Socrate
Guido Marenco
Socrate nacque ad Atene nel 469 a.C.
Il padre
era scultore e la madre levatrice.
Fu dunque
di modeste origini, a differenza dei
filosofi
precedenti e dello stesso Platone,
che in
genere erano rampolli di famiglie aristocratiche.
In gioventù fu allievo di Archelao,
discepolo
di Anassagora, ed apprese la filosofia
della
natura da questi insegnata. Ben presto,
tuttavia,
cominciò ad interessarsi di temi etici
e
politici, disinteressandosi così dello
studio
della natura. Partecipò a diverse campagne
militari durante la guerra del Peloponneso.
Durante la campagna per Potidea fu
visto
restare immobile in piedi per 24 ore,
immerso
nei suoi pensieri. Partecipò anche
alla spedizione
di Anfipoli e Delio (424 a.C.), durante
la
quale salvò la vita a Senofonte e si
battè
con coraggio contro i Beoti, riportando
un
encomio per il valore dimostrato. Si
dice
che fu amico di personaggi molto noti,
tra
i quali Euripide, il sofista Crizia,
l'etera
Aspasia (legata a Pericle), Crizia
e Alcibiade.
Con quest'ultimo, come è testimoniato
indirettamente
dal Simposio di Platone, si sviluppò probabilmente un
rapporto omosessuale, cosa non insolita
ad
Atene. La sua partecipazione alla vita
politica
non lo portò comunque ad aderire ad
un partito
e rimase sempre indipendente sia dai
democratici
che dagli oligarchici, nonostante l'amicizia
con Alcibiade e Crizia. Ricoprì incarichi
pubblici, che a quei tempi, ad Atene,erano
sorteggiati, e fu "pritano"
(giudice).
In queste veste rifiutò di votare la
condanna
a morte degli strateghi che avevano
abbandonato
i caduti nella battaglia navale delle
Arginuse
(406 a.C.) durante il governo dei democratici;
in seguito non obbedì all'ordine impartitogli
dal governo dei Trenta tiranni di arrestare
Leonte di Salamina. In pratica fu dunque
l'inventore dell'obiezione di coscienza
e
di una forma passiva di ribellione
ai soprusi
politici, o ritenuti tali. Cominciò
ben presto
a dibattere di problemi etici e politici
nella piazza principale di Atene, l'agorà,
ascoltato e seguito da molti discepoli.
Tuttavia,
a differenza dei maestri sofisti, non
si
faceva pagare per le lezioni. Guadagnò
una
certa fama e persino il re di Macedonia
Archelao
lo invitò alla sua corte. Ma egli,
a differenza
di Platone che andò a Siracusa per
convertire
Dioniso alla filosofia, e di Aristotele,
che accettò di ammaestrare Alessandro
Magno
su incarico di suo padre Filippo di
Macedonia,
rifiutò sdegnosamente l'ospitalità
ed il
denaro offerti. Tutti questi atteggiamenti
anti-convenzionali lo resero inviso
al partito
democratico che, quando tornò al potere,
cominciò a perseguitarlo. Il politico
Anito,
il poeta Meleto e il retore Licone
fecero
una pubblica denuncia contro Socrate
accusandolo
di corrompere la gioventù, non onorare
gli
dei e aver introdottto nuovi culti
e nuove
divinità. Durante il processo rifiutò
ancora
di leggere una difesa scritta preparata
dal
retore Lisia, e preferì difendersi
da solo,
pronunciando l'Apologia, (riportata
da Platone
nell'opera Apologia di Socrate). I giudici popolari lo ritennero colpevole
con una maggioranza di pochi voti.
Allora
Socrate chiese sprezzamente di essere
punito
con il mantenimento a spese della città.
Di fronte a questa ulteriore dimostrazione
di orgoglio il tribunale lo condannò
a morte.
Mentre era costudito in attesa dell'esecuzione
il discepolo Critone corruppe i guardiani
e gli offrì quindi la possibilità di
fuggire,
ma Socrate rifiutò per non violare
le leggi
della città. Bevve così la cicuta nel
carcere
di Atene e morì. Era il 399 a.C. e
Socrate
aveva settant'anni.
Socrate non scrisse alcunchè. Pertanto
dobbiamo
fidarci delle testimonianze di altri
per
conoscere il suo pensiero. Il commediografo
Aristofane lo satireggiò nella commedia
Le nuvole, rappresentandolo come un sofista. Lo storico
Senofonte nei Memorabili riprodusse alcuni dialoghi tra Socrate ed
altri personaggi. Ne viene un ritratto di
Socrate come uomo morale e razionale, inquieto
ricercatore di virtù etiche. Discuteva solo
delle cose umane, tentando di mostrare in
che cosa sarebbero consistite la pietà e
l'empietà, l'onesto e il turpe, il giusto
e l'ingiusto; la temperanza, la follia, il
coraggio, la polis, la politica e il governo
degli uomini. (Senofonte, Memorabili, libro I). Tuttavia la fonte più ampia intorno
a Socrate è costituita dai dialoghi scritti
da Platone. Questi mise sempre Socrate nei
panni del protagonista delle sue opere, facendogli
dire anche cose che lo stesso Socrate, probabilmente,
non aveva mai detto e nemmeno pensato. Tra
i non contemporanei di Socrate fu Aristotele
il primo a porsi il problema di cosa avesse
detto realmente Socrate e di quali fossero
le differenze fra il suo pensiero e la filosofia
di Platone. Secondo Aristotele, autore di
una precisa indagine su questo problema,
Socrate non elaborò mai una dottrina delle
idee, che pertanto sarebbe da ricondurre
totalmente alla autonoma elaborazione di
Platone. Inoltre, sempre Aristotele, sottolineò
che Socrate si occupò esclusivamente di problemi
etici e morali, cioè, fondamentalmente, del
problema di cosa rende davvero felici, quindi
di cosa è bene per l'uomo. La prova più convincente
in questo senso è che nei dialoghi platonici
giovanili manca un preciso riferimento alla
dottrina delle idee, come a pure a temi che
non siano squisitamente etici, e quindi è
solo da questi che si possono ricavare precise
indicazioni sul vero pensiero socratico.
In sostanza gli storici della filosofia,
per ricostruire il pensiero di Socrate, dovrebbero
credere alle affermazioni di Aristotele.
Nel dialogo platonico Alcibiade I Socrate, conversando con lo stesso Alcibiade,
gli fa notare che per essere un buon
politico,
cioè per fare il bene della città,
occorre
essere innanzitutto un uomo di valore,
cioè
fare il bene di se stessi, rendersi
migliori,
avere per fine la propria realizzazione
in
quanto uomo. Per rendere migliori se
stessi,
dice Socrate, bisogna conoscere se
stessi,
come recita l'iscrizione posta sul
tempio
di Delfi. Pertanto bisogna conoscere
in primo
luogo la propria anima, cioè il principio
stesso della vita. Il senso del pensiero
di Socrate è chiaro. Averi, onori e
potere,
in una parola: la ricchezza esteriore,
non
sono la felicità. Il bene dell'anima,
da
intendersi come vita e come psiche
inserita
in un corpo vivente, è dunque virtù.
A questo
proposito, tuttavia, una precisazione
si
rende necessaria in quanto l'originale
senso
greco del termine virtù non corrisponde
che
in poco al senso etico-morale-religioso
col
quale questo termine si accompagna
in genere
nel nostro linguaggio. Abituati come
siamo
a considerare virtù fede, speranza,
carità,
dimentichiamo che il concetto greco
di virtù,
aretè, era ben altro. Virtù (aretè)
significa
"capacità", "valore",
"eccellenza", quindi sviluppo
e
realizzazione di facoltà umane. Per
Socrate,
dunque, il bene della psiche è la virtù
tanto
quanto il bene del corpo è la salute.
In
altre parole: il bene dell'uomo è la
salute
fisica e psichica. In altri dialoghi,
come
per esempio il Protagora, Socrate afferma che non bisogna gettare
via la propria vita, che "bisogna
salvarla"
per impiegarla nella realizzazione
di sè.
Nel Gorgia egli insiste sulla necessità di prendersi
cura di se stessi. Infatti, come il
corpo,
anche la psiche ha una salute e una
malattia.
La salute della psiche è l'aretè, cioè
il
conseguimento dell'eccellenza, in particolare
della giustizia; mentre il suo contrario,
cioè la malattia della psiche, la malattia
psichica in senso moderno, la nevrosi
o persino
la psicosi, è causa del peggiore dei
vizi,
cioè l'ingiustizia. In questo dialogo
Socrate
conclude che è meglio subire un'ingiustizia
invece che commetterla. Infatti chi
commette
ingiustizie rovina la propria anima
e perde
se stesso. Se il vizio di commettere
ingiustizie
è dunque il peggiore dei mali non ci
sarebbe
dunque contrasto, per Socrate, tra
conseguimento
dell'utile e conseguimento del bene,
nel
senso che il vero utile è per Socrate
la
pace della psiche, dunque, in termini
moderni
e correnti, il non avere pesi sulla
coscienza.
Secondo Socrate ogni virtù corrisponde ad
un sapere, ad una certezza priva di
ombre
e di dubbi. E' scienza. Non è possibile
realizzare
l'aretè se non si sa in cosa consiste.
Non
si può realizzare il coraggio se non
si sa
cosa sia, nè essere gusti se non si
conosce
la giustizia. In pratica tutte le virtù
si
riducono ad una: il conseguimento del
vero
sapere, cioè la conoscenza di cosa
è bene
per l'uomo. Questo tipo di sapere non
solo
è necessario, ma perfino sufficiente
a produrre
retti comportamenti. Perciò il vizio
è anche
originato dall'ignoranza. La conseguenza
di questa impostazione è che l'uomo
non fa
il male, non commette ingiustizie volontariamente,
ma per ignoranza di cosa è bene per
lui.
Chi agisce per un fine malvagio è dunque
insensato, non sa incontro a quali
disgrazie
sta andando. Si tratta, come si vede,
di
una posizione estrema, super-razionalistica,
che pur avendo un fondo di verità perchè
in molti casi è davvero così, non tiene
conto
a sufficienza del fatto che, pur conoscendo
che cosa è male per sè, e per gli altri,
vi sono (e vi erano ai tempi di Socrate)
individui che comunque agiscono in
preda
all'incontinenza, o anche ad un bisogno
insopprimibile,
di natura. Essi sanno bene che è male
ciò
che stanno facendo, ma sperano di farla
franca.
Nessun ladro va a rubare con la certezza
di finire in prigione, e nessun assassino
uccide con la certezza di finire col
cappio
al collo. Ciò non li giustifica; tuttalpiù
spiega perchè succedono certe cose,
e dimostra
che il male non è solo degli ignoranti
ma
anche di quelli che sanno. La stessa
fine
di Socrate testimonia che vi sono periodi
in cui l'ingustizia e la malvagità
trionfano,
quanto meno esteriormente. Per capire
questa
lezione della vita Socrate dovette
infine
sperimentarla sulla prorpia pelle.
Al fondo della concezione etica di
Socrate
è quindi già presente la convinzione
secondo
la quale tutti gli uomini possano agire
razionalmente
se posti in condizioni di farlo, cioè
se
educati. La condizione fondamentale
perchè
questo avvenga sta tuttavia nella trasmissione
non tanto del sapere, ma del modo in
cui
si perviene al sapere, cioè facendo
domande
ed ottenendo in risposta una definizione
esaustiva. Ciò evidenzia che in Socrate
vi
è già il seme di una teorizzazione
della
scuola attiva. La domanda, come è ovvio,
consiste nel chiedere per avere una
definizione
esaustiva: "che cosa è questo?"
Ad esempio: "Che cosa è la giustizia?"
Socrate ritiene sia possibile, dunque,
pervenire
ad una conoscenza della giustizia,
non attraverso
casi particolari, esempi di giustizia,
ma
proprio sapendo che cosa è. Perchè
è solo
sapendo che "cosa è", secondo
Socrate,
noi possiamo comportarci giustamente.
Questo
"che cosa" deve essere infatti
identico in ogni uomo giusto e in ogni
azione
giusta. Questo carattere, o tratto
distintivo,
rinvenibile in ogni individuo considerato
giusto o in ogni azione valutata come
giusta,
è in sostanza un'idea, un concetto,
un tratto
universale. E' proprio in questo tipo
di
domanda, quindi che germina, per così
dire,
la successiva teoria platonica delle
idee.
Ma è in Socrate che l'idea di "idea"
come forma suprema di conoscenza comincia
a farsi strada. Senza "idee",
cioè
rappresentazioni e definizioni esaustive
di "cose" che non sono cose,
ma
qualità, attributi, valutazioni di
comportamenti
umani, dunque elementi immateriali
dovuti
a giudizi, vere e proprie astrazioni,
non
vi può essere vera conoscenza; questa
non
può essere trasmessa; quindi non vi
può essere
vera educazione o formazione. Quasi
tutti
i dialoghi giovanili di Platone contengono
questa ricerca. Nel Carmide si chiede cosa sia la temperanza, nel Lachete si vuole sapere cos'è il coraggio, nel Liside si vuole definire l'amicizia, nell'Ippia Maggiore si prova a definire la bellezza, nell'Eutifrone la domanda verte sulla santità e, sopratutto,
nel primo libro della Repubblica, la domanda verte sulla definizione di giustizia.
In questi testi appare chiaro che se
l'interesse
di Socrate ha per oggetto la moralità,
l'approccio
è però teorico e conoscitivo, cioè
volto
a conseguire una teoria, un principio
di
scienza delle qualità morali. Siamo
cioè
di fronte, nella ricerca, ad un procedimento
induttivo, per il quale risalendo dall'esame
di molti casi particolari di uomini
e comportamenti,
si rinvengono quei tratti comuni che
consentono
di dire che in generale vi è sempre
presente
questa caratteristica, e questa, dunque,
in quanto tale, è la universalità cercata,
per esempio il carattere dell'amicizia,
o
del coraggio, o della giustizia. Ciò
che
tuttavia viene in evidenza è che nei
primi
dialoghi platonici la ricerca non ha
una
conclusione positiva. Negato che la
giustizia
o la santità siano un caso particolare
e
concreto di giustizia o di santità,
perchè
è a causa di un uomo giusto o di un
governo
giusto o di leggi giuste che si può
parlare
di giustizia, rimaniamo con il desiderio
di sapere, ma la conoscenza della risposta
non la possediamo. Ora la critica filosofica
inclina con il dire che Socrate arrivò
fin
qui, e che questo era appunto il suo
metodo,
nient'altro che una tattica per incrinare
il falso sapere, la sapienza superficiale
e libresca degli eruditi, smascherando
così
l'inconsistenza dei sofisti e dei retori,
lasciando, infine, agli interlocutori
il
compito di arrivare alle conclusioni.
Sarà
dunque Platone a decidere, a dare un'intonazione
positiva e costruttiva a questo metodo,
cioè
cominciando a dare delle risposte.
La condizione perchè il metodo socratico
possa concretizzarsi è una situazione di
dialogo nel quale i partecipanti siano disposti
ad esaminare insieme un dato problema, sia
a farsi esaminare dallo stesso Socrate. Si
tratta già, come si vede, di una situazione ideale, che non sempre può verificarsi nella vita,
dato che gli individui concreti disposti
a dialogare non si incontrano tutti i giorni
nemmeno nelle aule scolastiche. Inoltre,
gli osservatori più acuti si son resi conto
che per condurre sapientemente un dialogo
socratico occorrerebbero individui in possesso
delle stesse qualità del maestro, a fronte
di una realtà umana che produce tipi socratici
ogni morte di papa, se non più raramente.
Nè Platone, né Aristotele riusciranno a ripeterlo
pari pari e, probabilmente, non ne avevano
nemmeno una gran voglia. Entrambi si dedicheranno
prevalentemente alla scrittura, potenziando
a dismisura il carattere logocentrico della filosofia antica.
Se la dialettica è dunque, prima ancora che
un metodo, una condizione, il vero metodo
consiste in un approccio ironico, cioè in
una candida confessione di ignoranza da parte
di Socrate, il quale dice di "saper
solo di non sapere". Dicendosi sapiente
della propria ignoranza egli smaschera, per
così dire, la presunzione altrui, la presunta
sapienza che gonfia i petti e rende arroganti.
Ma, nessuno dovrebbe essere così ingenuo
dal credere che la dichiarazione di ignoranza
corrispondesse al vero. Socrate fu maestro
nel pilotare le discussioni, guidando i partecipanti alla
scoperta del suo sapere, che egli considerava più vero di
quello degli altri, compresi i poeti e i
naturalisti. Ovviamente, non si dovrebbe
cadere nell'errore opposto: ovvero escludere
che Socrate non abbia mai tratto giovamento
dal sapere e dalle argomentazioni altrui,
imbalsamandosi nella propria autosufficienza.
In realtà, la confutazione socratica non
è diretta solo contro la presunzione intellettuale
dei retori e dei dotti, ma anche contro l'ignoranza
vera e propria, l'ignoranza che l'uomo ha
di se stesso e delle cose che hanno realmente
un valore nella vita. Pertanto non si limita
solo a far crollare certezze intellettuali
infondate e luoghi comuni, ma anche valori
morali, o per meglio dire, immorali. Dice
di Socrate, ad esempio, un personaggio, Nicia,
nel dialogo Lachete: «Non mi sembra che tu sappia che
chi si trovi a ragionar con Socrate,
come
capita, ed entri in conversazione con
lui,
qualsiasi sia il soggetto della discussione,
è trascinato torno torno ed è forzato
a continuare
finchè non casca a render conto di
sè, del
modo in cui ha trascorso la sua vita;
e una
volta che c'è cascato, Socrate non
lo lascia
prima di averlo passato al vaglio ben
bene
e in ogni parte.» (Platone, Lachete). Se il primo passo è distruttivo il secondo
è rigenerativo. Infatti Sorate afferma di
se stesso di essere come sua madre, che era
una levatrice. Non faceva figli, ma aiutava
le donne a partorire. Così ecco il procedimento maieutico, ovvero l'arte di aiutare gli altri a far
nascere le giuste idee intorno a se stessi
ed il mondo. Idee che sarebbero già nell'inconscio,
rimosse dalla dimenticanza che l'anima caduta
dal cielo in un corpo terreno aveva in origine.
Nel Teeteto, altro dialogo platonico, ecco come Socrate
presenta il proprio metodo: «Vedi
di
intendere bene cos'è questo mestiere
della
levatrice e capirari più facilmente
cosa
voglio dire..Ora, la mia arte di ostetrico,
in tutto il rimanente assomiglia a
quella
delle levatrici, ma ne differisce in
questo,
che opera sugli uomini e non sulle
donne,
e provvede alle anime partorienti e
non ai
corpi. E la più grande capacità sua
è che
io riesco, per essa, a discernere sicuramente
se la psiche del giovane partorisce
fantasma
e menzogna oppure cosa reale e vitale.
Poichè
questo ho in comune con le levatrici,
che
anch'io sono sterile di.....sapienza;
ed
il biasimo che già altri mi hanno fatto,
che interrogo si gli altri, ma non
manifesto
mai io stesso il mio pensiero su alcuna
questione,
ignorante come sono, è verissimo biasimo.
E la ragione è appunto questa, che
il dio
mi costringe a fare da ostetrico, ma
mi vietò
di generare.» (Platone, Teeteto, 149, 150). In conclusione potremmo dire,
dunque, che Socrate diede un contributo
fondamentale
allo sviluppo della filosofia, inseguendo
il miraggio di rendere gli uomini buoni
e
giusti, non in base a primitive dottrine
comportamentiste, ovvero l'acquisizione di abitudini buone
e giuste per timore della punizione,
o per
godere di qualche premio, ma solo per
il
sommo piacere di fare il bene e la
giustizia
in sé.
Su queste basi si è sviluppato il grandioso
progetto pedagogico dell'Occidente,
in una
chiave spesso dualisitica e un regime
di
doppia verità: il comportamentismo
premio-punizione
per tutti, la ricerca razionale del
bene
e della giustizia per i filosofi.
gm - rivisto il 10 giugno 2012 |
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