SAGGIO SULLA TRAGEDIA "FILIPPO"

di VITTORIO ALFIERI

 

 

“... il Tiberio delle Spagne si riconosce da tutti.

Da lui si ascoltano suspensa semper, et obscura verba:

in lui si vede l'uomo sine miseratione, sine ira;

e lo troviamo sempre obstinatum, clausumque, ne quo affectu perrumperetur:

tocchi maestri del carattere di Tiberio, fortemente espressi da Tacito”.

(Lettera di Ranieri de' Calzabigi)

 

“Tiberio, pur maturo e di provata capacità militare, aveva la congenita e radicata alterigia della famiglia Claudia, e in lui affioravano, pur trattenuti, numerosi indizi di crudeltà. Egli era cresciuto, fin dalla prima infanzia, nella casa regnante; ancor giovane l'avevano colmato di consolati e trionfi; e anche negli anni passati a Rodi in esilio, dietro la facciata di un ritiro, non aveva rimuginato altro che rancori, covando dissimulazione e segrete dissolutezze.” (Annales I, 4).

Questa è l’immagine che Tacito negli Annales, ci ha lasciato dell'imperatore Tiberio, salito al potere a Roma dopo la morte di Augusto nel 14 d.C.; essa rispecchia il topos del tiranno: “Libidinoso, sospettoso, crudele, ipocrita quanto si conviene al despota da palcoscenico o da esercitazione retorica”. Agli occhi dello storico Tacito, Tiberio appare come insuperabile maestro di dissimulazione, tanto da elevarla a metodo di governo, velando la sua spietata condotta con le apparenze della legge.

Sempre negli Annales (VI, 51) si legge: “Misterioso e subdolo nel fingere virtù, (...) fu un miscuglio di bene e di male, fino alla morte di sua madre; un mostro di crudeltà, ma simulatore delle sue abominevoli passioni; da ultimo finì per precipitare nel delitto e nel disonore, dopo che, bandito ogni ritegno e ogni timore, si lasciò andare unicamente alla sua natura”. Tiberio riteneva - così riferisce Tacito - che un sovrano non dovesse rivelare nulla di sé e perciò si mostrava in ogni occasione impassibile e misterioso. Trincerato dietro la falsità della sua disponibilità verso il Senato, Tiberio diede l'esempio della menzogna istituzionalizzata.

La durezza di Tacito nei confronti dell'imperatore gli fu ispirata senza dubbio, in gran parte, dalle risentite fonti senatorie di cui si avvalse, ma fu soprattutto alimentata dal suo intento di dimostrare che “l'ipocrisia politica è incompatibile con quella saggezza sulla quale il principato pretendeva di fondarsi, e che implicava innanzitutto la ricerca e il rispetto della verità”.

 

Alfieri, nel suo trattato politico Della Tirannide ci dice che cosa sia secondo lui il tiranno:

“Tra le moderne nazioni non si dà dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e tremando) a quei soli principi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le vite, gli averi, e l'onore. (…) Il nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dee dare se non a coloro, (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se l'abbiano, una facoltà illimitata di nuocere.”

Il tema del tiranno è certamente molto caro ad Alfieri, insofferente verso qualsiasi forza che limiti o impedisca la libertà dell’uomo, tanto da scrivere di getto, nel 1777, il trattato Della Tirannide, nel quale prende in esame le cause da cui trae forza la tirannide e spiega i mezzi per sottrarsi ad essa ed abbatterla. Per fare questo Alfieri nella sua opera richiama anche la figura delineata da Tacito negli Annales, Tiberio, il tiranno a cui si ispirerà anche per il suo Filippo II, utilizzando i due sovrani come esempi di tiranni: “così presso noi, un Nerone, un Tiberio, un Filippo secondo, un Arrigo ottavo, o qual altro mostro moderno” definendoli “mostri”. Non solo in questo trattato politico Alfieri ci presenta la figura del despota; anche le sue tragedie sono basate sul costante conflitto tra due uomini, tra l’oppressore, l’uomo che priva della libertà un suo simile, e l’oppresso, vittima di ingiustizia.

Così è nella prima tragedia ufficialmente riconosciuta da Alfieri: il Filippo, composta tra il 1775 - 76 e rielaborata fini al 1789.

 

La tragedia, come tutte le diciannove tragedie di Alfieri, segue i rigidi canoni classici: è divisa in cinque atti, non vi è il prologo e sono rispettate le tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Il tempo è breve, la tragedia si consuma in un solo giorno; è ambientata in un luogo ben preciso, la reggia di Madrid e, infine, l’azione è concentrata sull’ultimo giorno del contrasto tra due uomini: il sovrano di Spagna, Filippo II, e il figlio Carlo.

Nel primo atto sono in scena tre personaggi: Isabella, Carlo e Perez. Viene mostrata la reggia di Madrid come un luogo triste e cupo, privo di gioia, “e sa che in bando è posta / da ispana reggia ogni letizia”, secondo le parole di Isabella; e Isabella stessa si presenta “Mesta ognor mi vede… / mesta, è vero. (…) Misera me! Sollievo a me non resta / altro che il pianto; ed il pianto è delitto”.

Il luogo e i personaggi vivono nella fosca luce che contorna il triste sovrano, e con le loro paure e con le loro angosce sono lo specchio dell’animo cupo e solo del tiranno.

Allo stesso modo il Tiberio di Tacito si impone sulle persone e sui luoghi che lo attorniano; ogni parola che Tiberio pronuncia, ogni atteggiamento che assume ha gravi conseguenze sulle persone che lo circondano: la corte si presenta come l’immagine dei vizi e delle virtù del principe, proprio come la reggia è l’immagine del suo cupo sovrano.

 

Isabella, il primo personaggio a parlare nella tragedia, all’inizio dell’opera ci appare come una figura di grande femminilità, fragile e ingenua; l’amore che condivide con Carlo è una passione limpida e sincera e forse le impedisce di capire la crudeltà che si nasconde in Filippo; ha paura di essere colpevole per i sentimenti profondi che prova verso il figlio adottivo “Consorte infida / io di Filippo, di Filippo il figlio oso amar, io?…”. Ma se Isabella non riesce a comprendere chi e cosa ci sia veramente dietro a ciò che genera sofferenza nel suo cuore, Carlo è invece dotato di una piena chiaroveggenza del padre.

 

Carlo entra nella scena seconda e si intrattiene a parlare con Isabella.

“Suddito, e figlio / di assoluto signor, soffersi, tacqui, / piansi, ma in core; al mio voler fu legge / il suo volere: ei ti fu sposo: e quanto / io del tacer, dell'obbedir, fremessi, / chi 'l può saper, com'io? (…)”: Isabella era infatti promessa sin moglie a Carlo prima che Filippo la sposasse; da qui cominciamo a capire quali siano i motivi dell’odio di Filippo, perché percepiamo qual è la virtù di Carlo: sa obbedire al volere del padre pur non essendo questo anche il suo volere. Stilisticamente molto pregnante l’asindeto “soffersi, tacqui, piansi, ma in core” che riproduce perfettamente l’angoscioso stato d’animo di Carlo. Ma è proprio la virtù del figlio che accresce l’odio del tiranno. Carlo, conosce bene questo odio, “l'odio di me nel cor del padre, / quanto il dolore entro al mio cor, crescea” a differenza di Isabella la quale crede che “L'odio non cape in cor di padre, il credi; ma il sospetto”; Isabella teme, cioè, che Filippo sappia del sentimento di profondo affetto tra i due e voglia punirli per questo. Carlo però è pienamente convinto che “Filippo è quei che m’odia (…) ei d’esser padre / se pur il sa, si adira”; questa piena consapevolezza della crudeltà del padre dimostra come il conflitto tra i due sia insanabile.

 

L’ultimo personaggio che conosciamo nel primo atto è Perez che si definisce nei confronti di Carlo “Amico tuo, / non di ventura, sono io. Ah! S’è pur vero, / che il duol diviso scemi, avrai compagno / inseparabil me d’ogni tuo pianto”; Perez promette a Carlo di essere un compagno inseparabile nel pianto, ma, come vedremo alla fine della tragedia, si rivelerà molto di più che un compagno nel pianto per Carlo: ne condividerà la triste sorte.

 

  L’atto secondo, considerato il cuore della tragedia, si apre con l’entrata in scena di colui che dà il nome all’opera: Filippo. Il ritratto alfieriano di Filippo è di tipo indiretto: l'autore, cioè, non ci fornisce subito una descrizione completa del sovrano, ma fa in modo che la sua figura si delinei a poco a poco in tutta l’opera, sia dalle parole dello stesso sovrano sia da quelle degli altri personaggi. In tal modo il tiranno prende rilievo gradatamente, colto soprattutto nelle varie sfumature del suo carattere, poiché Alfieri predilige, al ritratto fisico, quello morale. Carlo ci fa sapere che Filippo “ha in sé giurato, entro il suo cor di sangue / il mio morir. (…) chiuso, inaccessibil core / di ferro egli ha”; e Isabella, la quale alla fine della tragedia capisce veramente la crudeltà dell’uomo che ha di fronte, leggendogli negli occhi nell’atto IV, dice: “Eppur, quegli occhi / d’ira avvampante, ed in me fitti (…)”

  Ritratto di Filippo II, di Tiziano, particolare, sec XVI.

                        Madrid, Museo del Prado.

Non a caso Alfieri, nell’atto IV, fa dichiarare dal “più fedel tra i fidi” del tiranno, Gomez: “Filippo / nel simular, sovra ogni altra cosa, è dotto”, infatti già dall’atto II, nel discorso tra Filippo e Isabella, sentiamo il sovrano dire: “una fredda / ragion di stato, perché taccia l’ira / in me non tace… oh, ciel! Una voce anch’odo di padre in me…” e si mostra così subito per quel che è: un maestro di dissimulazione. Filippo non sente quella voce di padre in sé, non conosce neppure il significato della parola “padre” e ancor meno quello della parola “amore”, eppure è una parola che usa con tanta facilità, disinvoltura e inganno: “e dimmi il ver: Carlo, il mio figlio,... l'ami?... / o l'odj tu?... (…) Ti è caro dunque: in te virtude adunque / cotanta hai tu, che di Filippo sposa, / pur di Filippo il figlio ami d'amore... / materno.”. Quello del sovrano è un discorso basato sulla finzione: Filippo obbliga Isabella ad essere giudice del figlio adottivo Carlo, “io voglio / giudice te del mio figliuol...”, il quale è sospettato di tradimento ai danni della corona di Spagna, poiché nel cuore di Isabella “non cape il madrignal talento, / né il cieco amor senti di madre”. Isabella, così, che ritiene Carlo “assai men reo;… / anzi impossibil par, che in questo il sia”, involontariamente dimostra tutto il suo amore per il figlio di Filippo; Carlo le sta a cuore e lei fa in modo che padre e figlio risolvano la vicenda parlando. La situazione sembra così risolta: Filippo ha perdonato Carlo.

Il tiranno però, ha ottenuto quello che voleva dalla conversazione con Carlo e Isabella: ha portato i due a palesare inconsapevolmente i forti sentimenti che li legano. Nell’atto III vediamo, così, svolgersi il consiglio in cui Filippo delibera la morte del figlio con l’accusa di tentato omicidio ai danni del re.

La tragedia è giunta ormai al termine: il destino dell’innocente sta per compiersi, con il sacrificio finale. Carlo, una figura troppo pura per potersi ribellare al proprio destino che ben conosce, non tenta neppure una qualche opposizione alle catene.

 

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