Dalla nucleina al proteoma: una storia di
geni
Come si arrivò alla scoperta del DNA
di Federica De Martino
Tutti gli organismi viventi sono composti
di cellule. Vi sono differenti tipi di organismi,
per esempio vegetali ed animali, nonché batteri
unicellulari e privi di un nucleo. Le diversità
tra gli uni e gli altri sono enormi, ma se
li esaminiamo con potenti microscopi possiamo
notare che, man mano si scende nel sempre
più piccolo, si possono rilevare impressionanti
analogie. Alla fine del percorso potremmo
scoprire che i materiali che costituiscono
il vivente sono sorprendentemente gli stessi, il che
non significa semplici. In realtà, infatti,
si tratta di materiali molto complessi, risultato
di singolari combinazioni degli elementi
chimici più semplici esistenti in natura:
gli atomi. Il secondo fatto che potremmo
evidenziare è che un organismo vivente è
perennemente in attività. In ognuno di essi
avvengono simultaneamente attività di diverso
genere ed a vari livelli di gerarchia. Alla
base di tutte queste singole attività vi
sono un numero indefinibile di reazioni chimiche
che consumano energia proveniente dall'esterno,la
assorbono, la metabolizzano, e poi la rigenerano,
producendo le proteine che costituiscono
il corpo fisico.
E qui dobbiamo dare per scontato che si sappia
cosa sia un elemento chimico, cosa sia una
reazione e come si formano i diversi legami
che danno vita ad una molecola. Perché l'aiutino sia più completo, ho pensato di fornire
alcune schede che si trovano clikkando sui
link qui a fianco, nozioni rudimentali di chimica, biochimica ed anche santissima
biologia, indispensabile a comprendere quello
si trova d'ora in poi. Del resto, molte risorse
si trovano in rete.
I cromosomi
In principio erano i cromosomi. La prima
apparenza che incontrò l'ingrandimento microscopico
attuato dai biologi nell'Ottocento sul nucleo
di una cellula è questo corpuscolo a forma
di bastoncello che si evidenzia durante la
divisione cellulare. Ma attenzione, a questo
livello di analisi, siamo fortunati, cioè
siamo capitati in un momento in cui sta succedendo
qualcosa di visibile, infatti, quello che
stiamo osservando è una manifestazione non
sempre visibile. Supponiamo allora di non
avere alcuna forma di sapere preesistente,
e di non essere guidati da alcuna teoria.
Ciò che osserviamo è che, se il nucleo non
è coinvolto in una fase di divisione mitotica,
si presenta come un reticolo di una sostanza
strana, la cromatina. Sostanza che venne
chiamata nucleina da Miescher, il suo scopritore. Solo immediatamente
prima della divisione cellulare, la cromatina
si accorcia e si "svolge" in filamenti
continui e allungati: i cromosomi.
In ogni cromosoma è collocata una doppia
elica di DNA. Ma questo verremo a saperlo
solo in seguito. Continuando ad ignorare,
immaginiamo di essere in grado di osservare
non solo un tipo di cellula, ma tutti i tipi
di molte specie diverse. E' un lavoro lunghissimo,
ed infatti fu compiuto da molti ricercatori
e non da uno solo. Il risultato fu che il
numero dei cromosomi nelle cellule somatiche
di ogni organismo variava da specie a specie,
ma molto raramente variava all'interno della
specie.
Ad un certo punto della storia, i ricercatori
supposero che i fattori ereditari studiati da Mendel fossero localizzati nei
cromosomi. Ipotesi che Mendel non era in
grado di avanzare. Gli studi di Mendel erano
stati dimenticati per circa 40 anni. Diversi
furono i protagonisti di questa resurrezione
mendeliana. La storia è talmente complessa
che qui si può solo menzionare. Ma su Mendel
c'è una scheda disponibile clikkando su fattori ereditari.
Ad approfittare della resurrezione di Mendel
fu soprattutto T. H. Morgan, il quale mosse
da una posizione di scetticismo nei confronti
della teoria cromosomica, ma anziché rifiutarla,
volle saggiarla per via sperimentale.
Prendendo di mira un organismo particolare,
la Drosophila melanogaster, il moscerino della frutta, Morgan, ed il
suo gruppo, scoprirono che in certi incroci
pilotati della Drosophila, i risultati erano condizionati dal sesso.
Era un fattore aggiuntivo molto importante
agli studi di Mendel. Tuttavia, alcune mutazioni
non risultavano collegate al sesso.
Per comprendere questo punto, oltre che ricorrere
alla teoria di Mendel, dobbiamo ricordare
tutto ciò che nella conoscenza biologica
ha diretta attinenza con quanto stiamo osservando.
I cromosomi non sono tutti eguali. Alcuni,
detti autosomi, sono identici. Altri sono diversi. Ai tempi
di Morgan già si sapeva che le femmine di
Drosophila hanno due cromosomi X e sono a sesso omogametico:
tutte le uova contengono un solo cromosoma
X. Al contrario, i maschi di Drosophila hanno un cromosoma X e un cromosoma Y: sono
a sesso eterogametico. Metà degli spermatozoi
contiene un cromosoma X e l'altra metà un
cromosoma Y. La fecondazione di un uovo da
parte di uno spermatozoo può sempre determinare
la formazione di un individuo maschio. Questa
regola vale per tutti i mammiferi placentati,
ma non vale in generale. E' questo il bello
della biologia! - ci sono delle eccezioni
non trascurabili: avessimo iniziato la nostra
indagine dalle femmine degli uccelli, avremmo
scoperto che le papere e le rondini, possiedono
anche il cromosoma Y e sono perciò eterogametiche
a tutti gli effetti, mentre il maschio è
omogametico e non porta solo Y, ma porta
solo X! Per evitare complicazioni, o per
incrementarle, i genetisti hanno preferito
cambiar nome ai cromosomi degli uccelli.
Ora si parla di W e Z, ma la sostanza non
cambia.
In pratica, Morgan trovò un moscerino con
gli occhi bianchi e lo incrociò con "moscerine"
normali. Nella prima generazione tutti figli
avevano occhi normali di colore rosso. Ciò
confermava gli esperimenti di Mendel. Questi
aveva già visto che nella prima generazione
un carattere ereditario, definito "recessivo",
può non comparire. Esso però si ripresenta
inevitabilmente nella seconda generazione
a condizione che si incrocino tra loro "fratelli
e sorelle" della prima generazione.
Il termine "recessivo" significa
"ciò che si ritira". Per Mendel
stava a indicare i caratteri rimasti nascosti,
ovvero "segregati".
Negli esperimenti di Morgan, tuttavia, si
verificò qualcosa di sorprendente: il carattere
"occhi bianchi" era ricomparso
solo nei maschi. Anzi, solo nel 50% dei maschi.
Un'ipotesi che poteva spiegare questo fatto
era che il carattere fosse limitato al sesso.
Tuttavia, quando Morgan incrociò un maschio
"occhi bianchi" con una "zia"
della prima generazione, tutte "occhi
rossi", ottenne che anche metà delle
femmine risultava "occhi bianchi".
Così arrivò all'ipotesi giusta: il carattere
"occhi rossi" e "occhi bianchi"
nelle drosofile è determinato dal cromosoma
X.
E' molto importante sapere che le cellule
sessuali, sia nei maschi che nelle femmine,
si riproducono in modo diverso dalle cellule
somatiche.
Tale processo si chiama meiosi.
La meiosi
La meiosi è il particolare tipo di divisione
nucleare che comporta due successive divisioni
cellulari e interessa i gameti (spermi e
uova), che sono cellule aploidi, cioè dotate di un solo corredo di cromosomi.
Cercheremo di descrivere in estrema sintesi
cosa avviene.
Perché si verifichi un concepimento in seguito
ad unione sessuale, occorre l'incontro di
due gameti, materno e paterno. L'uovo fecondato
sarà una cellula diploide, cioè una cellula contenente un corredo
doppio di cromosomi. Il mistero della riproduzione sessuata è tutto qui.
La nuova cellula diploide si svilupperà per
mitosi fino a dar luogo all'embrione.
I gameti sono prodotti e mantenuti da un
"apparato distinto", non vi è mescolanza
tra cellule somatiche e le cellule germinali.
La continuità e l'integrità delle cellule
germinali è protetta dall'"isolamento"
dal resto dell'organismo.
Le cellule diploidi deputate alla produzione
di cellule germinali, chiamate anche meiociti
o gametociti, contengono una coppia di ciascun
tipo di cromosomi. Un membro della coppia
deriva dal genitore materno, l'altro da quello
paterno. Il contributo materno, nei mammiferi,
può contenere solo un cromosoma X, quello
paterno può contenere,in altrenativa, un
cromosoma Y. Se entrambi i cromosomi ereditati
sono X, avremo un individuo di sesso femminile.
Se,al contrario, verrà ereditato dalla linea
paterna, un cromosoma Y, avremo un individuo
di sesso maschile.
In profase I, i cromosomi si
appaiano in
modo stretto fino a formare una
tetrade di
4 cromatidi. In questo momento
tra cromatidi
non fratelli si formano dei chiasmi,
che
sono il risultato della separazione
e della
riunione di due cromatidi simili
ma non fratelli.
L'interruzione della struttura
dei cromatidi
e la loro riunione avvengono
esattamente
allo stesso punto. In tal modo
nessuna informazione
genetica viene persa o duplicata.
Questo
processo è definito crossing-over, cioè interscambio. Durante il crossing-over,
avviene una ricombinazione dei fattori genetici:
le due varianti di un cromosoma si combinano
in una terza, nuova combinazione.
Durante il resto della prima divisione mitotica,
dopo la dissoluzione dell'involucro nucleare,
ciascuna coppia di cromosomi si separa ed
essi migrano verso i poli opposti della cellula,
mentre i cromatidi fratelli rimangono tenuti
assieme da un centromero. Prima della seconda
divisione mitotica non avviene un'ulteriore
duplicazione. Durante questa seconda divisione
il centromero si divide e i cromatidi fratelli
si separano. Come risultato abbiamo quattro
cellule aploidi che contengono un cromosoma
di ciascun tipo.
Sarebbe interessante descrivere in dettaglio
le varie fasi della meiosi, ma qui diamo
per scontato che il concetto fondamentale
sia ormai acquisito. In un mondo di organismi
viventi sessualmente diversi, occorre che
la riproduzione avvenga tramite l'unione
di due cellule aploidi: lo spermatozoo maschile
e l'uovo femminile.
Questa consapevolezza nasceva già sul finire
del secolo scorso per merito del tedesco
T. Boveri, ancor prima che nell'americano
Sutton. Già nel 1893, Boveri affermava: «Possiamo
identificare ogni elemento cromatinico che
deriva da un nucleo in riposo con un elemento
definito che ha preso parte alla formazione
di quel nucleo.» Pertanto, proseguiva
Boveri, «in tutte le cellule derivate
nel regolare corso di divisione a partire
dall'uovo fecondato, una metà dei cromosomi
sono di origine strettamente paterna, l'altra
metà materna.» (1)
Il semplice studio al livello cellulare e
dei cromosomi poteva di per sé estendere
di molto le frontiere della conoscenza biologica.
E ciò accadde regolarmente. Ma la curiosità
e la passione degli scienziati non poteva
arrestarsi ai limiti di visibilità di un
microscopio. Il problema vero era il seguente:
cosa c'è di così importante in un cromosoma?
Cosa contiene? Cos'è?
Geni, genetica, genotipo e fenotipo, DNA
La parola "gene" fu coniata da
un botanico, Johannsen, all'inizio del '900.
Bateson propose di chiamare "genetica"
il dominio che studia l'ereditarietà dei
caratteri. Cosa intendeva Johannsen per "gene"?
Nient'altro che i "fattori ereditari"
mendeliani. Tuttavia, egli si era reso conto
della necessità di introdurre una distinzione
tra "genotipo" e "fenotipo". Con il primo termine intendeva la totalità
dei geni presenti in un individuo ed anche
la costituzione genetica di un solo carattere.
Con fenotipo intendeva descrivere la totalità dell'espressione
di un genotipo, quindi le caratteristiche
osservabili, morfologiche, strutturali e
funzionali, e anche l'espressione di un determinato
carattere. Questo perché il fenotipo non
è sempre, o non è mai, l'espressione completa
di un genotipo ma, la sua espressione possibile in un determinato ambiente. Sono in molti
a dare per scontato che l'ambiente non influisca
sul genotipo, ma si limiti a condizionare
la sua espressione. I dissenzienti esistono
ma delle loro obiezioni parleremo più avanti.
In ogni caso, l'ortodossia afferma che due
piante figlie della stessa pianta possono
presentare immediatamente caratteri diversi
se collocate in ambienti diversi, se esposte
o meno alla luce del sole, esposte a raffiche
di vento, o innaffiate regolarmente oppure
no, e se tenute a temperature differenti.
E' interessante ricordare che anche Darwin
aveva avanzato una teoria genetica con l'ipotesi
della pangenesi (2), ma il grande naturalista non aveva
aperto bocca sui lavori di Mendel, che forse
aveva letto, mostrando però di non averne
tenuto conto.
Fu possibile localizzare i geni nei cromosomi
perché nelle cellule principalmente studiate,
quelle di Drosophila e di altri insetti, i cromosomi sono più
grandi e chiaramente visibili al microscopio.
Questa caratteristica agevolò il lavoro di
osservazione. Finalmente, si scoprì che quando
avviene una mutazione, ad esempio un moscerino
con gli occhi rossi, di colore diverso dagli
occhi bianchi di entrambi i genitori, essa
è spesso accompagnata da un cambiamento osservabile
in uno di questi cromosomi giganteschi. Fu
evidente che ciò stava ad indicare un "riarrangiamento"
che venne poi definito ricombinazione.
La localizzazione dei "geni" come
"punti" sul cromosoma non portava
di per sé a chiarire come fosse fatto un
gene.
Finora, infatti, ne abbiamo parlato esclusivamente
in termini convenzionali e idealizzati. Occorreva
dare una realtà fisica al gene, individuarlo.
Solo così si sarebbe dato un vero puntello
alla teoria cromosomica. Eppure, essa venne
indirettamente, da ricerche che tentavano di stabilire
la localizzazione cellulare dell'informazione
genetica. Nel 1943, il danese Joachim Hammerling,
studiando due specie piuttosto diverse di
alghe, ma simili nel carattere fenotipico
di avere un'"ombrella" a forma
di antenna parabolica, tentò di stabilire
il domicilio dell'informazione che controllava
la "forma" delle stesse. Effettuò
una serie di innesti reciproci, prelevando
da una una sezione della parte mediana del
gambo per innestarla su quello dell'altra,
in modo tale che l'alga rigenerasse una nuova
ombrella. Possiamo dirlo, persino rozzamente,
Hammerling si chiedeva se la nuova ombrella
fosse regolata dal gambo innestato o dalla
base originale. I risultati dicevano che
l'informazione che controllava la crescita
della nuova ombrella stava nella struttura
della base e non in quella del gambo innestato.
Gli esperimenti di Hammerling dimostrarono
così che l'informazione presente nel nucleo
era sufficiente ad indurre la rigenerazione
dell'alga.
Vi fu anche una prova definitiva. Venne fornita
dagli esperimenti di trapianto nucleare effettuati nel 1952 da Thomas King e Robert
Briggs.
Essi prelevarono cellule intestinali di girino
e trapiantarono il nucleo nell'uovo fecondato
di una rana il cui nucleo era stato distrutto.
Tale tipo di manipolazioni aveva in genere
provocato uno sviluppo anomalo, o la morte
degli embrioni. Ma, accadde anche che parecchi
di tali esperimenti portarono alla nascita
di individui più o meno vitali. E anche questo
tipo di esperimenti confermò che la sede
delle istruzioni che regolano la formazione
di nuovo materiale genetico e vivente si
trova nel nucleo cellulare.
Anche questa via portava a concludere che,
con pochissime eccezioni, le cellule eucariotiche
di un organismo pluricellulare contengono
tutte la stessa informazione genetica.
In un'altra serie di esperimenti,
un diverso
gruppo di ricercatori riuscì
a "fondere"una
cellula tumorale di ratto con
fibroplasto
di topo, una cellula deputata
a secernere
le unità di base della fibra
del tessuto
connettivo. Essi dimostrarono
che "l'ibrido"
era in grado di sopravvivere, di moltiplicarsi e sintetizzare proteine.
Il dato sorprendente, non era che questi
ibridi cellulari fossero in grado di sintetizzare
proteine tipiche del fegato di ratto, ma
che fossero anche in grado di produrre proteine
tipiche del fegato di topo. Era evidente
che il fibroblasto di topo aveva conservato
i geni che regolano la sintesi delle proteine
speciespecifiche.
Lavorando su cellule del rospo
africano Xenopus laevis, nel 1962, John Gurdon ottenne risultati
ancora più sorprendenti. Egli notò infatti
una perdita progressiva di potenzialità nei nuclei prelevati dalle cellule somatiche.
In pratica, le cellule più mature, con funzioni differenziate, non conservavano i caratteri pluripotenziali delle cellule studiate in precedenza. Tali
esperimenti hanno in sostanza dimostrato
che i geni si esprimono differentemente a
seconda dello spazio (cioè l'ambiente interno)
in cui si trovano le cellule nelle quali
operano, ed anche rispetto al tempo, perché
alcuni geni sono attivi all'inizio dello sviluppo mentre altri entrano in gioco
successivamente. Tutto ciò ebbe un'estrema
importanza nello spingere le indagini in
diverse direzioni ma, dobbiamo renderci conto
che tra le prime ricerche menzionate e le
seconde esiste uno spartiacque. Prima del
1953 e dopo il 1953. Cosa accadde in quell'anno
di così cruciale per la biologia?
Il principio trasformante
Un'altra linea di ricerca sperimentale aveva
portato ad indagare più direttamente l'esistenza
di un principio trasformante che, scendendo dai piani alti della metafisica
biologica, si sarebbe poi mostrato come la
reale esistenza di un acido in grado di trasformare ceppi batterici da non patogeni a patogeni.
Tutto risaliva agli esperimenti di Frederich
Griffith, un medico che, a Londra, nel 1928,
aveva inoculato nei topi sia batteri vivi
non patogeni sia batteri morti patogeni del
genere Streptococcus pneumoniae, cioè quelli che provocano polmonite. Alcuni
topi presero la polmonite, e questo fatto
andava spiegato. In termini tecnici, Griffith
aveva selezionato colonie di batteri R e
colonie di batteri S. I primi avevano perso
la capacità di sintetizzare la capsula del
virus e quindi di provocare l'infezione.
Delle forme R e S erano state identificate
tre varianti, chiamate con numeri romani
I, II, III e distinguibili soltanto sulla
base di metodiche immunologiche. I batteri
R di tipo II, erano non virulenti. Quelli
S di tipo III erano virulenti, ma anche morti.
Nel sangue dei topi morti, al livello del
cuore, Griffith era riuscito ad isolare pneumococchi
vivi e virulenti a forma S di tipo III. La
trasformazione era permanente e veniva ereditata,
e successivi esperimenti consentirono di
osservare analoghe trasformazioni interessanti
pneumococchi di tipo diverso. Se non crediamo
ai miracoli, o alla ripetizione degli errori,
potremmo uscire sconcertati da una simile
esperienza ripetuta più volte. E sconcertato
fu Oswald Avery, un ricercatore che non solo
aveva creduto nella fissità dei tipi batterici,
ma aveva anche cercato di dimostrarla. H.
F. Judson scrive: «La scoperta di Griffith
fece sorgere dei dubbi sull'effettiva esistenza
di specie omogenee distinte nell'ambito dei
batteri. Ed aprì inoltre dei gravi problemi
pratici per gli epidemiologi e gli immunologi.
Sollevò anche un polverone di interpretazioni
congettuturali ed illegittime. Fatto ancor
più importante, i microbiologi giudicavano
la trasformazione batterica un evento assolutamente
sconvolgente, al pari di quanto accadeva,
negli stessi anni, ai fisici atomici con
la trasmutazione degli elementi mediante
interazione tra protoni e neutroni.»
(3)
Ma dopo breve tempo, alcuni collaboratori
di Avery si accorsero che, senza ricorrere
all'inoculazione nei topi, i medesimi risultati
si potevano conseguire anche in vitro. Coltivando una forma batterica R su una
piastra di vetro in presenza di pneumococchi
di una forma S uccisi con il calore, riuscirono
ad ottenere la medesima trasformazione. E
solo qualche mese dopo, James Alloway, dello
stesso laboratorio di Avery, lisò batteri
della forma S onde liberare il loro contenuto,
filtrando poi la coltura attraverso pori
così ridotti che le membrane cellulari rimaste
integre venivano rimosse. Aggiungendo l'estratto
privo di cellule a una coltura della forma
R, la trasformazione avvenne nuovamente.
Nell'immediato queste scoperte,
che confermavano
sicuramente la "natura chimica"
del gene, se non la sua natura
acidonucleica,
non ebbero tuttavia l'effetto
dirompente
che ci si sarebbe potuto attendere.
Una teoria sbagliata: i tetranucleotidi
di
Phoebus Levene
Insomma: sotto il profilo storico
bisogna
capire che molti genetisti e
molti biochimici
si erano convinti che fossero
le proteine
ad essere i depositari dell'informazione
genica. Di questo, ad esempio,
era persuaso
Felix Haurowitz, un'autorità
riconosciuta
nel campo dello studio delle
proteine, in
particolare dell'emoglobina.
Ciò era dipeso da tre fattori.
Siccome le
cellule contengono una grande
quantità e
varietà di proteine, non dovrebbe
sorprendere
che alcuni genetisti teorizzassero
che alcune di esse contenessero i geni. Nella realtà cellulare, il DNA nudo non esiste
. Si trova sempre legato e circondato da
enzimi e proteine. Inoltre si poteva ancora
credere che un "gene" fosse collocato
sul DNA ma non fosse fatto solo di DNA.
Il secondo elemento che giocava a favore
delle proteine era la credenza che gli acidi
nucleici avessero una struttura molto diversa
da quelle realmente scoperta. All'incirca
nel 1910, Phoebus Levene aveva ipotizzato
che il DNA fosse composto di quattro 'mattoni',
due purine e due piramidine, in rapporto
proporzionale di 1:1:1:1. I dati sperimentali
raccolti erano leggermente diversi, ma questi
attribuì la discrepanza alla inadeguatezza
delle tecniche di analisi. Questa struttura
relativamente semplice indusse molti biochimici
a rifiutare l'idea che il DNA fosse il depositario
del codice d'istruzione genetico.
Il terzo elemento era strettamente
legato
alle caratteristiche stesse della
genetica
come disciplina. Prima del 1940,
la maggior
parte dei genetisti era impegnata
nelle ricerche
sulla trasmissione dei caratteri
e sulle
mutazioni. Probabilmente, i successi
che
si ottenevano in questo campo
contribuivano
a ridurre l'interesse alla scoperta
delle
vere origini del materiale genetico.
Ma già nel 1953, quando Watson
e Crick pubblicarono
il modello della struttura a
doppia elica
del DNA, la situazione era radicalmente
cambiata.
Fin dal 1950, Erwin Chargaff
aveva dimostrato
che le basi del DNA non si trovano
in proporzioni
uguali, come sostenuto da Levene.
Inoltre,
la sua composizione variava da
specie a specie.
Poi, Rollim Hotchkiss riuscì
ad affinare
le ricerche di Avery. Purificò
la "sostanza
trasformante" fino ad ottenere
un composto
che conteneva solo un piccolo
residuo di
proteine, lo 0,02%, dimostrando
che era comunque in grado di modificare la tipologia batterica.
Infine, per chiudere il cerchio,
A. D. Hershey
e Martha Chase, nel 1952, eseguirono
un esperimento
molto importante sul batteriofago
T2, un
virus in grado di infettare Escherichia coli. Essi dimostrarono che al momento dell'infezione
entrava nel batterio quasi esclusivamente
DNA, mentre gran parte delle proteine rimaneva
fuori.
L'esperimento si basava sulla
marcatura radioattiva
distinta del DNA e delle proteine.
Nuova teoria e nuovi metodi: il modello di
Erwin Chargaff
Il vero responsabile della svolta storica
sugli studi del DNA fu il biochimico americano
Erwin Chargaff che, per mezzo della cromatografia,
mostrò che le quattro basi azotate del modello
di Levene non si trovavano in rapporti uguali
come voleva la teoria dei tetranucleotidi.
Solo il numero delle adenine e delle timine
era sempre uguale, e così il numero di citosine
e guanine. Il rapporto tra i due gruppi di
basi risultava costante all'interno della
stessa specie.
La struttura tridimensionale
del DNA fu realizzata
mediante l'applicazione della
tecnica di
diffrazione dei raggi X e la
costruzione
di modelli in scala. Con la cristallografia
ai raggi X si trovarono le misure
degli angoli
e delle distanze di legame fra
gli atomi.
I dati biochimici consentirono
di trovare
in che modo si appaiano le basi.
Gran parte
del merito per la diffusione
dell'analisi
strutturale di macromolecole
si deve a William
T. Astbury che, sul finire degli
anni '20,
si era impegnato nello studio
dei rapporti
tra struttura molecolare e proprietà
fisiche
di fibre come la cheratina. Astbury
comprese
che le catene proteiche possono
esistere
sia in uno stato contratto che
in uno stato
espanso. Affermato insegnante
di "fisica
tessile" a Leeds - come
a dimostrare
che i talenti della scienza sono
spesso,
se non sempre, direttamente coinvolti
nel
mondo delle attività produttive
- nel 1930,
riuscì a realizzare due immagini
di diffrazione
della cheratina. E propose, già
nel 1932,
l'esistenza di due diverse strutture
per
questa proteina.
Una struttura, riferita ad una
forma denominata
a-cheratina, era caratterizzata da un "ripiegamento"
periodico della catena di legami peptidici;
a questa forma contratta della proteina faceva
riscontro una forma distesa, detta b-cheratina.
Gli studi di Astbury non erano
che il preludio
alla scoperta della struttura
alfa-elica
delle proteine da parte di Linus
Pauling
e Robert Corey nel 1950.
Questa struttura è determinata dalla presenza
di legami idrogeno e, in un certo senso costituì
il concetto di base su cui si sviluppò il
modello a doppia elica del DNA proposto da
Watson e Crick. Agli studi di Pauling dedicheremo
un file, data l'impotanza basilare dei suoi
studi e delle sue teorizzazioni, nonché al
fallimento del suo tentativo di arrivare
per primo alla decifrazione della struttura
del DNA.
Breve storia di una scoperta
La caccia alla struttura del
DNA era già
aperta su più fronti quando il
giovane yankee
James Watson, un ornitologo benedetto
dalla
raccomandazione di due luminari
della ricerca
biologica come Salvador Luria
e Max Delbrück,
e il più maturo Francis Crick,
che aveva
lavorato all'Ammiragliato britannico
durante
la guerra, cominciarono a partecipare.
Oltre
a Pauling, anche Maurice Wilkins
e Rosalind
Franklin del King's College di
Londra erano
attivamente impegnati. Questi
avevano utilizzato
la tecnica della diffrazione
a raggi x. La
coppia Watson e Crick fu indubbiamente
fortunata.
Infatti fu grazie ad una "fotografia"
scattata da Rosalind Franklin
e mostratagli
da Wilkins che Watson ebbe una
folgorazione
improvvisa. L'aneddoto raccontato da Kevin Davies può
rendere l'idea di come andarono le cose.
«Qualche giorno più tardi, recatosi
da Wilkins per informarlo dello sbaglio grossolano
di Pauling, Watson osservò una nuova fotografia
a raggi x che la Franklin aveva ottenuto
del DNA, la Fotografia 51. I raggi x formavano
una croce scura che Watson interpretò come
la firma di una molecola elicoidale. Non
appena la vide, rimase folgorato e la sua
mente corse a valutarne le possibili implicazioni,
non ultima quella che il DNA potesse avere
solo due catene e non tre.» (4) Lo stesso Watson racconta: «La mattina dopo, il 28 febbraio 1953,
tutti gli aspetti chiave del modello del
DNA divennero improvvisamente chiari. Le
due catene erano tenute insieme da forti
ponti idrogeno tra le coppie di basi - precisamente
tra adenina e timina o tra guinina e citosina.
Le deduzioni che Crick aveva effettuato un
anno prima, sulla base della ricerca di Chargaff,
erano effettivamente corrette. L'adenina
si lega davvero alla timina, e la guanina
alla citosina - ma non attraverso superfici
piatte per formare dei sandwich molecolari.
Quando arrivò in laboratorio, Crick assorbì
rapidamente il tutto e diede la sua benedizione
al mio schema di appaiamento. Si rese immediatamente
conto che, in base al modello, i due filamenti
della doppia elica dovevano scorrere orientati
in direzioni opposte...[...] Conoscendo la
sequenza - l'ordine delle basi - lungo una
delle due, automaticamente si conosceva la
sequenza dell'altra. Capimmo subito che quello
doveva essere il modo in cui i messaggi genetici
contenuti nei geni vengono copiati con tanta
precisione quando i cromosomi si duplicano
prima della divisione cellulare.» (5)
Probabilmente, Watson ha amplificato
il proprio
ruolo. Crick, non poco sconcertato
e "offeso"
dalla lettura delle bozze del
primo libro
di Watson (6), gli scrisse una
lettera al
fulmicotone. E' interessante
citarne una
parte: «Se tu dovessi ostinarti
a considerare
il tuo libro come storia, sarei
costretto
ad aggiungere che esso espone
una visione
così ingenua e soggettiva dell'argomento
da risultare scarsamente credibile.
Qualunque
cosa avesse un contenuto intellettuale,
inclusi
aspetti che rivestivano un'importanza
decisiva
per noi in quel periodo, viene
saltata a
piè pari o omessa. La tua visione
della storia
è identica a quella che si può
trovare nei
peggiori esempi di riviste femminili.»
(17) La reazione era giustificabile.
Watson
aveva scelto come frase inaugurale:
«Non
ho mai visto Francis Crick in
atteggiamento
modesto.» Non fa parte
della retorica
della scienza esprimere questo
genere di
giudizi, evidentemente, anche
se la storia
della scienza, ne potrebbe avere
bisogno
per ridimensionare l'alone di
eroismo casto
e puro che ancora circonda figure
considerate
leggendarie. Il problema era
che in realtà,
al di là dell'occasionalità della
meravigliosa
scoperta-intuizione di Watson,
il merito
fondamentale delle trasformazioni
concettuali
andava riportato allo stesso
Crick. Questi,
sfruttando le conoscenze maturate
sullo studio
dell'emoglobina di cavallo, fu
colpito dalla
constatazione il gruppo spaziale
evidenziato
imponeva l'esistenza di elementi
di simmetria.
E, come sottolinea Luigi Cerruti,
«rendeva
molto probabile che vi fosse
una particolare
digira perpendicolare all'asse
dell'elica.
Era questa la chiave della complementarietà
delle due catene.» (18)
Sicché, quindici
anni dopo la pubblicazione del
libro di Watson,
Crick poteva dichiarare in un'intervista:
«Credo che non avrei mai
pensato che
le catene potessero decorrere
in direzione
contraria, se non fosse stato
per lo spunto
dato dalla simmetria C2 [ ...
] Essa è sufficientemente
ovvia per un cristallografo esperto,
ma per
gente come me, che ero un principiante,
era
necessario qualche indizio per
poter giungere
a quel punto e l'indizio era
rappresentato
dai dati di Rosalind Franklin.
Era molto
difficile per Jim afferrare l'idea
che le
catene decorressero in opposte
direzioni
[...] era troppo difficile! La
sua mente,
in un certo modo, non funzionava
in quel
senso.» (19) Come a dire
che se poi
cominciò a funzionare anche in
quel senso,
il merito andava ascritto alla
maggiore duttilità
mentale di sir Francis. Che in
qualche caso
seppe rivelarsi modesto.
Note:
(1) cit.in: Ernst Mayr - Storia del pensiero biologico - Bollati Boringhieri - [1982] 1990
(2) Judson H. F. - L'ottavo giorno della creazione / La scoperta del DNA - Editori Riuniti 1982
(3) Davies K. - Il codice della vita - Mondadori 2001
(5) Watson J.D. - DNA / il segreto della vita - Adelphi 2004
(6) Watson J. D. - La doppia elica - Garzanti 1968, 1982 e successive edizioni
FDM - giugno 2010
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