Il gioiello di Vangadizza

Come in un lungo viaggio a ritroso nel tempo, ci rechiamo nelle terre di Vangadizza, che ora attualmente corrisponde solo a Badia Polesine, provincia di Rovigo.
Il percorso effettuato da Padova a Badia ha un altro “sapore”: pur essendoci recati svariate volte a Rovigo e Ferrara, la sensazione delle terre badiaciensi e zone limitrofe è simile al viaggio in direzione di Modena.
Anche il tempo sembra essersi dilatato.
Scopriremo alla fine dei viaggi, che il collegamento con Modena non è solo una sensazione.


La genesi
A Badia ci rechiamo in visita a quello che resta del monastero di Vangadizza, uno dei quattro più antichi in Italia, come pure quello di Nonantola (provincia di Modena).
Abbiamo sempre un certo timore quando ci rechiamo in un monastero: non sia mai cosa aspettarsi, ed è certo che i monasteri furono luoghi di potere, e quindi di intrighi.
In fondo, il Mostardi è morto nella biblioteca del monastero benedettino di Ferrara, mentre stava scrivendo un secondo libro, circa 30-40 anni fa; dopo essere stati a Nonantola ci è venuta una forma influenzale improvvisa, esplosa all’interno della chiesa stessa.
La via per il monastero è tappezzata di locandine del film in visione: per la precisione trattasi del film “l’esorcista: la genesi”. Che sia un indizio?
Coraggiosamente proseguiamo ed entriamo nel cortile dell’abbazia: la costruzione è immensa, monumentale, e semideserta; vi sono varie targhette con nomi di associazioni, domiciliate presso i locali (ass. alpini, anziani, ass. culturale, l’archivio ….).
Entriamo in quello che era l’antico chiostro dei monaci, con il pozzo al centro: si vede chiaramente che la parte è antica, ancora conservata in solida pietra.
Da una porticina semiaperta notiamo scavi effettuati di recente, che mostrano le fondamenta di qualche antica costruzione.
Casualmente incontriamo il geometra comunale, con un aiutante, in procinto di prelevare le ultime misure dell’intero edificio.
Apprendiamo che l’abbazia, di proprietà comunale, dovrà essere ristrutturata, almeno parzialmente, e che si è dovuto fare adeguata mappatura, poiché molti documenti non sono reperibili. In particolare, dopo la soppressione napoleonica, non si sa che fine abbiano fatto le piantine originarie dei monaci. Così molti lavori hanno dovuto essere eseguiti ex novo.
Il geometra, dopo varie insistenze, ci lascia guardare qualche locale, in cui sta effettuando le misurazioni.
Il complesso è veramente vasto, ci saranno circa 36 stanze, alcune antiche, altre aggiunte in seguito, con fregi e decorazioni del soffitto che ricalcano lo stile francese di inizio 1900. Lo stato di degrado ed abbandono è notevole: vi sono pezzi di soffitto sgretolato e cadente.
Sono soffitti che avranno al massimo 100 anni, composti da sottili tubi lignei (tipo bambù, ma meno resistente), ricoperti da uno strato di cemento, e poi dipinti e decorati; questi soffitti avevano l’obiettivo di formare un’intercapedine tra il tetto esterno e la stanza interna, per un maggiore isolamento dal freddo.
Tali soffitti non erano molto resistenti, ed avevano il brutto inconveniente di ospitare scorribande di topi, e di ogni altro animale possa vivere in simili condizioni.
I locali che ospitano l’associazione della forze alleate (per intenderci, quelle della seconda guerra mondiale), sono in condizioni più vivibili.
Il responsabile introduce il geometra nei locali, mentre noi ci limitiamo a guardare le riviste in entrata.
Anche i locali dell’archivio, visitati i giorni successivi, sono in condizioni più stabili.
Il giardino dell’abbazia è ancora molto bello, con grandi magnolie ed i resti di una piscina, ora ricoperta.
Quello che resta della grande Vangadizza è un forte senso di desolazione: ci chiediamo come mai posti così importanti siano caduti in un simile stato di degrado. Ingenuamente, ed erroneamente, supponiamo che dopo la cacciata dei frati, nessuno se ne sia preso cura, anche se non ci spieghiamo la presenza di quei soffitti sgretolati di gusto francese, sicuramente molto più recenti di fine 1700.
Dal giardino dell’abbazia si intravedono due sarcofaghi, posti in una piazzetta, a ridosso del cancello, con alle spalle la torre.
Sono le tombe di Adalberto Azzo II e della moglie Cunizza, ovviamente senza corpi. Gli Estensi erano molto legati alla Vangadizza, e come vedremo nella trattazione della sua storia, donarono cospicui beni e privilegi, e poi vollero esservi seppelliti.
Infatti, esternamente, a fianco di un sarcofago vi è la scritta marmorea, da parte di un club di Ferrara, in cui si rende omaggio ad Adalberto Azzo II ed alla moglie Cunizza di Altdorf, che generarono sia la stirpe destinata a regnare in Italia, come duchi e signori di Este, Ferrara, Modena e Reggio Emilia, sia la stirpe degli Hannover e degli attuali discendenti dei regnanti inglesi.
Subito non diamo particolare importanza alla targa.
Ci sembra pure strano che i ferraresi vi abbiano ve la abbiano apposta, perché siamo comunque in Veneto, a sarebbe bene che qualche volta le targhe le apponessero chi legittimamente ci vive, senza nulla togliere alla cultura ed intraprendenza ferrarese.
Ci viene in aiuto il geometra, secondo il quale, dalla testimonianza di un ingegnere badiacense, ogni anno la regina madre della casa inglese faceva pervenire a Badia Polesine, davanti ai due sarcofaghi, un grande mazzo di rose rosse, in onore degli antenati.
La regina madre era quella signora anziana, centenaria, molto arzilla, morta qualche anno fa, e madre dell’attuale regina inglese.
Fa una certa impressione ritrovare, in Veneto, nel rodigino, in un’antica abbazia semidistrutta,  la genesi di antiche stirpi, ancora esistenti.
Già, la genesi, come il sottotitolo impresso sulla locandina del film dell’esorcista, che ci aveva accolto al nostro arrivo. Adesso ci manca solo la croce


Il custode di Vangadizza
Il geometra ci fa un’altra rivelazione: si dice che nell’abbazia vi fosse un preziosissimo gioiello, una pietra esagonale incastonata nel pozzo, al centro del chiostro, e che sia sparita circa 50 anni fa, quando i proprietari francesi se ne andarono e restituirono la tenuta all’Italia.
Depositario di queste informazioni è l’ex-custode, Sergio, che è ancora residente nell’abbazia, assieme al suo assistente/infermiere, un moldavo di 45 anni.
Ci rechiamo quindi dal signor Sergio, che ha circa 83 anni, non può muoversi dal letto, ma di mente è molto lucido; il signore moldavo gli fa assistenza da circa tre anni: sono gli ultimi residenti dell’antico monastero, anche se la loro dimora si trova in un’ala di costruzione abbastanza recente.
Abbiamo pure trovato una croce: sotto la porta della casa di Sergio c’è una grande croce, alta circa un metro e venti, di recente fabbricazione, e pure sulla porta, vicino al campanello, ve ne è disegnata una con la vernice in spray.
Che siano i postumi della vita di monastero?
Sergio è molto contento di rendere testimonianza: ci racconta che più di 50 anni fa tutta la costruzione era di proprietà della contessa d’Espagnac, una nobile parigina che vi veniva a trascorrere le vacanze di agosto. Le stanze erano finemente arredate, con oggetti, mobili di valore, strumenti musicali… insomma una piccola reggia, una piccola Versailles; gli stessi fregi sui soffitti erano dorati. (In effetti parte del soffitto rimasto riporta i motivi e le decorazioni descritte dal signor Sergio).
Sergio coltivava l’orto, così quando le ricche signore arrivavano, trovavano pure la verdura fresca.
Tutto era pieno di bellissime rose: ancora oggi ve ne sono rimaste, poche, ma molto belle, come quelle gialle, intarsiate di rosso.
L’abbazia era aperta al pubblico dalla primavera fino a novembre, e precisamente fino al 4 novembre, e richiamava un nutrito numero di turisti, da ogni parte del mondo. A volte c’erano intere scolaresche, spesso vi si recavano turisti inglesi.
Un bel giorno gli d’Espagnac cedettero la tenuta ai loro nobili cugini, i conti De Rostolan, sempre parigini, perciò entrambi continuarono ad usufruire della villa.
Una notte un convoglio carico e stipato varcò furtivamente il cancello dell’abbazia, furono chiamati anche i carabinieri, ma del prezioso carico fu recuperato ben poco.
In pratica, alcune persone, prima che l’abbazia fosse restituita all’Italia, fecero sparire tutto quello che era presente.
Qualcuno sostiene che siano stati i nobili parigini, altri che fossero stati la servitù delle nobildonne, magari senza che loro lo sapessero.
Qualcuno afferma che sia stata fermata una delle contesse con lo stemma dell’abbazia in mano, mentre tentava di trafugarlo.
Il signor Sergio, diplomaticamente, non sa nulla: era notte, nessuno ha visto le persone in faccia, ma sicuramente il furto era stato ben orchestrato, perché è stata portata via tanta roba in poco tempo.
Ciò che dispiace al signor Sergio è la sparizione di un grossa pietra, di forma esagonale, dai colori verde rossastro, incastonata nell’antico pozzo, e scomparsa in quella notte. Egli stesso aveva provato a toglierla, per curiosità, ma era stata sempre ben piantata, e doveva essere ben piantata, per non essere scomparsa prima.
Più di qualche persona è convinta che questa pietra si trovi ancora all’interno del monastero, perché era troppo pericoloso rubarla in quella notte, perciò si pensa che l’abbiano nascosta.
Il moldavo sostiene di ascoltare quello che racconta Sergio, ma non ci crede tanto; ad un certo punto della conversazione, si infervora, ed esclama che tanto, i ricercatori dell’Università di Padova, che in estate avevano effettuato degli scavi in Vangadizza, anche se erano laureati, non sapevano dove e come cercare.
A questo punto interviene un altro signore, amico del moldavo, che riporta la tesi del Clero locale, secondo la quale la pietra esisteva veramente, e veniva spostata spesso, per essere ammirata o altro, e che qualcuno, forse per difenderla, l’abbia gettata da qualche parte.
Il moldavo, infermiere di Sergio, controbatte che sono tutte storie, perché se fosse stato così facile estrarla, lo avrebbe potuto fare anche Sergio.
Noi ascoltavamo, prima ridendoci sopra, poi un po’ preoccupati: nessuno dice di crederci seriamente, però i nostri moldavi hanno l’aria di saperla lunga e di essersi documentati, e probabilmente non solo loro.
Mi viene pure alla mente una della tante strane teorie sul Sacro Graal: secondo alcuni sarebbe una grossa pietra di forma esagonale, caduta sulla terra, quando vi è stato precipitato il demonio, in seguito alla ribellione a Dio. Questa pietra avrebbe scacciato il demonio.
Insomma, ci sarebbe da scrivere certamente un romanzo; se poi ci aggiungiamo che Vangadizza è la genesi simbolica delle maggiori stirpi europee, ci aggiungiamo un po’ di spionaggio russo, un intrigo con Londra, le varie associazioni ospitate in Vangadizza, un coltello a serramanico nuovo di zecca rinvenuto dal geometra sul cortile..................
Se qualcuno scrivesse un libro prendendo spunto da queste nostre idee, è pregato di regalarcelo, e di fornirci gli interessi dello 0,8% sulle vendite!

Alla fine il moldavo, dimostrandosi uomo molto concreto, dice che il suo “gioiello” è il signor Sergio, con il quale vive, ci va d’accordo, gli fa assistenza, ed è stipendiato.
Sergio, dal canto suo, non solo è molto sveglio ma pure particolarmente gentile: alle insistenti domande del moldavo riguardo la nostra età, Sergio controbatte che non sta bene chiedere l’età alle persone, ed è vergognoso chiederlo ad una donna.
Mi sento quasi trattata come una contessa, e me ne vado contenta, promettendomi di non indagare sul gioiello, perché c’è da perdere l’uso della ragione.
Quello che maggiormente sconvolge è che nel giro di soli 50 anni una piccola reggia sia decaduta, sia così abbandonata, sporca e spoglia, territorio di piccioni, topi e fantasmi, salvo le stanze preservate, destinate alle associazioni.
Non è detto che si debba recuperare tutto: se non si riesce a mantenere decentemente un luogo, è meglio eliminare tutto, o salvarne solo un poco, e lasciare il rimanente destinato a parco. Questa è solo la nostra personale opinione, perché i luoghi abbandonati danno un senso di desolazione, come se vi risiedessero le peggiori ispirazioni.
Siamo contenti nell’apprendere che il comune lo voglia ristrutturare.



Vangadizza e Modena: l’inizio e la fine
In seguito alla dominazione napoleonica, molti beni italiani vengono svenduti ai francesi.
Il primo conte d’Espagnac, oltre a Vangadizza, nel 1797 aveva anche acquistato il monastero di San Benedetto Po’ in provincia di Mantova, ed una villa di campagna degli Estensi a Sassuolo, in provincia di Modena. (Ma l'aristrocrazia francese non era stata ghigliottinata?).
Nel 1890 il conte Onorato d’Espagnac invia molto materiale dell’abbazia di Vangadizza all’archivio di stato di Modena, perché un suo amico e storico estense, conte Luigi Valdrighi, gli fa notare che Vangadizza è bene di antichissima fondazione estense.
Così i danni che Napoleone non era riuscito a fare, come espropriazione di archivi, dati e memoria storica, li ha fatti questo bravo storico, e conte, per giunta.
Un ulteriore danno è compiuto nel 1917, quando Pietro Venturelli, zelante ingegnere di Sassuolo ed amministratore dei beni italiani degli Espagnac, consegna all’archivio di Modena una nuova donazione.
Nel 1839 gli Espagnac depositano vari atti notarili presso l’archivio notarile di Rovigo: almeno questi restano in territorio rodigino.
Senza contare che molti incartamenti furono ceduti, venduti, prestati, rubati nel corso del tempo: anche Liebnitz, filosofo, ne fu interessato, e gli Espagnac entrarono in contesa con varie persone che se ne erano appropriati indebitamente.
Oltre a questo, dopo l’alienazione definitiva del 1960, furono trovati grandi pacchi di materiale dal 1600 al 1800, recante etichette dattiloscritte del tipo “1950: da scartare”. Diciamo che secondo questi solerti signori, lo scarto era enorme.

Ecco il collegamento con Modena e la sensazione di percorrere le strade di Modena: quasi tutta la documentazione della Vangadizza ha preso strade modenesi.
Lo stesso libro delle cronache dei monaci, che abbiamo letto in archivio, non offre molte informazioni: è scritto a mano, in italiano, senza recare data della trascrizione, riportando fatti senza uno stretto ordine cronologico.
Ci chiedevamo perché non avessero le cronache originali: in qualche modo il latino l’avremmo interpretato, ed i punti troppo oscuri li avremmo ricopiati. Chissà dove sono le cronache originali.

Da sottolineare che se Vangadizza rappresenta la genesi degli Estensi, almeno simbolicamente, nelle figure dei capostipiti di varie casate, Modena ne rappresenta simbolicamente la fine, con la cacciata degli Estensi, dopo le guerre risorgimentali.
Senza contare che Modena, con l’unità d’Italia, istintivamente, era proiettata verso il futuro, verso la novità, e pronta a sganciarsi da qualunque anticaglia: questo è atteggiamento comprensibile. 
I modenesi, terminata la prima guerra mondiale, hanno ripreso la loro definitiva liberazione da ogni signoria antica, distruggendo nel 1920 gli ultimi bastioni della cinta muraria estense; ai parchi recenti preferiscono attribuire i nomi di città russe o dell’Europa dell’Est.
Nel 1890, con gli Estensi già esiliati, inviare gli incartamenti di Vangadizza, l’origine, nel luogo di fine, di cacciata, sembra anomalo.
Può avere vari significati: certamente non è per rendere omaggio a Modena né agli Estensi.


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