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Archimede
di Daniele Lo Giudice


Archimede fu probabilmente il più grande scienziato dell'antichità anche da un punto di vista moderno. Non già un filosofo teoretico alla ricerca di principi ed elementi fondamentali, ma un ricercatore attento alla realtà delle cose, ai rapporti di proporzione e misura tra le figure geometriche, a quanto accade quando un solido viene immerso in un liquido, a problemi di ottica ed all'uso delle lenti. Fu insieme pratico e teorico, una qualità rara tra gli studiosi antichi, i quali, come s'è visto, erano piuttosto inclini a disprezzare le attività manuali. Ciò era dovuto ad un malinteso modo di vivere "aristocratico", possibile solo in un sistema schiavistico. Lungi dal formulare giudizi moralistici, tanto più che pare indubbio che gli schiavi fossero trattati umanamente nel mondo greco, si tratta tuttavia di capire che quando la divisione sociale del lavoro viene esasperata fino al punto che non ci si rende conto della fatica e dell'impegno mentale ed intellettuale che richiedono determinati compiti, si realizza anche una distorsione nella coscienza della realtà.

Archimede, sebbene alcuni aneddoti lo dipingano come uno stravagante distratto dai problemi, poco curante del suo aspetto, e spesso trascinato dai suoi stessi servi a prendere un bagno, fu comunque un uomo notevole perchè si sporcò le mani con la manualità, allo stesso modo con il quale molti medici si erano sporcati le mani con il sangue della vivisezione o dell'attività chirurgica. Uomini comunque pratici, anche se spesso molto lontani dalla realtà e completamente immersi nell'astrazione.
Per la verità, sempre in base ad aneddoti tramandati, sembra anche che egli attribuisse scarso valore alle sue realizzazioni pratiche, preferendo di gran lunga le conquiste teoriche. Però è un fatto che esse rimasero, e molte di esse furono tra l'altro ereditate dal console romano Marcello, in particolare le ingegnose macchine da guerra.
Ma come vedremo, Archimede fu anche uno dei primi consulenti scientifici nella storia dell'umanità. Senza dubbio consigliò i costruttori di navi sia ad Alessandria che a Siracusa, e la celeberrima Siracusana, vanto della flotta di Gerone, fu progettata e realizzata con la sua supervisione. Un altro aneddoto racconta di come riuscì a far scivolare in acqua una nave costruita in un cantiere e troppo pesante persino per tutti i lavoratori presenti.
Molti sono inoltre convinti che se avesse avuto a disposizione vetro di migliore qualità, avrebbe certamente precorso galileo nella realizzazione del cannocchiale e nell'esplorazione del cosmo. Certamente avrebbe anche approfondito gli studi di ottica. Rimane per ora accertato che con le lenti riusciva ad incendiare le navi della flotta romana a distanza.

Abbiamo a disposizione alcuni scritti di Archimede e la visione di questi può aiutarci a comprendere quanto il siracusano abbia realizzato in epoca ancora povera di tecnica e strumenti in senso stretto.
Nacque a Siracusa, nella famiglia dell'astronomo Fidia, figlio di Acupatro. Un erudito bizantino del XII secolo, tale Joannes Tsetzes, riferisce che morì a 75 anni. Ovvero nel 212.a.C., quando lo uccise un soldato romano durante la conquista di Siracusa. Sarebbe dunque nato nel 287 a.C. Era ancora bambino quando Pirro, re ellenistico dell'Epiro occupò la città, forse con i suoi terribili elefanti da guerra. Ma il dominio epirota durò poco e la città venne poi governata dal tiranno Gerone, che dapprima si alleò coi cartaginesi per difendersi dai romani, e poi si acconciò ad accettare l'egemonia romana su tutta la Sicilia al fine di conservare l'indipendenza di Siracusa.
Gerone garantì grazie a questa politica circa un quarantennio di pace. Ma Archimede vide ben poco di tutto questo perchè studiò ad Alessandria, al Mouseion, fatto costruire da Tolomeo proprio con l'intento di attirare in Egitto tutta l'intellighentsia dell'epoca.
Una saggia politica di investimenti nella ricerca scientifica, diremmo oggi, forse pagata con le truffe religiose di cui abbiamo parlato in altra sede.
Erano convenuti ad Alessandria Aristarco e Conone di Samo. Ad Alessandria aveva operato il grande sistematore della geometria antica Euclide.
Non sappiamo quando Archimede fece ritorno a Siracusa. Forse nel 240 a.C.
Dalla lista delle opere edite da Heiberg abbiamo un'idea della "mostruosa" intelligenza matematica di Archimede.
Tra esse vale la pena di segnalare: Sulla sfera e sul cilindro, un testo indirizzato a Dositeo di Alessandria. In esso si dimostra che la sfera è 2/3 del cilindro ad essa circoscritto e che la superficie della sfera è uguale a 4 cerchi massimi.
Misura del cerchio. Un lavoro brevissimo articolato nella dimostrazione di sole tre proposizioni. Il cerchio è uguale al triangolo rettangolo avente per cateti il raggio il raggio e la lunghezza della circonferenza. Interessante anche la terza dimostrazione: il rapporto tra la circonferenza ed il diametro deve essere compreso tra 3+10/71 e 3+1/7.
Sull'equilibrio dei piani, opera in due libri. Nel primo viene dedotta la legge della leva e viene determinato il centro di gravità di alcune figure piane: parallelogramma, triangolo, trapezio. Il secondo è interamente mirato ad individuare il centro di gravità del segmento di parabola.
Sulle spirali. Opera nella quale Archimede ottenne la costruzione di una rettificazione della circonferenza mediante la "spirale d'Archimede", ovvero la curva descritta da un punto in moto uniforme su una retta che si muove a sua volta di moto circolare uniforme.
Sui galleggianti. Opera in due libri. Nel primo viene enunciato e dimostrato il ben noto principio secondo il quale un corpo immerso in un fluido, ovviamente più leggero del liquido stesso (altrimenti non si capisce perchè in un bacile il corpo sprofonda), riceve una spinta verso l'alta pari al peso del volume di acqua spostato. Nel secondo libro è studiato il comportamento di un paraboloide galleggiante.
L'Arenario. Un trattato dove Archimede riportava a grandi linee la teoria astronomica eliocentrica di Aristarco di Samo, senza mostrare, tuttavia, di condividerla. Nell'analizzarla, era però costretto a misurarsi con il problema dei grandi numeri necessari a dare dimensione alle grandezze cosmiche.
Non ultimo viene Il Metodo, opera importantissima di cui parleremo diffusamente in chiusura.
Una bella monografia su Archimede è stata recentemente pubblicata da Le Scienze nella collana "I grandi della scienza". (1) E' firmata da Pier Daniele Napolitani e l'ho trovata di grandissimo interesse. Ad essa rinvio chiunque voglia davvero approfondire, soprattutto la parte matematica.

I testi disponibili attualmente
Allo stesso modo dei Dialoghi platonici e delle opere acroamatiche di Aristotele, anche le opere di Archimede conobbero un lungo travaglio e momenti di oblio, quantomeno in occidente. Fu Guglielmo di Moerbecke a tradurre qualcosa in latino poco oltre il 1250, seguendo due manoscritti greci: il codice A ed il codice B. L'originale di Moerbecke si trova attualmente custodito nella Biblioteca Vaticana, dove approdò nel 1740.
"Il codice A era andato perduto nel corso del XVI secolo, ma aveva lasciato dietro di sé una numerosa progenie - scrive Napoletani - Non solo ne furono redatte varie copie nel corso del XV e del XVI secolo, ma verso il 1450 era stato tradotto in latino dall'umanista Jacopo di San Cassiano. Il testo greco di una copia di A e la traduzione di Jacopo servirono come base dell'editio princeps greco-latina del testo di Archimede che uscì a Basilea nel 1544. "

Il personaggio cui va il merito principale della resurrezione e della riscoperta di Archimede fu il danese Johan Ludvig Heiberg (1854-1928). Grazie a lui disponiamo non solo di molti importanti testi archimedei, ma anche di edizioni critiche delle opere di Euclide e di Apollonio di Perge.
"Fu forse un bene che- scrive Napoletani - impegnato nelle edizioni euclidee e apolloniane, Heiberg non rimettesse subito le mani su quella archimedea. Infatti, nel 1899 il suo collega H. Schöne, che collaborava con Heiberg all'edizione delle opere di Erone, lo informò di aver letto in un catalogo della biblioteca del Patriarcato di Gerusalemme qualcosa a proprosito di un palinsesto matematico che si trovava a Costantinopoli."
Cos'è un palinsesto? Un papiro od una pergamena da cui è stato raschiato via il testo originario e su cui è stato vergato un testo nuovo. Succedeva, per il costo elevato che avevano papiri e pergamene. L'incolpevole idiota autore del misfatto era stato un religioso ansioso di compilare un Eucologion, un libro di preghiere!
Fortunatamente fu possibile recuperare parte importante dello scritto originario, risalente al X secolo. Ed ecco il miracolo: apparvero i trattati sulla Sfera ed il cilindro, La misura del cerchio, le Spirali, L'equilibrio dei piani, I galleggianti nonchè un'opera interamente nuova, ovvero Il metodo sui teoremi meccanici.
"La scoperta - scrive ancora Napoletani - imponeva una revisione completa dell'edizione. L'anno dopo pubblicava, con H.G. Zeuthen, il testo del Metodo, accompagnato da un commento matematico. Si può avere idea dell'impressione che destò la scoperta pensando che il New York Times pubblicò la notizia in prima pagina il 16 luglio 1907; e si pensi all'aspetto davvero miracoloso del recupero, a distanza di mille anni, di un testo così importante. L'edizione definitva, basata sullo studio del palinsesto (codice C) ritrovato a Costantinopoli e della traduzione di Moerbecke - e corredata dall'edizione dei commenti di Eutocio -sarebbe uscita nel 1910-1915. Ed è quella su cui ci basiamo ancora oggi."

Il principio della leva
Già alcuni scritti di Aristotele contenevano l'enunciazione del principio secondo cui due pesi posti su una bilancia stanno in equilibrio quando sono inversamente proporzionali alla loro distanza dal fulcro. Gli scolari di Aristotele, poi, associarono questo principio con quello che il moto rettilineo verticale fosse l'unico moto terrestre naturale ed evidenziavano il fatto che gli estremi diseguali di una bilancia, quando venissero fatti ruotare attorno al fulcro, tracciavano circonferenze e non segmenti rettilinei.
L'estremo del braccio più lungo, tuttavia, disegna una circonferenza più ampia e quindi la sua traiettoria si avvicina di più al moto rettilineo verticale. Secondo loro, il principio della leva è conseguenza di di questo principio cinematico.

Archimede, diversamente, dedusse il principio da un postulato statico: i corpi a simmetria laterale sono in equilibrio.
Già da questo esempio è abbastanza facile intuire la differenza tra il metodo di indagine fisica dello stagirita e della sua scuola, da quello di Archimede. Il metodo aristotelico era speculativo e non geometrico. Archimede si serviva di un metodo simile a quello di Euclide, partendo dall'evidenza di postulati.
Il trattato sull'equilibrio dei piani studia figure rettilinee e si chiude con la discussione sui centri di gravità del triangolo e del trapezio. Nel secondo libro dello stesso trattato, Archimede si concentrò sul centro di gravità di un segmento di parabola e diede la dimostrazione che questo centro si trova sul diametro del segmento, dividendo lo stesso diametro in segmenti che stavano in rapporto proporzionale di 3:2. Per arrivare a ciò, egli fece ricorso al metodo di esaustione inaugurato da Eudosso, qualcosa che prefigurava il calcolo infinitesimale, anche se sarebbe gravemente scorretto attribuire ai Greci l'invenzione dello stesso.
Non tutti gli studiosi furono convinti della rigorosa validità delle conclusioni di Archimede ed una rassegna interessante dei punti di vista si trova nel volume di E.J. Duksterhuis, del 1957, intitolato Archimedes.
Ma la maggioranza degli studiosi pare accettare il giudizio secondo il quale applicando la geometria a problemi concreti di meccanica, si posero le basi per un indiscutibile avanzamento degli studi e delle applicazioni pratiche. Però è un fatto che occorsero più di ottocento anni affinchè le scoperte di Archimede fossero veramente messe a frutto. Fabio Minazzi, ad esempio, pare fermamente convinto della grande influenza che le opere archimidee ebbero su Galileo Galilei. (2)

Analogamente, anche il trattato Sui galleggianti, pure in due libri, muove da semplici postulati sulla natura dei fludi. La fama del libro è naturalmente legata al supernoto episodio di Archimede che esce dal bagno tutto nudo e corre gridando: "Eureka!" (l'ho trovato!)
Ma un altro aneddoto è altrettanto degno di menzione. Il tiranno Gerone si era fatto costruire una corona d'oro da un orefice, ma sospettava che l'orefice l'avesse ingannato, sostituendo parte dell'oro con l'argento. Ebbene, Archimede scoprì l'inganno semplicemente confrontando gli spostamenti di acqua provocati dall'immersione di uguali quantità di oro, argento e la corona stessa. In sostanza, avrebbe avuto idea di quello che noi oggi chiamiamo il peso specifico, anche se non vi è alcuna prova di questa scoperta.

Nelle proposizioni iniziali di Sui Gallegianti sono formulati i noti principi della spinta idrostica.
«Qualsiasi solido più leggero di un fluido, se collocato nel fluido, si immergerà in misura tale che il peso del solido sarà uguale al peso del fluido spostato.» (Lib I, Prop 5)

«Porzioni di liquido tra loro contigue e allo stesso livello non sono in equilibrio se sono compresse in misura diversa [...] e ciascuna porzione è compressa dal peso del liquido che è sopra di sè in verticale, purchè il liquido non sia rinchiuso in qualcosa o compresso da qualcos'altro.» (Lib. I, Prop. 6)

« Un solido più pesante di un fluido, se collocato in esso, discenderà in fondo al fluido e se si peserà il solido nel fluido, risulterà più leggero del suo vero peso, e la differenza di peso sarà uguale al peso del fluido spostato.» (Lib. I. Prop.7)

I più preparati avranno notato che la Prop. 6 prepara il terreno al principio dei vasi comunicanti.

Scrive a commento Lucio Russo (1): «L'idrostatica di Archimede non si esaurisce però affatto in quell'enunciato, come l'insegnamento scolastico in genere suggerisce. I problemi tipici che Archimede risolve nel suo trattato consistono nel trovare le linee di galleggiamento di solidi in equilibrio immersi in un liquido omogeneo e, soprattutto, nello studiare la stabilità delle loro posizioni di equilibrio. A questo proposito il risultato più interessante riguarda i galleggianti a forma di segmenti retti di paraboloidi in rotazione. Archimede studia la stabilità dell'equilibrio della loro posizione verticale al variare di due parametri: un "fattore di forma" (che determina quanto è "largo" il paraboloide) e la densità del solido. Il suo risultato principale può essere enunciato affermando che se il paraboloide è abbastanza "largo", l'equilibrio verticale è sempre stabile, mentre se la forma si restringe oltre una certa soglia appare una soglia nella densità (calcolata anch'essa da Archimede), al di sotto della quale (se cioè il solido non pesca abbastanza) la posizione di equilibrio verticale diviene instabile, mentre divengono stabili tutte le posizioni nelle quali l'asse di simmetria del segmento di paraboloide forma con la verticale un angolo determinato dipendente dalla densità.»

Con ciò siamo evidentemente ben oltre la matematica greca classica, o quantomeno, all'idea che di essa è stata tramandata.
Ancora Russo evidenzia ad esempio, come Archimede riuscì a utilizzare due modelli differenti: nel primo libro assunse infatti quello della sfericità della superficie degli oceani, mentre nel secondo essa venne considerata piana! E va anche notato che, in base al testo pervenuto, egli non spese una parola per motivare le scelte. Tocca a noi capire che mentre un modello, quello su base sferica è utilizzato per un ragionamento su scala più grande, quello a base piana è utilizzato per la scala ridotta.

Il trattato sui Galleggianti può dunque essere letto anche come uno scritto di ingegneria navale "teorica", oltre che uno dei primi esempi di fisica matematica.
Se i precedenti geometrici del lavoro di Archimede vanno cercati in Euclide e Eudosso di Cnido, quelli fisico-meccanici si ritrovano in parte in Democrito ed in parte (ma su un versante del tutto erroneo) in Aristotele (per il quale la leggerezza era il contrario del peso). Democrito, ad esempio, aveva ipotizzato che la spinta verso l'alto dei corpi "leggeri" fosse determinata dagli atomi del fluido in cui i corpi stessi erano immersi.
Da parte sua, anche Stratone di Lampsaco, peripatetico, aveva scritto un trattato sul vuoto andato perduto.

L'Arenario
Eccoci ad un'opera stupefacente che si può apprezzare solo se si prescinde dalla nostra attuale conoscenza matematica ed astronomica.
Seguendo l'ipotesi di Aristarco di Samo secondo cui la terra si muove attorno al sole, Archimede si rese conto che tale sistema astronomico avrebbe dovuto comportare un mutamento nelle posizioni relative delle stelle fisse, corrispondente allo spostamento della terra di parecchi milioni di miglia nel suo moto di rivoluzione.
Ma la mancata verifica di tale spostamento, dovuta all'effetto di parallasse, indusse gli astronomi dell'antichità contemporanei e successivi ad Aristarco a respingere l'ipotesi. Non abbiamo prove circa la posizione di Archimede. Aristarco aveva risposto a tali obiezioni asserendo che l'assenza di parallasse si doveva alla enorme distanza delle stelle fisse dalla terra.
Per meglio discutere l'ipotesi di Aristarco, Archimede dovette affrontare il problema della dimensione dell'universo e i grandi numeri necessari alla quantificazione. Così egli pretese di poter scrivere un numero ancora maggiore del numero di granelli di sabbia necessari a riempire il cosmo. Il cimento lo portò a concepire un numero pari alle attuali 800.000.000 cifre, qualcosa che nella scrittura alfabetico-numerica di allora corrispondeva a una bimiriade di miriade di miriadi di unità del bimiriadesimo ordine del bimiriadesimo periodo.
«Fu in connessione con quest'opera sui grandi numeri che Archimede accennò -scrive Boyer - purtroppo solo di sfuggita, a un principio che più tardi doveva portare all'invenzione dei logaritmi: l'addizione degli ordini di numeri (l'equivalente dei loro esponenti quando la base è 100.000.000) permette di calcolare il prodotto dei numeri stessi. » (3)

Il Metodo sui teoremi meccanici
Questo libro è molto importante perchè sfata un mito consolidato attorno al siracusano, ovvero la credenza che egli avrebbe tenuto nascosto il suo metodo di approccio e risoluzione dei problemi affinchè le sue opere ed il suo ingegno risultassero misteriosi ed ammirabili. «Tutti gli altri suoi trattati - scrive Boyer - sono gemme di precisione logica, con scarsi riferimenti all'analisi preliminare che aveva portato alle formulazioni definitive. » (3)
Il trattato fu scritto in forma epistolare ad Eratostene, matematico e bibliotecario di Alessandria. Archimede apriva la lettera asserendo che è più facile trovare la dimostrazione di un teorema se si è già in possesso di qualche conoscenza di ciò che esso comporta. E come esempio citava le dimostrazioni realizzate da Eudosso di Cnido relative al cono ed alla piramide. Queste, a suo avviso, erano state facilitate da affermazioni fatte da Democrito, il quale però non le aveva dimostrate.
Cosa aveva detto il filosofo atomista? Che cono e piramide sono rispettivamente 1/3 del cilindro e del prisma aventi la stessa base e la medesima altezza.
Queste affermazioni erano servite da guida ad Eudosso per la sua dimostrazione.
Non proprio analogamente, anzi con molte diversità che cercheremo di evidenziare, Archimede racconta ad Eratostene di come si sia servito di un metodo meccanico per arrivare alla formulazione di un teorema geometrico. Aveva posto dei segmenti rettilinei su una bilancia allo stesso modo in cui ci si mettono dei pesi in equilibrio. In pratica, quando formulò il teorema, era già in possesso non già della dimostrazione, ma della sua evidenza fisico-meccanica.
Questo cambia un poco la dimensione mentale cui siamo abituati da studenti nella quale si viene chiamati a dimostrare qualcosa di cui non sappiamo altro che la formulazione stessa. Siamo cioè più nella condizione di Eudosso che in quella di Archimede.
Comunque sia, il vero merito di questo antico trattato mi pare sia stato colto con lucidità non solo matematica dal Napoletani. Archimede ricorse ad un metodo spurio e non proprio ortodosso. Ciò è particolarmente evidente nel confronto tra i centri di gravità di un paraboloide ed un cilindro e nella dimostrazione della quadratura della parabola.
«A nostro avviso - scrive Napoletani - [...] il punto delicato della tecnica proposta da Archimede è il passaggio dallo studio delle singole sezioni dei due oggetti che si stanno confrontando a considerale collettivamente. Dire, per esempio, che il cilindro "è fatto" da tutti i suoi cerchi-sezione, nel contesto della geometria greca è praticamente un assurdo. Il problema si ricollega al problema della composizione del continuo: la retta non è fatta di infiniti punti, anche se contiene infiniti punti. Non è possibile cioè risolvere un corpo nell'aggregato infinito delle sue sezioni bidimensionali, o una figura piana in quello delle sue sezioni uno-dimensionali.
Tutta la teoria delle proporzioni e tutta la gometria di misura si basano sul rifiuto di una concezione del genere. Si pensi al cosiddetto assioma di Eudosso-Archimede o, se si vuole, alla definizione di grandezze che hanno rapporto tra loro negli Elementi di Euclide...: date due grandezze, una delle quali può essere moltiplicata fino a superare l'altra. Ora, per quanto si moltiplichi un cerchio-sezione di un cilindro non si potrà mai ottenere un oggetto tridimensionale. Il confronto tra grandezze di dimensione diversa è esplicitamente escluso dalla teoria delle proporzioni.
Il fatto che Archimede sia riuscito ad andare oltre questo limite, sia pure in ambito euristico, fa toccare con mano la profondità del suo pensiero. Egli riuscì ad affacciarsi alla considerazione di rapporti puramente quantitativi fra le grandezze, astraendo dalla loro forma. Ne è una prova anche il modo con cui "sposta" le sezioni sulla bilancia: nella bilancia finale non si trovano più i due solidi di partenza, ma le due masse dei cerchi-sezione, concentrati intorno al loro centro di gravità.» (1)
Certo, per ottenere una reale comprensione di quanto detto finora c'è un solo modo: leggere la monografia citata e poi armarsi di matita, squadra e compasso e procedere nell'analisi attuata da Archimede.

L'idea, suggerita dallo stesso Napoletani, che i lavori di Archimede siano un pozzo inesauribile di genialità appena abbozzate e gravide di importanti conseguenze ancora tutte da esplorare è del tutto vera. A me, ad esempio, sempre rispetto al tema del rapporto tra quantità discrete e continue è venuto un bel ragionamento assurdo: come è possibile che sia un segmento limitato che una retta illimitata contengano lo stesso infinito numero di punti? Mi aveva sferzato già Renzo Grassano, quando qualche anno fa aveva scritto un velenoso commento ad un moderno manuale di geometria, asserendo che nei postulati iniziali occorre precisare che il punto non ha dimensione.
Altrimenti si finisce in un ginepraio logico senza fine.

note:
(1) Pier Daniele Napolitani - Archimede - Le Scienze - 2001
(2) Fabio Minazzi - Galileo "filosofo geometra" - Rusconi 1994
(3) Charles Boyer - Storia della matematica - Mondadori


DLG - 4 gennaio 2003