Nell’atto V, l’ultimo della tragedia, vediamo una rivalsa del timido personaggio di Isabella, nel confronto finale con il suo carnefice; sentiamo, quando si rivolge a Carlo il quale tenta ancora di salvarle la vita, la sua perfetta analisi del comportamento di Filippo:“Indarno / salvarmi tenti: ogni tuo dire è punta, / che in lui più innaspra la superba piaga”. Ha capito che più Carlo parla più Filippo diventa crudele e arriva anche ad accusare lo stesso Filippo dell’amore cresciuto tra i due: “ti direi, che tu fra noi stringevi / nodi d'amore” Isabella era infatti promessa sposa a Carlo, ma per volere di Filippo fu sua moglie e forse sarebbe riuscita a dimenticare Carlo, se Filippo l’avesse amata davvero: “Agli anni poscia, a mia virtude, e forse / a te spettava lo estirparla...” (Agli anni, alla mia forza e forse a te spettava spegnere la passione tra me e Carlo). Ma nel cuore di Isabella “... In me il silenzio nasce, / di timor no; stupore alto m'ingombra / del non credibil tuo doppio, feroce, / rabido cor.” nasce il silenzio, proprio come nel cuore di Agrippina in seguito all’uccisione del figlio Germanico: “Agrippina sbarcò con due figli, reggendo l'urna funebre, e si fece avanti ad occhi bassi”, non aveva neppure la forza di alzare lo sguardo e si chiuse in un triste silenzio. Ed è sempre Isabella a chiudere al tragedia, proprio come era stata lei ad aprirla “... Morir vedi... / la sposa,... e il figlio,... ambo innocenti,... ed ambo / per mano tua... – Ti sieguo, amato Carlo...” e si identifica così come il simbolo dell’amore.

Carlo nell’ultimo atto non fa altro che confermare il suo destino che già ben conosceva, rivolgendosi a Filippo con le parole: “Ed io son presto a morte: / dammela tu” e lo stesso vale per il suo amico Perez: “Perez trafitto muore: ecco l’acciaro, / che gronda ancor del suo sangue fumante”.

E Filippo? Quando Isabella prende in mano il pugnale per seguire la sorte del suo amato, dal momento che il tiranno in un ultimo moto di oscena crudeltà aveva deciso di risparmiare la vita alla consorte, “Da lui disgiunta, / sí, tu vivrai; giorni vivrai di pianto: / mi fia sollievo il tuo lungo dolore. / Quando poi, scevra dell'amor tuo infame, / viver vorrai, darotti allora io morte” sentiamo Filippo pronunciare una frase inaspettata: “Oh ciel! Che veggio?” e basta questo a rimettere in discussione tutto il personaggio di Filippo. Forse lui amava veramente Isabella, forse le avrebbe risparmiato la vita e forse prima o poi avrebbe capito la gratuita crudeltà delle proprie azioni. Ma subito dopo capiamo che per ora non si è pentito: la battuta finale, nel dialogo con Gomez, “a te, se il taci, salverai la vita” stende l’ultimo velo di sangue su tutta la tragedia.

 

La meschinità di Filippo è data dalla sua perfetta arte della dissimulazione e così è anche il Tiberio di Tacito. Le figure dipinte da Tacito diventano spesso l’immagine allegorica di questo vizio o di quella virtù e Tiberio è l’esempio dell’ambizione e della menzogna, oltre ad essere modello di crudeltà; ecco perché Alfieri si ispira a Tiberio per il suo Filippo: Filippo è l’immagine della crudeltà e della finzione della tirannide. Forse è anche per questo che lo stesso Alfieri in una perfetta autocritica dice del Filippo: “questi Carli e Filippi non sono ancora considerati nei fasti delle eroiche scelleratezze” ecco la “troppa modernità del fatto”. La storia narrata nel Filippo ha un tempo e un luogo, ma può valere per qualsiasi tempo e qualsiasi luogo perché è prima di tutto un dramma tra due uomini.

Questo dramma ha una svolta decisiva quando, nell’atto IV, Filippo va ad arrestare il figlio Carlo dopo le deliberazioni del consiglio, e in seguito alla falsa accusa, da parte del padre, di tentato omicidio ai danni del re.

Quello delle false accuse è un tema che ritroviamo anche negli Annales di Tacito secondo cui sotto il regno di Tiberio “si moltiplicarono le accuse di lesa maestà”, vale a dire i processi intentati per crimini contro lo stato e la figura dell’imperatore.

 

Dal libro: L’incisione in scena, tragedie di Vittorio Alfieri

illustrate da Guido Gonin. Di Carla Forno.

 

Negli Annales di Tacito (VI, 6) si trova l’estratto di una lettera di Tiberio indirizzata al Senato, nella quale Tiberio, privo di amici e di veri appoggi, si lamenta della sua terribile solitudine. Il commento di Tacito è significativo: “E non è invano che il più grande dei saggi ha sempre affermato che se si traessero le anime dei tiranni fuori dalla loro prigione, sarebbe possibile scorgere in esse lacerazioni e lividi, dal momento che, come il corpo dalle verghe così l’anima è straziata dalla crudeltà, dalla libidine e dai cattivi pensieri. E invero né la ricchezza né la solitudine preservano Tiberio dall’ammettere egli stesso le ansie del suo cuore”.

Allo stesso modo vediamo Filippo, nell’ultima scena della tragedia, chiedersi: “Scorre di sangue (e di qual sangue!) un rio… / Ecco, piena vendetta orrida ottengo;… / ma felice son io?… -Gomez, si asconda / l’atroce caso a ogni uomo. – A me la fama, / a te, se il taci, salverai la vita”.

Filippo si chiede: “Felice son io?”. Filippo è dunque appagato dall’aver affermato la sua forza con l’uccisione del figlio, o è un uomo ancora più solo? Avendo sacrificato Carlo ed Isabella al proprio potere, Filippo risulta essere il vinto: i due innamorati sono più forti di lui e della sua grandezza di tiranno, una crudele grandezza che è costretto a vivere nella solitudine.

 

Nel Filippo domina lo snaturato odio paterno e il sovrano viene a trovarsi solo nel suo odio: quell’inumano odio è nato proprio dalla triste solitudine. Se la figura del tiranno ci appare come la figura di un uomo crudele e solo, allora la tirannide stessa è lacerante solitudine che genera odio e l’odio, a sua volta, oppressione. Questa è la tesi che Alfieri, sia con il trattato Della tirannide, sia con la sua prima tragedia, Filippo, voleva dimostrare.

 

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