo si intenda di costruire; la responsabilità cessa con la buona intenzione e questa assolve di tutto: anzi tanto più buona e più bella sembra e più meritevole nella sua vana ostinazione, quanto più gli eventi la smentiscono e, per malvagità di alcuni o perversa natura umana, danno origine a una trista, infame realtà. Cosicché l'anima bella proprio di questa impotenza si vanta e vive di risentimento verso l'obiettività dei fatti e la realtà della vita. D'altro lato, per il moralismo, è affatto secondaria ogni azione diretta a modificare la situazione di fatto. Non sono le condizioni economiche, politiche, giuridiche, culturali che abbiano efficacia riguardo all'ordine morale.» (15)
Banfi giunge a chiedersi se in questa crisi profonda dobbiamo inutilmente continuare a predicare una morale, o non sia il caso di pensare a costruire un nuovo mondo che sia anche morale. E qui si pone un altro problema, il moralismo pessimistico di chi si appoggia a un senso radicalmente religioso della vita. Anche per il moralismo religioso la morale è un problema, ma il problema è insolubile. Quindi esso viene posto come astratta formalità, ma anche come criterio negativo e non positivo di esistenza. Il giudizio è divino e l'uomo è destinato a non comprenderlo data la sua alterità e minorità. «La posizione di assoluta negatività -scrive Banfi - si sostiene da un punto di vista religioso , ma sul piano etico tende necessariamente a risolversi - la storia delle idee calviniste ne è forse l'esempio più chiaro . - Comunque noi ci poniamo qui da un punto di vista etico, che per noi è essenziale, ma che per uno spirito religioso nel senso sopraindicato rappresenta comunque un rischio che deve essere corso, una responsabilità che deve essere assunta. Ciò che ci divide è che per tale spirito il rischio deve essere corso per la paradossale esperienza dell'impotenza umana, per il suo stesso insuccesso, a meno che intervenga il miracolo della grazia divina a mutare il negativo in positivo; per noi, il rischio va corso per il suo successo, ché il miracolo, l'attualità dell'idea, è la stessa vita umana e la sua storia e noi non dobbiamo che riconfermarlo secondo l'infinità sua fecondità.»
Il rischio di cui parla Banfi non sta solo nell'affidarsi all'idea che nell'umanità vi è molto di buono e razionale, ma anche all'idea che se si mettono in moto delle forze, queste possono eccedere, esagerare. Il criterio di valutazione, da un lato deve essere mobile, ma dall'altro non può non presentare una continuità morale. «Un movimento politico che si costituisca su interessi limitati, su ideologie astratte è incapace d'essere veramente vissuto; esso diviene il campo della retorica e del compromesso e per ciò non di una nuova vita morale, ma di un fanatismo cieco e d'un astuto indifferentismo. In realtà solo dove c'è vita c'è moralità. E qui due cose sono da notare. L'una, che l'eroismo morale è tale solo in quanto costruttivo della persona e d'un mondo intorno ad essa: esso si rivela perciò nella interiore serena sicurezza. L'eroismo senza capacità costruttiva - che è l'eroismo delle cause sbagliate - è invece astratto, fanatico, risentito; né lo assolve il suo sacrificio: anzi lo marchia di un atroce grottesco.
L'altra, è che lo scandalo della massima: il fine giustifica i mezzi, non ricade tanto sui machiavellici, che se son tali, operano in un campo ove fini e mezzi non hanno nulla a che fare con la moralità, quanto sul moralismo che fa consistere la morale nel puro ideale fine e ne separa i mezzi. Nella vivente moralità, questa antitesi è risolta non in vista di un principio astratto che concili i due estremi, ma per opera di un atto di energia creativa concreta che porta mezzi e fine sul piano morale e assume la responsabilità di fondarli e svolgerli in esso. Così nessun fine giustifica la violenza come mezzo e tanto meno la violenza si giustifica come fine a se stessa; ma la violenza può divenire forza costruttrice di un mondo, in cui si libera, si concreta e si estende la vita morale, e perciò assunta in questa e in questa illuminata.» (16)
La questione secondo me, potrebbe essere spiegata in questi termini: vi sono momenti della storia nei quali la violenza è necessaria nel senso di ineluttabile. Alle aggressioni, alla violenza, all'ingiustizia nutrita di violenza, si può e si deve rispondere con la violenza, per vincere, ovvero, per costruire un mondo migliore e meno violento eliminando in un solo colpo sia i violenti sia le cause stesse della violenza. Messa così, la questione rischia di scivolare in una specie di relativismo storico, ogni epoca ha la sua peculiarità, ed è vano misurarla con metri che non appartengono al suo pathos.
(continua)
(1) G. Preti - La filosofia di Marx e la crisi contemporanea in In principio era la carne. Saggi filosofici inediti (1948-1970) - a cura di M. Dal Pra, Milano 1983
(2) L. Geymonat - Storia del pensiero filosofico e scientifico - Vol. VIII
(3) G. D. Neri - Crisi e costruzione della storia. Sviluppi del pensiero di Antonio Banfi - Verona 1984
(4) A. Banfi - La crisi, All'insegna del pesce d'oro, Milano 1967
(5) A. Banfi - L'uomo copernicano - Il Saggiatore 1950
(6) A. Banfi - Saggi sul marxismo - Roma 1960
(7) A. Banfi - ivi,
(8) A. Banfi - La crisi, cit
(9) A. Banfi - ivi,
(10) A. Banfi - L'uomo copernicano - Il Saggiatore 1950
(11) A. Pieretti - Banfi / La persona come creatività - Edizioni Studium - Roma 1987
(12) A. Banfi - in La fenomenologia della coscienza storica "Studi filosofici", III (1942)
(13) A. Pieretti, cit.
(14) ivi,
(15) A. Banfi - L'uomo copernicano - Il Saggiatore 1950
(16) ivi,