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Banfi: se razionalismo critico equivale a storicismo critico e perché
di Daniele Lo Giudice


Scriveva Mario Dal Pra: «Per "razionalismo critico" si intende qui quell'indirizzo filosofico che, indicato anche come neorazionalismo o neoilluminismo ovvero come neoempirismo critico, si affermò in Italia dalla fine della guerra fin verso la fine degli anni Cinquanta, durante un quindicennio nel corso del quale furono messi in rilievo, in forma abbastanza unitaria, alcuni criteri razionali di interpretazione dell'esperienza in connessione problematica e talora in opposizione con il neokantismo contemporaneo e con la sua metodologia trascendentale. In tal modo la razionalità non fu identificata con un qualunque quadro metafisico, ma fu interpretata come una serie di funzioni volte a unificare l'esperienza e a comprendere nella pienezza dei suoi contenuti e delle sue possibilità: la successiva discussione riguardò in particolare la struttura continua, permanente e oggettiva delle funzioni razionali, oppure il loro carattere artificiale e convenzionale, legati ad aspetti operativi della cultura.» (1)
Iniziatore indiscusso, vero e proprio maestro del razionalismo critico fu Antonio Banfi, già dal 1926 con i Principi di una teoria della ragione. Banfi si era apertamente rifatto a Kant ed a Hegel. Del primo aveva accettato la critica della metafisica e soprattutto la sottolineatura della funzione della ragione come criterio dell'unificazione del sapere. Da Hegel aveva derivato la dialettica come considerazione dei vari momenti dell'esperienza e della conoscenza nel loro andare e venire reciproco, non mancando di considerare la totalità come criterio di continua unificazione. «Non si era trattato - scrive Dal Pra - di condurre la riflessione filosofica a un sistema assoluto come totalità definitiva e dogmatica della ragione, quanto invece di considerare la ragione come orizzonte teoretico aperto a un'infinita integrazione e alla continua risoluzione dei confini molteplici e parziali dell'esperienza. In tale prospettiva, i vari ambiti della cultura mantenevano la loro distinta struttura e la dialettica filosofica si spiegava essenzialmente come rilievo dei vari criteri di unificazione e la loro progressiva liberazione da spinte pragmatiche e parziali.» (2) Come vedremo tra breve, queste sottolineature di Del Pra sono ultracorrette: Antonio Banfi fu un apripista di eccezionale fecondità, inaugurando una strategia di ricerca e una storiografia filosofica che non s'era mai vista prima, e non solo in Italia.
Su Banfi esistono diversi studi. Quello di Fulvio Papi, che purtroppo, non ho avuto occasione di leggere. In polemica con questo studio sta un lavoro di Antonio Santucci. Secondo l'interpretazione di quest'ultimo (3), l'iniziale posizione di Banfi era caratterizzata da una generale "apertura" e da vivacissima curiosità "per i sottili intrecci dello spirito occidentale", inserita in un'ampiezza visiva in grado di "allargarsi in molte direzioni con una spregiudicatezza di giudizio inconsueta per le nostre scuole". Santucci sembrava protestare contro l'eccessivo rilievo dato all'incontro del giovane Banfi con il marxismo ed insisteva sull'importanza dell'itinerario fenomenologico, affrontatato "con particolare animo". E tale animo era caratterizzato da una assoluta disponibilità che sfiorava il rischio di risolversi in una "problematica infinitamente aperta e relativa", per non dire "nella neutralità caratteristica dei giudizi puramente descrittivi". Reagendo così - continua il Santucci - ai palesi limiti e alle anguste ristrettezze della metodologia crociana e dell'attualismo gentiliano, Banfi non poteva ancora permettersi una scelta precisa. «Ne derivava un atteggiamento di assoluta libertà che non concedeva ancora al marxismo un ruolo privilegiato nel contesto della riflessione contemporanea. Gli si riconosceva, è vero, la liquidazione del determinismo e dell'astratta obbiettività della sfera economica, ma non s'andava oltre tale rilievo e s'era lungi dall'elevarlo ad autocoscienza e verità della storia.» (4)
Paolo Rossi, credo giustamente, sostenne che tale interpretazione del Santucci sembrava fatta apposta per distinguere seccamente il Banfi filosofo dal Banfi politico, per salvare il primo e meglio criticare il secondo. (5) Come se i due uomini si potessero separare! Dal Pra, mi pare, abbia colto nel segno quando afferma che la seduzione marxista fu per Banfi una "radicale concretezza" capace di liberare la realtà storica "dalle nebbie ideologiche" e di evidenziare le "responsabilità determinate" delle classi sociali oppresse e dominanti. «Il marxismo - scriveva Dal Pra - insomma, e il movimento del proletariato non toglievano affatto di mezzo l'importanza del "puro orizzonte teoretico" che la filosofia doveva riguadagnare, quanto contribuivano a liberare l'esperienza storica dai valori astratti, dalle "pigre ideologie", dai miti di evasione, per riaffermarla nella sua concretezza e nella sua sua capacità dinamica di liberazione. Se - continuava Dal Pra - in tale prospettiva, il marxismo poteva essere inteso come un movimento storico che andava nella stessa direzione della filosofia critica, anche se a livello immediato dell'esperienza storica, nei giudizi determinati sulle principali correnti della tradizione filosofica italiana, tanto Banfi quanto i collaboratori della rivista si lasciavano spesso prendere la mano da un materialismo storico alquanto immediato.» (6)
La rivista di cui parlava Dal Pra era "Studi filosofici", fondata nel 1939 ed apparsa per la prima volta nelle librerie nella primavera del 1940. Ad essa collaborarono Remo Cantoni, Giovanni Maria Bertin, Enzo Paci e Giulio Preti. (7)
Ma le idee di Banfi, il suo progetto, erano maturati ben prima, in un contesto molto ampio e frastagliato di esperienze. Non possiamo dimenticare, ad esempio, la grande influenza che ebbe su Banfi il pensiero di Georg Simmel. Banfi portò il pensiero di Simmel in Italia, presentando il suo Problemi fondamentali della filosofia, pubblicati nel 1920. Lo introdusse ricordandolo come "il maestro della sua giovinezza". Nella Presentazione, scriveva: «Certo la vita, come una corrente, crea le forme in cui il suo corso si svolge, per inghiottirla continuamente in sé, ma perché questo processo si riveli nella sua universalità allo spirito, perché si innalzi a crisi, occorre che l'unità ideale stessa delle forme, dopo essersi salvata in un'esasperata tensione contro il processo di dissolvimento, o nell'intimità delle anime o nella purezza di un ideale, crolli e si disfaccia essa stessa, e le forze contrastanti, nel momento che l'abbattono, si illuminino di un raggio del suo valore.» Banfi si rivelava qui come del tutto cosciente dell'importanza di Simmel come filosofo della crisi. Possiamo anche vedere come il significato della parola crisi non abbia per nulla un solo connotato negativo. La crisi è una transizione, per quanto problematica. A quanto di doloroso essa comporta, va sempre accompagnato un accento positivo di valore spirituale. Rispetto allo spezzarsi dei valori spirituali, al loro dissolversi in Simmel, in un "assoluto e universale relativismo", Banfi reagì opponendosi alle facili evasioni e a rassegnati scetticismi, e mettendo in alternativa a qualsiasi soluzione raffazzonata, a qualsiasi differimento, una precisa strategia di pensiero. Occorreva affrontare la crisi, assumerla per intero in tutte le sue forme e le sue conseguenze come problema. E' questa la prova della grandezza e della tempra filosofica di Banfi, della sua apertura estrema.

Un articolo del 1933
Pubblicato sulla rivista "Civiltà moderna" (8), Concetto e sviluppo della storiografia filosofica, tracciava le linee del problematico rapporto tra filosofia e storia della filosofia. L'articolo non era solo una rassegna dei differenti indirizzi della storiografia e nemmeno una poderosa discussione di alcune posizioni dello storicismo tedesco. Banfi aveva preso di mira la determinazione del concetto di storia della filosofia, aggredendolo sotto il profilo di un suo caratteristico criterio di continuità e ponendolo su un piano di svolgimento relativamente autonomo. Secondo Banfi, la ragione storica è in grado di reperire un principio di continuità nello scontro e nello sviluppo di idee e sistemi che al senso comune possono semplicemente sembrare successione disordinata e persino caotica. Tale principio non era per Banfi un'entità metafisica, ma un estendersi ed un appropriarsi dell'esperienza in un insieme di relazioni capace di svolgersi in direzione di un ordine concettuale. Tale ordine, sempre aperto, quindi rinnovabile, era in grado di assorbire la generalità dei piani di esperienza. Il sapere filosofico, per Banfi, è una continuità, anche se non si presenta solocome permanere identico di problemi e concetti, ed anche valori. Il valore stesso della filosofia è dato come problematica universale che esprime una fondamentale esigenza di autonomia della sfera razionale. In tale prospettiva, va visto che lo stesso sapere filosofico non è e non può essere una crescita armonica che segue un disegno unitario, semmai il risultato dialettico di un confronto permanente tra diverse prospettive di ricerca accomunate però dalla volontà di reperire la validità teoretica, ovvero la verità. Vi si può vedere un nucleo hegeliano? Certamente sì, ma corretto, aggiustato.
"Verità"? Un termine che può disorientare, ma la verità, per Banfi, è la negazione stessa del concetto dogmatico di verità. Essa non deve essere pensata come definitivamente realizzata. In Banfi emerge così un concetto di filosofia come attualità fenomenologica, il quale non discende da una posizione filosofica particolare, ma da "una dialettica di tutte le posizioni particolari". Pertanto, la verità, nel suo senso ideale e assoluto, è solo un'idea-limite, una sorta di cosa-in-sé. Tutte le verità sono "una determinata sintesi teorica assunta come valida in funzione di determinati rapporti o problemi pragmatici, culturali teoretici"
In merito scriveva Paolo Rossi: «Banfi rifiuta dunque, in base al suo concetto di verità, ogni identificazione della parzialità con l'universalità,ogni pretesa di far coincidere la verità con una sintesi determinata, ogni affermazione del carattere definitivo ed esaustivo di un sistema determinato. Ciascuna di queste pretese è per Banfi il caratteristico prodotto dello spirito dogmatico e dell'antiragione. Ed è facile intendere come, da questo punto di vista, lo storicismo possa apparirgli "correlativo all'indirizzo antidogmatico della filosofia". In quella "posizione di principio" si esprime infatti un'esigenza fondamentale : "che nessuna posizione sia obiettiva che valutativa, che nessun piano parziale di rapporti sia assunto come assoluto e che il sistema stesso di interrelazione che determina ogni fatto sia concepito nel suo continuo processo di sviluppo". Non solo quindi rinuncia alla assolutezza metafisica e alla definitività delle filosofie, ma consapevolezza che il sistema di coordinate mediante il quale opera la ragione è esso stesso qualcosa che diviene nel tempo.» (9)
A questo punto, Banfi può dire che uno dei doveri più seri ed impegnativi della ricerca filosofica e storica è l'individuazione del processo dinamico di evoluzione dei concetti e delle stutture speculative: «Non v'è concetto - scriveva Banfi - che possa valere in un senso univocamente e genericamente definito, neppure il concetto della filosofia stessa, considerata nella sua concretezza storica. E questa esperienza che la storiografia ci offre si riflette visibilmente nel campo sistematico. Infatti l'uso di qualsiasi concetto - se vuol essere esente da ingenuità presupposti impliciti - richiede un'analisi storica del suo contenuto e della sua funzione; l'assunzione di qualsiasi problema implica che noi ne controlliamo storicamente la posizione ed il significato. Ci si potrà opporre il fiorire e il largo sviluppo dell'intuizionismo nelle sue varie forme, dalla filosofia bergsoniana a quella fenomenologica, che tutte sembrano fondarsi su di un immediato rapporto tra l'oggetto ed il soggetto del sapere, da cui siano eleminate le relazioni di tipo pragmatico. E noi siamo ben lontani dal negare l'importanza di tali indirizzi rivolti a riportare la filosofia, fuor di schemi tradizionali ed invecchiati, a contatto con aspetti e sensi nuovi dell'esperienza o con la ricchezza dei suoi dati e delle sue forme, ma la loro ingenuità storica costituisce proprio il loro limite dogmatico, così che il loro valore e il senso della loro problematica e del sistema dei concetti che li caratterizzano non possono veramente chiarirsi ed avere tutta la loro fecondità, se non in quanto, come di fatto avviene, siano reintrodotti nel corso generale della storia del pensiero e interpretati in sua funzione.» (10)
L'accostamento operato tra Husserl e Bergson dovrebbe far riflettere chi continua a vedere in Banfi una propaggine italiana dello stesso Husserl. Per carità, non stiamo a discutere se l'accostamento sia legittimo, e se non sia esso stesso "intuizionismo", si tratta solo di capire che Bergson e Husserl esprimono due forme di intuizionismo molto diverse e distanti tra loro. Comunque, è un fatto che Banfi si distanzi da Husserl fin dal 1933, ed ancora più esplicitamente, lo farà in un saggio del 1957, scritto a commento della Krisis. Ma di questo parleremo più avanti.
Qui interessa evidenziare un concetto fondamentale in Antonio Banfi, ovvero che accettare la storicità del sapere significa contestare alla radice il concetto dogmatico e metafisico della verità. Esiste, dunque, un rapporto assai stretto tra concetto di verità e storicismo. Ma, laddove lo stesso storicismo si presenti come semplice rovesciamento-negazione del dogmatismo, esso rischia di configurarsi come relativismo o scetticismo. Ciò accade quando lo storicismo si presenta come interpretazione di una "storia" intesa come "indifferente serialità di accadimenti", estremizzando così la sua opposizione alla storia escatologica governata dalla Provvidenza divina. Che si tratti di sintetizzare una via di mezzo?
No. Il problema è di definire il concetto stesso di sapere storico, e di sottrarlo, per quanto possibile, a quanto di dogmatico esso ancora incorpora. Come rilevava Paolo Rossi, è inevitabile che l'antidogmatismo semplicistico sia esso stesso dogmatico. E lo si può verificare in tre casi: 1) quando si escluda che i fenomeni culturali possono essere oggetto del solo sapere storico; 2) quando si rifiuti, per questa via, di allargare l'indagine a piani complementari, e non solo complementari, di saperi e domini trasversali e astratti dalla storia quali quelli della psicologia e della sociologia; 3) quando ci si limiti a pensare, spenglerianamente, e non solo, che ogni forma filosofica sia espressione di un mondo, che sia sorta da quel mondo, e che venga interpretata, quindi, riduttivamente, come semplice "risposta" a situazioni storicamente determinate. E' un pensiero, quest'ultimo, che sfiora anche Marx nella sua componente storicistica.
Il "cattivo storicismo" è dunque il relativismo. Contro di esso Banfi fa valere la persistente presenza in ogni filosofia di valori e significati che "trascendono" le circostanze storiche.
«Ogni visione filosofica - scrive Banfi - è bensì un momento del processo di attualità fenomenologica dell'ordine teoretico determinato da una particolare situazione di cultura e di vita e destinata a integrarsi con le altre dialetticamente, ma ha pure una sua propria inconfondibile verità, ossia questo valore che trascende la singolare realtà storica, pur innestandosi in essa, consiste non nella validità obbietiva della teoria sistematica considerata nel suo schema astratto, ma nella vitalità complessa e dialettica del sistema in quanto esprime l'atto della ragione nella particolarità dell'esperienza e disegna una direzione o un fascio di direzioni secondo cui la vita può e deve spezzare la fissità dei suoi schemi empirici ed elevarsi a idea. Il significato della filosofia platonica, spinoziana, kantiana o hegeliana non si lascia risolvere nella considerazione del suo valore rispetto al mondo di cultura su cui è sorta e neppure nella determinazione dell'apporto concreto alla sistematica generale del pensiero filosofico... In ciascuna di quelle filosofie prende rilievo una serie di relazioni , di significati, di problemi per cui l'ordine empirico si dissolve in se stesso e trapassa o tende a trapassare nell'ordine razionale, e questo prende a sua volta corpo e vita. E' questa complessa inesauribile energia di trasfigurazione che costituisce la verità ideale di tali sistemi, per cui oggi ancora e sempre e in diversi modi essi suggeriscono alla coscienza la necessità del pensiero filosofico e a questo vie e motivi del suo sviluppo.»

(continua)

(1) M. Dal Pra - Il razionalismo critico - in La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi - a cura di Eugenio Garin - Laterza 1985
(2) idem
(3) A.Santucci - Sul pensiero di A. Banfi - "Rivista critica di storia della filosofia" n 2, 1962
(4) idem
(5) P.Rossi - Storia e filosofia - Einaudi 1969
(6) ancora M. Dal Pra - Il razionalismo critico - in La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi - a cura di Eugenio Garin, cit.
(7) la rivista fu ristampata da Arnaldo Forni, Bologna, nel 1972 in quattro volumi
(8) il saggio si può trovare in La ricerca -
(9) P. Rossi - Storia e filosofia - Einaudi 1969
DLG - 1 ottobre 2006