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Il sito di Carlo Flamigni, caldamente consigliato

Dalla nucleina al proteoma: una storia di geni
Come si arrivò alla scoperta del DNA
di Federica De Martino

Tutti gli organismi viventi sono composti di cellule. Vi sono differenti tipi di organismi, per esempio vegetali ed animali, nonché batteri unicellulari e privi di un nucleo. Le diversità tra gli uni e gli altri sono enormi, ma se li esaminiamo con potenti microscopi possiamo notare che, man mano si scende nel sempre più piccolo, si possono rilevare impressionanti analogie. Alla fine del percorso potremmo scoprire che i materiali che costituiscono il vivente sono sorprendentemente gli stessi, il che non significa semplici. In realtà, infatti, si tratta di materiali molto complessi, risultato di singolari combinazioni degli elementi chimici più semplici esistenti in natura: gli atomi. Il secondo fatto che potremmo evidenziare è che un organismo vivente è perennemente in attività. In ognuno di essi avvengono simultaneamente attività di diverso genere ed a vari livelli di gerarchia. Alla base di tutte queste singole attività vi sono un numero indefinibile di reazioni chimiche che consumano energia proveniente dall'esterno,la assorbono, la metabolizzano, e poi la rigenerano, producendo le proteine che costituiscono il corpo fisico.

E qui dobbiamo dare per scontato che si sappia cosa sia un elemento chimico, cosa sia una reazione e come si formano i diversi legami che danno vita ad una molecola. Perché l'aiutino sia più completo, ho pensato di fornire alcune schede che si trovano clikkando sui link qui a fianco, nozioni rudimentali di chimica, biochimica ed anche santissima biologia, indispensabile a comprendere quello si trova d'ora in poi. Del resto, molte risorse si trovano in rete.

I cromosomi
In principio erano i cromosomi. La prima apparenza che incontrò l'ingrandimento microscopico attuato dai biologi nell'Ottocento sul nucleo di una cellula è questo corpuscolo a forma di bastoncello che si evidenzia durante la divisione cellulare. Ma attenzione, a questo livello di analisi, siamo fortunati, cioè siamo capitati in un momento in cui sta succedendo qualcosa di visibile, infatti, quello che stiamo osservando è una manifestazione non sempre visibile. Supponiamo allora di non avere alcuna forma di sapere preesistente, e di non essere guidati da alcuna teoria. Ciò che osserviamo è che, se il nucleo non è coinvolto in una fase di divisione mitotica, si presenta come un reticolo di una sostanza strana, la cromatina. Sostanza che venne chiamata nucleina da Miescher, il suo scopritore. Solo immediatamente prima della divisione cellulare, la cromatina si accorcia e si "svolge" in filamenti continui e allungati: i cromosomi.
In ogni cromosoma è collocata una doppia elica di DNA. Ma questo verremo a saperlo solo in seguito. Continuando ad ignorare, immaginiamo di essere in grado di osservare non solo un tipo di cellula, ma tutti i tipi di molte specie diverse. E' un lavoro lunghissimo, ed infatti fu compiuto da molti ricercatori e non da uno solo. Il risultato fu che il numero dei cromosomi nelle cellule somatiche di ogni organismo variava da specie a specie, ma molto raramente variava all'interno della specie.
Ad un certo punto della storia, i ricercatori supposero che i fattori ereditari studiati da Mendel fossero localizzati nei cromosomi. Ipotesi che Mendel non era in grado di avanzare. Gli studi di Mendel erano stati dimenticati per circa 40 anni. Diversi furono i protagonisti di questa resurrezione mendeliana. La storia è talmente complessa che qui si può solo menzionare. Ma su Mendel c'è una scheda disponibile clikkando su fattori ereditari.

Ad approfittare della resurrezione di Mendel fu soprattutto T. H. Morgan, il quale mosse da una posizione di scetticismo nei confronti della teoria cromosomica, ma anziché rifiutarla, volle saggiarla per via sperimentale.
Prendendo di mira un organismo particolare, la Drosophila melanogaster, il moscerino della frutta, Morgan, ed il suo gruppo, scoprirono che in certi incroci pilotati della Drosophila, i risultati erano condizionati dal sesso. Era un fattore aggiuntivo molto importante agli studi di Mendel. Tuttavia, alcune mutazioni non risultavano collegate al sesso.
Per comprendere questo punto, oltre che ricorrere alla teoria di Mendel, dobbiamo ricordare tutto ciò che nella conoscenza biologica ha diretta attinenza con quanto stiamo osservando. I cromosomi non sono tutti eguali. Alcuni, detti autosomi, sono identici. Altri sono diversi. Ai tempi di Morgan già si sapeva che le femmine di Drosophila hanno due cromosomi X e sono a sesso omogametico: tutte le uova contengono un solo cromosoma X. Al contrario, i maschi di Drosophila hanno un cromosoma X e un cromosoma Y: sono a sesso eterogametico. Metà degli spermatozoi contiene un cromosoma X e l'altra metà un cromosoma Y. La fecondazione di un uovo da parte di uno spermatozoo può sempre determinare la formazione di un individuo maschio. Questa regola vale per tutti i mammiferi placentati, ma non vale in generale. E' questo il bello della biologia! - ci sono delle eccezioni non trascurabili: avessimo iniziato la nostra indagine dalle femmine degli uccelli, avremmo scoperto che le papere e le rondini, possiedono anche il cromosoma Y e sono perciò eterogametiche a tutti gli effetti, mentre il maschio è omogametico e non porta solo Y, ma porta solo X! Per evitare complicazioni, o per incrementarle, i genetisti hanno preferito cambiar nome ai cromosomi degli uccelli. Ora si parla di W e Z, ma la sostanza non cambia.
In pratica, Morgan trovò un moscerino con gli occhi bianchi e lo incrociò con "moscerine" normali. Nella prima generazione tutti figli avevano occhi normali di colore rosso. Ciò confermava gli esperimenti di Mendel. Questi aveva già visto che nella prima generazione un carattere ereditario, definito "recessivo", può non comparire. Esso però si ripresenta inevitabilmente nella seconda generazione a condizione che si incrocino tra loro "fratelli e sorelle" della prima generazione. Il termine "recessivo" significa "ciò che si ritira". Per Mendel stava a indicare i caratteri rimasti nascosti, ovvero "segregati".
Negli esperimenti di Morgan, tuttavia, si verificò qualcosa di sorprendente: il carattere "occhi bianchi" era ricomparso solo nei maschi. Anzi, solo nel 50% dei maschi. Un'ipotesi che poteva spiegare questo fatto era che il carattere fosse limitato al sesso. Tuttavia, quando Morgan incrociò un maschio "occhi bianchi" con una "zia" della prima generazione, tutte "occhi rossi", ottenne che anche metà delle femmine risultava "occhi bianchi". Così arrivò all'ipotesi giusta: il carattere "occhi rossi" e "occhi bianchi" nelle drosofile è determinato dal cromosoma X.

E' molto importante sapere che le cellule sessuali, sia nei maschi che nelle femmine, si riproducono in modo diverso dalle cellule somatiche.
Tale processo si chiama meiosi.

La meiosi
La meiosi è il particolare tipo di divisione nucleare che comporta due successive divisioni cellulari e interessa i gameti (spermi e uova), che sono cellule aploidi, cioè dotate di un solo corredo di cromosomi. Cercheremo di descrivere in estrema sintesi cosa avviene.

Perché si verifichi un concepimento in seguito ad unione sessuale, occorre l'incontro di due gameti, materno e paterno. L'uovo fecondato sarà una cellula diploide, cioè una cellula contenente un corredo doppio di cromosomi. Il mistero della riproduzione sessuata è tutto qui. La nuova cellula diploide si svilupperà per mitosi fino a dar luogo all'embrione.
I gameti sono prodotti e mantenuti da un "apparato distinto", non vi è mescolanza tra cellule somatiche e le cellule germinali. La continuità e l'integrità delle cellule germinali è protetta dall'"isolamento" dal resto dell'organismo.
Le cellule diploidi deputate alla produzione di cellule germinali, chiamate anche meiociti o gametociti, contengono una coppia di ciascun tipo di cromosomi. Un membro della coppia deriva dal genitore materno, l'altro da quello paterno. Il contributo materno, nei mammiferi, può contenere solo un cromosoma X, quello paterno può contenere,in altrenativa, un cromosoma Y. Se entrambi i cromosomi ereditati sono X, avremo un individuo di sesso femminile. Se,al contrario, verrà ereditato dalla linea paterna, un cromosoma Y, avremo un individuo di sesso maschile.
In profase I, i cromosomi si appaiano in modo stretto fino a formare una tetrade di 4 cromatidi. In questo momento tra cromatidi non fratelli si formano dei chiasmi, che sono il risultato della separazione e della riunione di due cromatidi simili ma non fratelli. L'interruzione della struttura dei cromatidi e la loro riunione avvengono esattamente allo stesso punto. In tal modo nessuna informazione genetica viene persa o duplicata. Questo processo è definito crossing-over, cioè interscambio. Durante il crossing-over, avviene una ricombinazione dei fattori genetici: le due varianti di un cromosoma si combinano in una terza, nuova combinazione.

Durante il resto della prima divisione mitotica, dopo la dissoluzione dell'involucro nucleare, ciascuna coppia di cromosomi si separa ed essi migrano verso i poli opposti della cellula, mentre i cromatidi fratelli rimangono tenuti assieme da un centromero. Prima della seconda divisione mitotica non avviene un'ulteriore duplicazione. Durante questa seconda divisione il centromero si divide e i cromatidi fratelli si separano. Come risultato abbiamo quattro cellule aploidi che contengono un cromosoma di ciascun tipo.
Sarebbe interessante descrivere in dettaglio le varie fasi della meiosi, ma qui diamo per scontato che il concetto fondamentale sia ormai acquisito. In un mondo di organismi viventi sessualmente diversi, occorre che la riproduzione avvenga tramite l'unione di due cellule aploidi: lo spermatozoo maschile e l'uovo femminile.
Questa consapevolezza nasceva già sul finire del secolo scorso per merito del tedesco T. Boveri, ancor prima che nell'americano Sutton. Già nel 1893, Boveri affermava: «Possiamo identificare ogni elemento cromatinico che deriva da un nucleo in riposo con un elemento definito che ha preso parte alla formazione di quel nucleo.» Pertanto, proseguiva Boveri, «in tutte le cellule derivate nel regolare corso di divisione a partire dall'uovo fecondato, una metà dei cromosomi sono di origine strettamente paterna, l'altra metà materna.» (1)
Il semplice studio al livello cellulare e dei cromosomi poteva di per sé estendere di molto le frontiere della conoscenza biologica. E ciò accadde regolarmente. Ma la curiosità e la passione degli scienziati non poteva arrestarsi ai limiti di visibilità di un microscopio. Il problema vero era il seguente: cosa c'è di così importante in un cromosoma? Cosa contiene? Cos'è?

Geni, genetica, genotipo e fenotipo, DNA
La parola "gene" fu coniata da un botanico, Johannsen, all'inizio del '900. Bateson propose di chiamare "genetica" il dominio che studia l'ereditarietà dei caratteri. Cosa intendeva Johannsen per "gene"? Nient'altro che i "fattori ereditari" mendeliani. Tuttavia, egli si era reso conto della necessità di introdurre una distinzione tra "genotipo" e "fenotipo". Con il primo termine intendeva la totalità dei geni presenti in un individuo ed anche la costituzione genetica di un solo carattere. Con fenotipo intendeva descrivere la totalità dell'espressione di un genotipo, quindi le caratteristiche osservabili, morfologiche, strutturali e funzionali, e anche l'espressione di un determinato carattere. Questo perché il fenotipo non è sempre, o non è mai, l'espressione completa di un genotipo ma, la sua espressione possibile in un determinato ambiente. Sono in molti a dare per scontato che l'ambiente non influisca sul genotipo, ma si limiti a condizionare la sua espressione. I dissenzienti esistono ma delle loro obiezioni parleremo più avanti. In ogni caso, l'ortodossia afferma che due piante figlie della stessa pianta possono presentare immediatamente caratteri diversi se collocate in ambienti diversi, se esposte o meno alla luce del sole, esposte a raffiche di vento, o innaffiate regolarmente oppure no, e se tenute a temperature differenti.
E' interessante ricordare che anche Darwin aveva avanzato una teoria genetica con l'ipotesi della pangenesi (2), ma il grande naturalista non aveva aperto bocca sui lavori di Mendel, che forse aveva letto, mostrando però di non averne tenuto conto.
Fu possibile localizzare i geni nei cromosomi perché nelle cellule principalmente studiate, quelle di Drosophila e di altri insetti, i cromosomi sono più grandi e chiaramente visibili al microscopio. Questa caratteristica agevolò il lavoro di osservazione. Finalmente, si scoprì che quando avviene una mutazione, ad esempio un moscerino con gli occhi rossi, di colore diverso dagli occhi bianchi di entrambi i genitori, essa è spesso accompagnata da un cambiamento osservabile in uno di questi cromosomi giganteschi. Fu evidente che ciò stava ad indicare un "riarrangiamento" che venne poi definito ricombinazione.
La localizzazione dei "geni" come "punti" sul cromosoma non portava di per sé a chiarire come fosse fatto un gene.
Finora, infatti, ne abbiamo parlato esclusivamente in termini convenzionali e idealizzati. Occorreva dare una realtà fisica al gene, individuarlo. Solo così si sarebbe dato un vero puntello alla teoria cromosomica. Eppure, essa venne indirettamente, da ricerche che tentavano di stabilire la localizzazione cellulare dell'informazione genetica. Nel 1943, il danese Joachim Hammerling, studiando due specie piuttosto diverse di alghe, ma simili nel carattere fenotipico di avere un'"ombrella" a forma di antenna parabolica, tentò di stabilire il domicilio dell'informazione che controllava la "forma" delle stesse. Effettuò una serie di innesti reciproci, prelevando da una una sezione della parte mediana del gambo per innestarla su quello dell'altra, in modo tale che l'alga rigenerasse una nuova ombrella. Possiamo dirlo, persino rozzamente, Hammerling si chiedeva se la nuova ombrella fosse regolata dal gambo innestato o dalla base originale. I risultati dicevano che l'informazione che controllava la crescita della nuova ombrella stava nella struttura della base e non in quella del gambo innestato. Gli esperimenti di Hammerling dimostrarono così che l'informazione presente nel nucleo era sufficiente ad indurre la rigenerazione dell'alga.
Vi fu anche una prova definitiva. Venne fornita dagli esperimenti di trapianto nucleare effettuati nel 1952 da Thomas King e Robert Briggs.
Essi prelevarono cellule intestinali di girino e trapiantarono il nucleo nell'uovo fecondato di una rana il cui nucleo era stato distrutto. Tale tipo di manipolazioni aveva in genere provocato uno sviluppo anomalo, o la morte degli embrioni. Ma, accadde anche che parecchi di tali esperimenti portarono alla nascita di individui più o meno vitali. E anche questo tipo di esperimenti confermò che la sede delle istruzioni che regolano la formazione di nuovo materiale genetico e vivente si trova nel nucleo cellulare.
Anche questa via portava a concludere che, con pochissime eccezioni, le cellule eucariotiche di un organismo pluricellulare contengono tutte la stessa informazione genetica.
In un'altra serie di esperimenti, un diverso gruppo di ricercatori riuscì a "fondere"una cellula tumorale di ratto con fibroplasto di topo, una cellula deputata a secernere le unità di base della fibra del tessuto connettivo. Essi dimostrarono che "l'ibrido" era in grado di sopravvivere
, di moltiplicarsi e sintetizzare proteine. Il dato sorprendente, non era che questi ibridi cellulari fossero in grado di sintetizzare proteine tipiche del fegato di ratto, ma che fossero anche in grado di produrre proteine tipiche del fegato di topo. Era evidente che il fibroblasto di topo aveva conservato i geni che regolano la sintesi delle proteine speciespecifiche.
Lavorando su cellule del rospo africano Xenopus laevis, nel 1962, John Gurdon ottenne risultati ancora più sorprendenti. Egli notò infatti una perdita progressiva di potenzialità nei nuclei prelevati dalle cellule somatiche. In pratica, le cellule più mature, con funzioni differenziate, non conservavano i caratteri pluripotenziali delle cellule studiate in precedenza. Tali esperimenti hanno in sostanza dimostrato che i geni si esprimono differentemente a seconda dello spazio (cioè l'ambiente interno) in cui si trovano le cellule nelle quali operano, ed anche rispetto al tempo, perché alcuni geni sono attivi all'inizio dello sviluppo mentre altri entrano in gioco successivamente. Tutto ciò ebbe un'estrema importanza nello spingere le indagini in diverse direzioni ma, dobbiamo renderci conto che tra le prime ricerche menzionate e le seconde esiste uno spartiacque. Prima del 1953 e dopo il 1953. Cosa accadde in quell'anno di così cruciale per la biologia?

Il principio trasformante
Un'altra linea di ricerca sperimentale aveva portato ad indagare più direttamente l'esistenza di un principio trasformante che, scendendo dai piani alti della metafisica biologica, si sarebbe poi mostrato come la reale esistenza di un acido in grado di trasformare ceppi batterici da non patogeni a patogeni. Tutto risaliva agli esperimenti di Frederich Griffith, un medico che, a Londra, nel 1928, aveva inoculato nei topi sia batteri vivi non patogeni sia batteri morti patogeni del genere Streptococcus pneumoniae, cioè quelli che provocano polmonite. Alcuni topi presero la polmonite, e questo fatto andava spiegato. In termini tecnici, Griffith aveva selezionato colonie di batteri R e colonie di batteri S. I primi avevano perso la capacità di sintetizzare la capsula del virus e quindi di provocare l'infezione.
Delle forme R e S erano state identificate tre varianti, chiamate con numeri romani I, II, III e distinguibili soltanto sulla base di metodiche immunologiche. I batteri R di tipo II, erano non virulenti. Quelli S di tipo III erano virulenti, ma anche morti.
Nel sangue dei topi morti, al livello del cuore, Griffith era riuscito ad isolare pneumococchi vivi e virulenti a forma S di tipo III. La trasformazione era permanente e veniva ereditata, e successivi esperimenti consentirono di osservare analoghe trasformazioni interessanti pneumococchi di tipo diverso. Se non crediamo ai miracoli, o alla ripetizione degli errori, potremmo uscire sconcertati da una simile esperienza ripetuta più volte. E sconcertato fu Oswald Avery, un ricercatore che non solo aveva creduto nella fissità dei tipi batterici, ma aveva anche cercato di dimostrarla. H. F. Judson scrive: «La scoperta di Griffith fece sorgere dei dubbi sull'effettiva esistenza di specie omogenee distinte nell'ambito dei batteri. Ed aprì inoltre dei gravi problemi pratici per gli epidemiologi e gli immunologi. Sollevò anche un polverone di interpretazioni congettuturali ed illegittime. Fatto ancor più importante, i microbiologi giudicavano la trasformazione batterica un evento assolutamente sconvolgente, al pari di quanto accadeva, negli stessi anni, ai fisici atomici con la trasmutazione degli elementi mediante interazione tra protoni e neutroni.» (3)

Ma dopo breve tempo, alcuni collaboratori di Avery si accorsero che, senza ricorrere all'inoculazione nei topi, i medesimi risultati si potevano conseguire anche in vitro. Coltivando una forma batterica R su una piastra di vetro in presenza di pneumococchi di una forma S uccisi con il calore, riuscirono ad ottenere la medesima trasformazione. E solo qualche mese dopo, James Alloway, dello stesso laboratorio di Avery, lisò batteri della forma S onde liberare il loro contenuto, filtrando poi la coltura attraverso pori così ridotti che le membrane cellulari rimaste integre venivano rimosse. Aggiungendo l'estratto privo di cellule a una coltura della forma R, la trasformazione avvenne nuovamente.

Nell'immediato queste scoperte, che confermavano sicuramente la "natura chimica" del gene, se non la sua natura acidonucleica, non ebbero tuttavia l'effetto dirompente che ci si sarebbe potuto attendere.

Una teoria sbagliata: i tetranucleotidi di Phoebus Levene

Insomma: sotto il profilo storico bisogna capire che molti genetisti e molti biochimici si erano convinti che fossero le proteine ad essere i depositari dell'informazione genica. Di questo, ad esempio, era persuaso Felix Haurowitz, un'autorità riconosciuta nel campo dello studio delle proteine, in particolare dell'emoglobina.
Ciò era dipeso da tre fattori. Siccome le cellule contengono una grande quantità e varietà di proteine, non dovrebbe sorprendere che alcuni genetisti teorizzassero che alcune di esse contenessero i geni. Nella realtà cellulare, il DNA nudo non esiste . Si trova sempre legato e circondato da enzimi e proteine. Inoltre si poteva ancora credere che un "gene" fosse collocato sul DNA ma non fosse fatto solo di DNA.
Il secondo elemento che giocava a favore delle proteine era la credenza che gli acidi nucleici avessero una struttura molto diversa da quelle realmente scoperta. All'incirca nel 1910, Phoebus Levene aveva ipotizzato che il DNA fosse composto di quattro 'mattoni', due purine e due piramidine, in rapporto proporzionale di 1:1:1:1. I dati sperimentali raccolti erano leggermente diversi, ma questi attribuì la discrepanza alla inadeguatezza delle tecniche di analisi. Questa struttura relativamente semplice indusse molti biochimici a rifiutare l'idea che il DNA fosse il depositario del codice d'istruzione genetico.
Il terzo elemento era strettamente legato alle caratteristiche stesse della genetica come disciplina. Prima del 1940, la maggior parte dei genetisti era impegnata nelle ricerche sulla trasmissione dei caratteri e sulle mutazioni. Probabilmente, i successi che si ottenevano in questo campo contribuivano a ridurre l'interesse alla scoperta delle vere origini del materiale genetico.


Ma già nel 1953, quando Watson e Crick pubblicarono il modello della struttura a doppia elica del DNA, la situazione era radicalmente cambiata. Fin dal 1950, Erwin Chargaff aveva dimostrato che le basi del DNA non si trovano in proporzioni uguali, come sostenuto da Levene. Inoltre, la sua composizione variava da specie a specie. Poi, Rollim Hotchkiss riuscì ad affinare le ricerche di Avery. Purificò la "sostanza trasformante" fino ad ottenere un composto che conteneva solo un piccolo residuo di proteine, lo 0,02%, dimostrando che era comunque in grado di modificare la tipologia batterica.
Infine, per chiudere il cerchio, A. D. Hershey e Martha Chase, nel 1952, eseguirono un esperimento molto importante sul batteriofago T2, un virus in grado di infettare Escherichia coli. Essi dimostrarono che al momento dell'infezione entrava nel batterio quasi esclusivamente DNA, mentre gran parte delle proteine rimaneva fuori.
L'esperimento si basava sulla marcatura radioattiva distinta del DNA e delle proteine.

Nuova teoria e nuovi metodi: il modello di Erwin Chargaff
Il vero responsabile della svolta storica sugli studi del DNA fu il biochimico americano Erwin Chargaff che, per mezzo della cromatografia, mostrò che le quattro basi azotate del modello di Levene non si trovavano in rapporti uguali come voleva la teoria dei tetranucleotidi. Solo il numero delle adenine e delle timine era sempre uguale, e così il numero di citosine e guanine. Il rapporto tra i due gruppi di basi risultava costante all'interno della stessa specie.
La struttura tridimensionale del DNA fu realizzata mediante l'applicazione della tecnica di diffrazione dei raggi X e la costruzione di modelli in scala. Con la cristallografia ai raggi X si trovarono le misure degli angoli e delle distanze di legame fra gli atomi. I dati biochimici consentirono di trovare in che modo si appaiano le basi. Gran parte del merito per la diffusione dell'analisi strutturale di macromolecole si deve a William T. Astbury che, sul finire degli anni '20, si era impegnato nello studio dei rapporti tra struttura molecolare e proprietà fisiche di fibre come la cheratina. Astbury comprese che le catene proteiche possono esistere sia in uno stato contratto che in uno stato espanso. Affermato insegnante di "fisica tessile" a Leeds - come a dimostrare che i talenti della scienza sono spesso, se non sempre, direttamente coinvolti nel mondo delle attività produttive - nel 1930, riuscì a realizzare due immagini di diffrazione della cheratina. E propose, già nel 1932, l'esistenza di due diverse strutture per questa proteina.
Una struttura, riferita ad una forma denominata a-cheratina, era caratterizzata da un "ripiegamento" periodico della catena di legami peptidici; a questa forma contratta della proteina faceva riscontro una forma distesa, detta b-cheratina.
Gli studi di Astbury non erano che il preludio alla scoperta della struttura alfa-elica delle proteine da parte di Linus Pauling e Robert Corey nel 1950.
Questa struttura è determinata dalla presenza di legami idrogeno e, in un certo senso costituì il concetto di base su cui si sviluppò il modello a doppia elica del DNA proposto da Watson e Crick. Agli studi di Pauling dedicheremo un file, data l'impotanza basilare dei suoi studi e delle sue teorizzazioni, nonché al fallimento del suo tentativo di arrivare per primo alla decifrazione della struttura del DNA.

Breve storia di una scoperta
La caccia alla struttura del DNA era già aperta su più fronti quando il giovane yankee James Watson, un ornitologo benedetto dalla raccomandazione di due luminari della ricerca biologica come Salvador Luria e Max Delbrück, e il più maturo Francis Crick, che aveva lavorato all'Ammiragliato britannico durante la guerra, cominciarono a partecipare. Oltre a Pauling, anche Maurice Wilkins e Rosalind Franklin del King's College di Londra erano attivamente impegnati. Questi avevano utilizzato la tecnica della diffrazione a raggi x. La coppia Watson e Crick fu indubbiamente fortunata. Infatti fu grazie ad una "fotografia" scattata da Rosalind Franklin e mostratagli da Wilkins che Watson ebbe una folgorazione improvvisa. L'aneddoto raccontato da Kevin Davies può rendere l'idea di come andarono le cose. «Qualche giorno più tardi, recatosi da Wilkins per informarlo dello sbaglio grossolano di Pauling, Watson osservò una nuova fotografia a raggi x che la Franklin aveva ottenuto del DNA, la Fotografia 51. I raggi x formavano una croce scura che Watson interpretò come la firma di una molecola elicoidale. Non appena la vide, rimase folgorato e la sua mente corse a valutarne le possibili implicazioni, non ultima quella che il DNA potesse avere solo due catene e non tre.» (4) Lo stesso Watson racconta: «La mattina dopo, il 28 febbraio 1953, tutti gli aspetti chiave del modello del DNA divennero improvvisamente chiari. Le due catene erano tenute insieme da forti ponti idrogeno tra le coppie di basi - precisamente tra adenina e timina o tra guinina e citosina. Le deduzioni che Crick aveva effettuato un anno prima, sulla base della ricerca di Chargaff, erano effettivamente corrette. L'adenina si lega davvero alla timina, e la guanina alla citosina - ma non attraverso superfici piatte per formare dei sandwich molecolari. Quando arrivò in laboratorio, Crick assorbì rapidamente il tutto e diede la sua benedizione al mio schema di appaiamento. Si rese immediatamente conto che, in base al modello, i due filamenti della doppia elica dovevano scorrere orientati in direzioni opposte...[...] Conoscendo la sequenza - l'ordine delle basi - lungo una delle due, automaticamente si conosceva la sequenza dell'altra. Capimmo subito che quello doveva essere il modo in cui i messaggi genetici contenuti nei geni vengono copiati con tanta precisione quando i cromosomi si duplicano prima della divisione cellulare.» (5)
Probabilmente, Watson ha amplificato il proprio ruolo. Crick, non poco sconcertato e "offeso" dalla lettura delle bozze del primo libro di Watson (6), gli scrisse una lettera al fulmicotone. E' interessante citarne una parte: «Se tu dovessi ostinarti a considerare il tuo libro come storia, sarei costretto ad aggiungere che esso espone una visione così ingenua e soggettiva dell'argomento da risultare scarsamente credibile. Qualunque cosa avesse un contenuto intellettuale, inclusi aspetti che rivestivano un'importanza decisiva per noi in quel periodo, viene saltata a piè pari o omessa. La tua visione della storia è identica a quella che si può trovare nei peggiori esempi di riviste femminili.» (17) La reazione era giustificabile. Watson aveva scelto come frase inaugurale: «Non ho mai visto Francis Crick in atteggiamento modesto.» Non fa parte della retorica della scienza esprimere questo genere di giudizi, evidentemente, anche se la storia della scienza, ne potrebbe avere bisogno per ridimensionare l'alone di eroismo casto e puro che ancora circonda figure considerate leggendarie. Il problema era che in realtà, al di là dell'occasionalità della meravigliosa scoperta-intuizione di Watson, il merito fondamentale delle trasformazioni concettuali andava riportato allo stesso Crick. Questi, sfruttando le conoscenze maturate sullo studio dell'emoglobina di cavallo, fu colpito dalla constatazione il gruppo spaziale evidenziato imponeva l'esistenza di elementi di simmetria. E, come sottolinea Luigi Cerruti, «rendeva molto probabile che vi fosse una particolare digira perpendicolare all'asse dell'elica. Era questa la chiave della complementarietà delle due catene.» (18) Sicché, quindici anni dopo la pubblicazione del libro di Watson, Crick poteva dichiarare in un'intervista: «Credo che non avrei mai pensato che le catene potessero decorrere in direzione contraria, se non fosse stato per lo spunto dato dalla simmetria C2 [ ... ] Essa è sufficientemente ovvia per un cristallografo esperto, ma per gente come me, che ero un principiante, era necessario qualche indizio per poter giungere a quel punto e l'indizio era rappresentato dai dati di Rosalind Franklin. Era molto difficile per Jim afferrare l'idea che le catene decorressero in opposte direzioni [...] era troppo difficile! La sua mente, in un certo modo, non funzionava in quel senso.» (19) Come a dire che se poi cominciò a funzionare anche in quel senso, il merito andava ascritto alla maggiore duttilità mentale di sir Francis. Che in qualche caso seppe rivelarsi modesto.

Note:
(1) cit.in: Ernst Mayr - Storia del pensiero biologico - Bollati Boringhieri - [1982] 1990
(2) Judson H. F. - L'ottavo giorno della creazione /
La scoperta del DNA - Editori Riuniti 1982
(3) Davies K. - Il codice della vita - Mondadori 2001
(5) Watson J.D. - DNA / il segreto della vita - Adelphi 2004
(6) Watson J. D. - La doppia elica - Garzanti 1968, 1982 e successive edizioni

FDM - giugno 2010























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