| home | filosofia oggi e domani | Toyo tetsugaku (zhexue)|

La filosofia cinese: altra, ma non totalmente altra
di Guido Marenco

 


Deng Shi (1877-1951) pensò che molti aspetti del sapere occidentale introdotto in Cina a partire dal declino dell'epoca Ming erano compatibili con il sapere dei maestri dell'epoca Zhou. Strano a dirsi ma, quando Deng Shi cominciò a pensare in questi termini non si era ancora chiaramente affermato il corrispettivo "cinese" di "filosofia".
Il termine zhexue fu importato dal Giappone, mediante la traduzione di un neologismo coniato nel 1866 dallo storico delle idee Nishi Amane (1829-1897): tetsugaku. Mentre all'università imperiale di Tokio incominciarono a tenersi corsi di "filosofia cinese" (toyo testsugaku, ovvero Filosofia dell'Estremo Oriente), gli intellettuali cinesi avevano ancora molti dubbi su come e dove trovare "filosofia" nel loro sapere tradizionale.
Fu Kang Youwai (1858-1927) - lo ribattezzerei Change Your Way:-) - a portare un contributo decisivo, mobilitando - come racconta Anne Cheng - tutto il fondo del sapere tradizionale cinese per fronteggiare le inquietanti "invasioni barbariche" occidentali. Un allievo di Kang Youwai, Tan Sitong (1865-1898), fu particolarmente efficace nel riassumere il momento soggettivo vissuto da molti ntellettuali quando scrisse:

"Per me, è la conoscenza, e non l'azione, ad avere il maggior valore, poiché la conoscenza pertiene all'anima, l'azione al corpo. Confucio ha detto:« Sapere che si sa quando si sa, e sapere che non si sa quando non si sa, questa è la vera conoscenza.» Sapere è conoscenza, ma anche non sapere lo è. Mentre l'azione ha i suoi limiti, la conoscenza non ne ha; si può venire a capo dell'azione, ma non della conoscenza. L'azione non può eguagliare la conoscenza; nessuno può farci nulla. Ciò che la mano o il piede può toccare non va così lontano come ciò che l'orecchio percepisce; ciò che la memoria può registrare non ingloba altrettanto quanto l'intuizione; la misura presa con la bilancia o il regolo non sarà mai altrettanto esatta della valutazione [attuata dall'intelligenza]; tutta la bellezza della realtà non può eguagliare la purezza del principio astratto. Chi potrebbe mai cambiare qualcosa di tutto ciò? Se i letterati pedanti si lagnano di sapere senza potere, è perché la loro conoscenza non è quella vera. La vera conoscenza è quella che si può mettere in azione in ogni momento."
(citazione tratta da: Anne Cheng, vol 2° di Storia del pensiero cinese - Einaudi 2000)
Tan Sitong fu arrestato e poi decapitato con altri intellettuali vicini a Kang Youwai. Probabilmente, aveva agito in modo sconsiderato ed imprudente, assai poco cinese.

Entrare nel pensiero dell'estremo oriente partendo non già dal "fondo", il pozzo insondabile dei primordi ma, dalla crisi derivante dall'aggressione occidentale e giapponese, è scelta criticabile sotto molteplici aspetti, il primo dei quali è quello del metodo. Una storia non dovrebbe cominciare dalla fine eppure, credo che in questo caso sia legittimo operare un'inversione. Entriamo in un mondo ancora tutto da scoprire: come potremmo andare dritti al suo passato senza passare per il presente? Tutto il Novecento ha rappresentato per la Cina un periodo di grande scombussolamento e di processi contraddittori. Dal 1949 vige un regime formalmente comunista governato da "grandi timonieri". In un certo senso, fino alla morte di Mao ed al successivo avvento al potere di Deng Xiaoping, dopo due anni di lotte per la successione, la storia cinese ha seguito un percorso frenetico su una strada di sola andata, il rotolare verso la x dell'incognita profetizzato da Nietzsche. Ovvero un percorso "occidentale" condensabile nella formula della volontà di potenza dei timonieri. Il culmine di quel percorso nichilistico venne raggiunto nel periodo della rivoluzione culturale, momento nel quale il principio fondamentale su cui aveva poggiato, con alterne vicende il pensiero cinese da Confucio in poi, quello di yen, o come si scrive attualmente di ren, ovvero di umanità, è caduto sempre più in basso. Parafrasando un detto evangelico, verrebbe da dire che con il fanatismo delle guardie rosse istigate dalla moglie di Mao, non era più il comunismo ad essere fatto e proposto all'uomo ma, l'uomo ad essere fatto per il comunismo. Neanche in Russia sotto Stalin si era giunti a questo punto estremo. Il dittatore georgiano, condannando lo stakanovismo, aveva fissato una sorta di paletto insuperabile al dogmatismo ideologico. Se istighiamo i lavoratori a spremersi fino all'esaurimento, che senso ha parlare ancora di comunismo come liberazione dall'oppressione capitalistica? La moglie di Mao riuscì nella non facile impresa di oltrepassare l'ideologismo stalinista, realizzando il dover-essere per il comunismo nella sua testa e nei campi di rieducazione.
Tutto ciò ha una spiegazione storica, forse più d'una ma, è difficile arrivare a comprenderne e condividerne anche una sola, se non si torna al principio di "umanità" e ad esso non si subordinano tutti gli altri principi e valori. Ragion per cui l'unico vero dover essere è il rispetto dei diritti umani e il dovere di farli rispettare.
La Cina è risorta, è una potenza mondiale che fa paura. Si ha la sensazione che il futuro sia suo più che nostro. Ma, come sanno i più avveduti, sono stati gli stessi occidentali ad aver risvegliato il "dragone" di una "volontà di potenza cinese" con la loro dabbenaggine. Abbiamo dinnanzi un compito apparentemente impossibile: quello di un'integrazione reale delle economie, delle culture, delle genti anche per evitare che vinca il dragone, nel quale potrebbe ancora vivere qualche traccia lasciata dall'occidentalizzazione forzata. Dovremmo essere più cinesi dei cinesi per riuscirvi, mostrando di essere in grado di recuperare il ren, facendolo rivivere con l'azione.

I cinesi sono i più refrattari ad abbandonarsi alla commistione etnica. Ovunque vadano, tendono a chiudersi in grandi famiglie e comunità, a volte di tipo mafioso. Sposare una cinese non è né facile, né particolarmente attraente. Farsi sposare da un cinese non credo sia il massimo delle aspirazioni di una donna occidentale, abituata a prendersi molte libertà ed a fare dei propri comodi e della propria estetica il principio del mondo. Eppure, senza miracolosi episodi di nuovi aggregati domestici in cui il giallo diviene più bianco ed il bianco più giallo, continueranno ad esistere una "muraglia" e "città proibite" nel cuore stesso dell'occidente. Sul piano degli scambi culturali, sportivi, turistici si può far molto. Tan Sitong aveva ragione ad insistere sulla conoscenza e sull'azione. Credo sia possibile agire, ovvero mettere in movimento processi agevolando gli scambi, soprattutto quelli culturali. Dall'antica saggezza cinese abbiamo molto da imparare, da quella nuova non saprei, rimane per tanti aspetti un oggetto oscuro ed inquietante in evoluzione. A volte si ha l'impressione che vi siano più orientali in occidente che a Pechino o Shangai.
Anziché chiudersi a riccio, sarebbe utile aprirsi alla comprensione, senza cadere in due errori opposti e, purtroppo, complementari solo in senso negativo. L'errore del colonialista e l'errore di chi vede nell'antichità cinese una sorta di via di fuga dalle responsabilità e dal mondo. Il Taoismo come un preludio al buddhismo. Il buddhismo come l'unica via per sottrarsi al dukkha, la sofferenza dell'attaccamento alle cose del mondo. In realtà non fu così. Il taoismo fu una reazione all'applicazione dogmatica del confucianesimo e, probabilmente, al dogmatismo che era già presente nello stesso Confucio. Sia il confucianesimo che il taoismo, prolungando la teoria oltre le reali possibilità della pratica di fronte al mutamento delle situazioni concrete, rappresentarono un impoverimento rispetto al tessuto di una saggezza più antica, quella risultante dal mondo della divinazione con un "valore morale". Questo sarebbe il vero pozzo a cui attingere acqua fresca ma, un occidentale cresciuto a biscottini al plasmon ed epistemologie sperimentali e positiviste potrebbe non arrivarci mai, mancando di quella profondità di sguardo rabdomantica che occorrebbe avere quando si entra in una simile dimensione del pensiero e dell'azione.
Faccio un esempio concreto: nel Classico dei Mutamenti è scritto in una sentenza che il Seguire una dottrina - sia quella di Confucio sia quella di Lao zi, non ha importanza - porta ad una situazione nella quale perseveranza reca sciagura. Come a dire che ne l'una ne l'altra sono infallibili se applicate in circostanze sbagliate. Il vero saggio le abbraccia e comprende entrambe, probabilmente sceglierà in linea di principio quella confuciana con qualche rettifica indispensabile al ritualismo ed al culto del principio dell'amore filiale, ma non potrà esimersi dal considerare la soluzione del non-agire predicato da Lao zi e dai suoi seguaci in circostanze nelle quali è meglio non agire, allontanarsi dalla cultura libresca e dallo "sfarzo dei ladroni", per recuperare una dignità umana originaria. Non si tratta allora di attuare una compenetrazione degli opposti sul piano concettuale, di arrivare ad una sintesi in cui qualcosa viene tolto e qualcos'altro lasciato ma, di adattarsi al momento rimanendo nella "via".
Una citazione di Mencio (390-303 a.C), confuciano, può aiutare a comprendere quanto degli insegnamenti di Lao zi sia stato semplicemente accolto nel dao confuciano:

«Solo coloro che hanno un buon livello di istruzione possono avere un cuore costante pur mancando di costanti mezzi di sussistenza. La gente comune, se privata di mezzi, non ha un cuore costante. Senza un cuore costante si travierà e si abbandonerà a comportamenti smodati e a ogni sorta di eccessi, e non vi sarà modo di porle dei limiti. Perseguitarla e punirla dopo averla indotta a commettere dei reati significa crearle una trappola. Come può esserci nella posizione di governo una persona virtuosa e attenta alle esigenze del prossimo che crei una simile trappola al suo popolo? Per questo motivo il sovrano illuminato, nel dosare i mezzi di sussistenza del popolo, deve assicurarsi che siano sufficienti da una parte a servire i genitori e dall'altra a mantenere mogli e figli cosicché nelle annate migliori tutti abbiano da mangiare in gran quantità, e nelle annate di carestia evitino di morire di inedia. Solo allora sarà possibile indirizzare tutti verso la bontà., e conseguentemente, l'intero popolo seguirà facilmente il proprio sovrano. Al giorno d'oggi, invece, i mezzi di sostentamento non bastano né a servire i genitori, né a mantenere mogli e figli. Nelle annate migliori la vita è comunque dura, in quelle di carestia non c'è modo di scampare alla morte. In queste condizioni il popolo cerca solo di scampare alla morte, terrorizzato di non avere quanto basta per riuscirci. Come potrebbe trovare il tempo necessario per dare il dovuto peso ai riti, alle convenzioni sociali, ed al mantenimento di un comportamento retto?» (dal Mengzi 1 A 7) [anche in La Cina vol. I* a cura di Maurizio Scarpari - Einaudi 2011)
Non dovrebbe interessare soverchiamente se l'autore di questo passo sia stato un eremita taoista rifugiato tra le nuvole delle alte vette, od ancora un "mandarino" della corte, accomodato sulla poltrona di qualche privilegio. Era della seconda specie ma, sicuramente, date le circostanze in cui viveva, fu molto tentato dal rifugiarsi tra i monti, lontano dal trambusto e dai comportamenti smodati. Ebbe il coraggio di denunciarli, scrivendolo apertamente. Per chi? Per pochi altri letterati, per i suoi figli, per i figli dei suoi figli, fino ad arrivare all'ultimo degli occidentali disorientato dal nichilismo della vita attuale.
Mencio aveva una sua visione dell'umanità molto particolare: credeva che gli esseri umani fossero "buoni" di natura, anticipando di gran lunga Rousseau. E come Rousseau, credette - e lo si capisce dalla citazione - che le cause del disordine andassero cercate nella corruzione sociale, dalla quale derivano le cattive abitudini che portano gli esseri umani a comportamenti degenerati. Il saggio cinese arriva ed apprezzare anche questo punto di vista, potremmo dire ad ammetterlo come ipotesi corroborata da tutti gli esseri "buoni"che incontra, in quanto isole nel contesto sociale ma, non può farne un dogma. Sarebbe uscire dalla via, la quale nel suo procedere incontra uomini molto cattivi, anche se lontani dalla società e dal motore della grande corruzione. All'opposto di Mencio si collocarono i "legisti", i quali credettero che gli esseri umani fossero essenzialmente malvagi, ed andassero terrorizzati con il rigore delle leggi. Anche questo è un dogma, forse il modo migliore per uscire dalla via e perdere l'umanità.

La difficoltà principale per entrare nella dimensione apparentemente surreale della via sta ovviamente nella lingua e nella scrittura. Le lingue dell'occidente sono alfabetiche, derivano dal fenicio e dal greco. Si basano sulla trascrizione di suoni consonanti che, disponendo sillabe in successione, formano parole aventi un significato convenuto. Il cinese è una lingua di caratteri in cui il significato è nel significante in modo diretto e visivo, come si può evincere dalla parola "dao" riportata a fianco. Essa non è un geroglifico, e nemmeno un'immagine simbolica come nel caso della sfera in bianco e nero dello yin e dello yang, ovvero qualcosa che già rappresenta una concessione, un ausilio alla meditazione sul divenire cosmico, fatta apposta per chi necessita di immagini e mandala su cui meditare. Immagini statiche, anche se chi le escogita vorrebbe renderle dinamiche. Ma il ricorso al simbolo è già qualcosa che allontana dalla comprensione dinamica. In definitiva, è qualcosa che crea divisione anziché unione. Una qualsiasi bandiera, nel momento in cui unisce, divide da tutto ciò che in essa non si identifica. E' la parola che realizza l'unione, a patto che sia chiara. Probabilmente, lo è anche il gesto che la accompagna rendendola "parola viva". Ma, non potendo disporre di una telecamera in grado di viaggiare a ritroso nel tempo e filmare la gestualità del saggio dell'antichità, dobbiamo accontentarci della parola e della sua traducibilità.

Usare la lingua parlata e soprattutto quella scritta in questo modo rimanda a differenze che potrebbero apparire irriducibili e il più delle volte "intraducibili". La parola "dao", generalmente reso con "via" significa, non per semplice estensione, anche "metodo", "logos" in senso eracliteo, "circuito politico, amministrativo, economico, ecologico, culturale, etico regionale". Nella tradizione confuciana esisteva un "dao" della buona amministrazione del circuito, uno della musica, uno dell'educazione, uno dei riti e così via. Il dao è percorrere la via con prudenza, giudizio, consapevolezza della propria ignoranza e della propria fragilità. Nonché della propria tendenza a sbagliare. Si può sbagliare eccedendo in dottrina, si può sbagliare mancando di dottrina e discernimento, si possono commettere errori di distrazione. Si può persino decidere di agire disonestamente per denunciare disonestà ben più gravi. Il dao non è un kit di istruzioni da seguire punto per punto per diventare santi secondo il modello elaborato dagli stilisti, ma una sola istruzione portata dal vento: rimani un essere umano, impara l'autocontrollo. Se vuoi salire, devi imparare a scendere. Se vuoi ingrandirti, devi farti piccolo.

E' mia convinzione che il cuore pulsante della saggezza cinese sia anonimo, frutto di un'antichissima elaborazione collegiale e si trovi nel Libro dei mutamenti. Strada facendo tenterò di dare qualche istruzione su come usarlo ma, il mio consiglio è di non usarlo immediatamente per la "divinazione", se non in caso di particolari urgenze. Prima bisogna provare a capirlo, forse impararlo a memoria. Res severa, verum gaudium. Per quanto l'edizione Adelphi, mi sembra, sia in grado di superare molte problematiche dovute alla traducibilità dei caratteri cinesi, esistono ancora numerose zone d'ombra alle quali non sarò certo io a porre rimedio. Non conosco il cinese, e non mi passa neanche per l'anticamera del cervello di mettermi a studiarlo (a meno che qualcuno non mi finanzi una borsa di studio per un soggiorno in Cina di almeno sette anni). Qui mi preme porre in rilievo un aspetto fondamentale. Il libro è composto di sentenze ed immagini. Le immagini non sono rese con immagini ma con parole! Descrizioni poetiche, non arte figurativa.
Il senso di tutto ciò è l'unica fede veramente incrollabile: la fede nella parola e nella trasmissione della parola. Dovendo portare un esempio, una testimonianza a quanto intendo significare, mi avvalgo di uno scampolo di letteratura "sovietica", in tempi di oscurantismo ideologico imputabile allo Stalin-pensiero.

«Verso la fine di gennaio, al primo soffio del disgelo, i ciliegi profumano nei giardini. A mezzogiorno, negli angoli quieti, quando il sole è caldo, si leva l'odore amaro, appena percettibile, della scorza di ciliegio, insieme all'acre umidità della neve disciolta e all'odore possente ed antico della terra, che già affiora sotto la neve e le foglie morte.
Il profumo sottile, fatto di mille essenze, fluttua nei giardini finché discendono le azzurre ombre crepuscolari, finché tra i rami nudi scivola la verde falce della luna e le lepri, nei loro giochi notturni, non scavano nella neve orme vellutate. Poi, dalla steppa il vento porta nei giardini l'amaro profumo dell'assenzio bruciato dal gelo e gli odori e i suoni del giorno si disperdono. A passi di lupo, sui cardi, sulle erbe selvatiche, sulle zolle ondulate dei campi, giunge silenziosa dall'oriente la notte, lasciando dietro di sé, nella steppa, brandelli d'ombre crepuscolari.
In una sera di gennaio del 1930, un cavaliere giunse al villaggio di Gremiaci Log dalla strada della steppa. ... »

E' l'incipit di Terre dissodate di Michail Sciolokov. Un buon regista cinematografico potrebbe tradurlo in immagini dinamiche meravigliose, ma non potrebbe rendere né il freddo reale che entra nelle narici di cavallo e cavaliere, né il profumo sottile che fluttua nei giardini, nè l'odore possente ed antico della terra. Letame e muschio, merda di cavallo e l'amaro profumo dell'assenzio bruciato dal gelo. Neanche il cinema possiede il potere della parola, a meno che una voce fuori campo si incarichi di supplire alla deficienza del cinema.
Ecco il primo punto da afferrare quando ci si accosta ad un testo cinese: prima la parola. Il senso è nel carattere grafico e questo sembra non avere alcun senso ma, ce l'ha.


gm - 13 dicembre 2011

Confucio

Liezi

Mozi