Salarola e
Gemola, i luoghi di Beatrice
1. Salarola "rocca della pietà"
Tra pievi
e monasteri, eremi e oratori, i luoghi religiosi che la fede e la pietà
cristiana hanno disseminato nel territorio di Baone, sia nel piano che
nel monte, hanno una densità che nulla ha da invidiare ad altre aree
degli Euganei, neppure a quelle che ospitano insediamenti religiosi di
gran nome. Di alcuni, come la chiesa di S. Fermo a Rivadolmo,
il ricordo è tramandato solo dalle antiche carte degli archivi. Di
altri non restano che poche tracce: si pensi alla pieve di S.
Fidenzio e alla vicina casa dell'eremita sul monte
di Baone, o alla chiesa di S. Filippo Neri e all'eremo
del monte Cero, i cui segni sono oggi sepolti sotto una selva di
antenne. Di altri ci è giunta solo una pallida ombra: è il caso del monastero
degli Agostiniani di Terralba e del monastero di S.
Margherita del Salarola. Altri, per fortuna, sono stati oggetto
ininterrottamente di lavori di manutenzione, di ampliamento e di
abbellimento, oppure - il pensiero va al complesso monumentale del
Gemola - sono stati salvati con provvidenziali e accurati
interventi di restauro. Tutti questi luoghi aspettano ancora che si
scavi nella loro passate vicende, che non riguardano soltanto un luogo
circoscritto, ma, in molti casi, costituiscono una preziosa tessera di
una storia più vasta. Sotto questo aspetto i più suggestivi sono Salarola
e Gemola, perché la loro storia è indissolubilmente legata
alla straordinaria vicenda spirituale della beata Beatrice d'Este,
la figlia del marchese Azzo VI, che fu celebrata da molti
trovatori per la sua bellezza e la sua virtù.
Salarola, un cocuzzolo posto tra il monte Cero
e il monte Castello, si raggiunge in pochi minuti percorrendo
la strada che dalla piazzetta di Calaone scende verso Valle
S. Giorgio. Oggi, sulla sua vetta soltanto due imponenti pilastri,
del tutto sproporzionati rispetto agli edifici superstiti, testimoniano
la passata grandezza.
Qui nel 1179 il prete Garsendonio eresse una chiesa dedicata a S.
Margherita. La prima pietra gli fu consegnata dal vescovo padovano
Gerardo a cui, come al suo signore feudale, il marchese Obizzo
d'Este aveva restituito quattro campi "in apice montis qui
vocatur Salarola" (sulla vetta del monte chiamato Salarola).
Sembra che già prima della fondazione della chiesa si fosse insediata
in quel luogo una comunità di pie donne, inizialmente priva di
struttura gerarchica e dedita ad attività caritative. Il suo
inserimento nell'alveo del monachesimo femminile avvenne nella prima
metà del secolo XIII con l'ingresso nella congregazione dei benedettini
albi riformati.
Appunto a Salarola trovò il suo primo rifugio Beatrice nel
1221, quando decise di abbandonare la vita di corte, o per usare le
espressioni di Alberto di Santo Spirito, il suo primo biografo, "di
fuggire la società mondana e le attrazioni peccaminose della corte, e
di associarsi umilmente, come in un porto di pace, a persone che
cercavano e temevano Dio". La vetta di Salarola fu per la
nobildonna la rocca della pietà dove - è ancora Alberto di Santo
Spirito la nostra fonte - la preziosa perla (margaritam in
latino) fu accolta con "gioia impetuosa" dalle suore del monastero
di S. Margherita. Qui il soggiorno di Beatrice ebbe breve durata.
E se ne comprende il motivo alzando lo sguardo: troppo vicine sono le
vette del monte Castello e del monte Cero dove si
ergevano due castelli dei marchesi d'Este. Beatrice dovette sentirsi
strettamente sorvegliata, quasi oppressa, e non stupisce quindi che
dopo appena un anno e mezzo abbia deciso di abbandonare Salarola
per un luogo più appartato e tranquillo. Abbandonato da Beatrice, il monastero
di S. Margherita continuò ad avere vita autonoma fino al 1459,
quando papa Pio II lo unì a quello padovano di S. Mattia, a condizione
che vi restassero delle monache per la recita dell'ufficio divino e che
una parte delle entrate fosse destinata al restauro degli edifici.
2. Salarola "vaso di sale"
Nel settembre del 1487 il monastero fu visitato dal vescovo padovano
Pietro Barozzi, che lo trovò in condizioni assai precarie. La comunità
era talmente esigua che il vescovo dovette raccomandare che ne
facessero parte almeno quattro monache in modo che nella recita
dell'ufficio divino ci fossero due monache per parte. La preoccupazione
del vescovo per la salute spirituale della piccola comunità si
manifestò anche nella curiosa e, a dir poco, fantasiosa dissertazione
in volgare sul significato del toponimo Salarola. Ecco, tradotto
nell'italiano di oggi, il passo più significativo: "Il nome
Salarola in volgare significa quel vaso nel quale si conserva il sale
per gli usi quotidiani. E per sale si intende la sapienza, che è
condimento di tutte le cose che attengono la vita retta, come il sale è
il condimento dei cibi. Per cui ogni volta che rivolgono la mente al
nome del luogo e pensano che sono in Salarola, cioè nel vaso del sale
(pensano che le sono servade in Sallaruola, zoè nel vaso del sal) ,
esse considerino che sono sale, che è salato per il sapore della
sapienza (è salso per el savor de la sapiencia), e per altri può essere
un condimento vivere con il loro esempio, e [la sapienza] libera dalla
corruzione degli animi, così come il sale dalla corruzione della carne,
ed eccita lo slancio verso quei luoghi del regno celeste che stanno
sopra il monastero".
Le premurose raccomandazioni del vescovo non riuscirono a imprimere
nuova vitalità al monastero, per cui nel 1572 il vescovo Nicolò
Ormaneto ordinò alle monache di abbandonare definitivamente Salarola
e di trasferirsi a S. Mattia di Padova. Nel 1582 le monache vendettero
il monastero e la chiesa con circa settanta campi al mercante veneziano
Pietro Airoldi per 8.000 ducati. Nei secoli seguenti il complesso
religioso fu ridotto ad abitazioni coloniche. Intorno alla metà
dell'Ottocento un incendio fece "crollare - sono parole del
grande archeologo estense Alessandro Prosdocimi - del tutto il
vetusto monastero". I pochi edifici superstiti furono adattati a
povere abitazioni e tali sono rimasti fino ai nostri giorni.
"Il luogo è una piccola oasi pittoresca (ma quanto triste la
miserevole indigenza degli abituri dei pochi superstiti coloni!)":
così Salarola apparve una trentina di anni fa allo studioso Emilio
Menegazzo, che visitò anche la Fontana delle Monache
raggiungibile per un ombroso sentiero: "Vi crescono le ginestre e
vi nidificano gli usignoli e le capinere. Ma la nicchia che copriva e
conservava fresche le acque, segnata ancora sulla parete di fondo da
tre sbiadite croci monastiche, non ha più nulla da proteggere, perché,
non si sa per quale insipienza o ragione, il fondo è stato otturato con
grossolano materiale pietroso: e la vena si è aperta più su un piccolo
varco, e ancora gorgoglia e disseta la fauna sopravvissuta alla strage
delle doppiette e degli insetticidi".
Oggi le costruzioni fatiscenti che sorgono sul sito dell'antico
monastero attendono di essere recuperate con un intervento di restauro
che ne rispetti la nobile storia.
3. Il monte Gemola
È tempo di tornare a Beatrice, per seguirla nella sua fuga
da Salarola. Ce la racconta con ricchezza di particolari il suo
primo biografo: "In conformità con il disegno della divina
Provvidenza, decise di salire su un monte molto alto, che è chiamato
Gemola, in modo che come gemma luminosissima diffondesse i raggi della
sua luce e della sua santità in lungo e in largo per illuminare coloro
che stavano nelle tenebre e nel l'ombra della morte, in special modo le
donne nobili. Arrivato il giorno opportuno per portare a compimento
l'agognato proposito, chiamò a sé degli uomini religiosi e onesti
perché andassero con lei. Prese altresì come compagne di viaggio la
badessa del monastero di Salarola e parecchie altre sorelle. Anche le
due contesse, la madre e la moglie del fratello, la seguirono
devotamente e umilmente assieme a quelli del loro contado. E lo fecero
davvero con umiltà, giacché per rispetto verso Beatrice ciascuna di
loro fece il viaggio a piedi senza alcun mezzo di trasporto. Certamente
in ciò non ebbe compassione per sé né per gli altri né avrebbe
tollerato che si facesse altrimenti, per quanto la salita fosse
difficile, ardua e molto faticosa, specialmente per donne nobili,
delicate e impreparate a simili fatiche.
E così procedendo con l'animo in festa ed esultando nello Spirito
Santo, giunsero finalmente al luogo stabilito. Girarono per alcune
casupole che sorgevano là, ma le trovarono completamente vuote, tanto
che non era facile trovare, al di fuori del terreno, un luogo dove
potessero sdraiarsi o sedere. In realtà alcuni frati, tutt'altro che
devoti e rispettabili, pur non avendo alcun diritto su quelle
costruzioni, le avevano svuotate e spogliate di ogni arredo utile e di
ogni suppellettile necessaria".
Beatrice, dunque, si stabilì sulla cima del Gemola,
dove c'erano già degli edifici. Se ne era servita una comunità
religiosa maschile presente colà da tempo. C'era anche la chiesa di
S. Giovanni Battista, che era stata fondata nel 1215 da Martino di
Milano. In quell'epoca la comunità maschile non godeva buona salute. Lo
attesta l'atto del l'aprile 1221 con il quale i frati del Gemola
si sottomisero al vescovo di Padova cedendogli ogni diritto su quel
luogo. Fu proprio la crisi della comunità maschile ad indurre Beatrice
a stabilirsi sul Gemola e a fondarvi una comunità religiosa
femminile, costituita prevalentemente da donne di estrazione nobile.
"Essendo dunque sorta la fama della trasformazione che di lei aveva
fatto la destra dell'Altissimo, - anche queste sono parole del suo
primo biografo - e diffondendosi per numerose regioni città e
castelli, molte nobildonne trovarono rifugio nella fragranza dei suoi
profumi sul Gemola, dopo aver rifiutato lo sfarzo, le frivolezze, gli
onori, le ricchezze, le lusinghe mondane e i piaceri della carne.
E così, grazie alla moltiplicazione delle gemme, sul monte Gemola
rifulse da ogni parte una luce più forte e più vasta. Dieci di quelle
donne erano figlie di conti. Le altre erano in gran parte figlie di
nobili ricchi e potenti".
Sul Gemola la nobildonna estense trascorse gli ultimi cinque anni della
sua breve vita nella preghiera e nella penitenza, "cercando nelle
notti il suo amato". Alberto di S. Spirito racconta che la sua
purificazione fu testimoniata dal seguente prodigio. Una colomba
candidissima si posò presso di lei e la fissò nel volto. Come se fosse
una messaggera di Cristo, la chiamò con queste parole: "Alzati,
affrettati, amica mia, colomba mia, mia bella, e vieni. Vieni, mia
prediletta, e io porrò su di te il mio trono, perché desiderai la tua
bellezza". Poi scomparve. Qualche giorno dopo Beatrice morì. Era
il 10 maggio 1226.
Il suo corpo fu sepolto nel monastero, in un sarcofago su cui fu inciso
un epitaffio, che è considerato una rara testimonianza della poesia
latina prodotta nell'area padana.
Dopo la morte
di Beatrice il cenobio del Gemola
continuò a godere grande prestigio e fu arricchito da lasciti e
donazioni. Vi si rifugiò anche una nipote della fondatrice dopo la
prematura scomparsa del marito Andrea II re d'Ungheria (1235). Si
chiamava anche lei Beatrice ed era figlia del marchese Aldobrandino.
Alla sua morte (1244 o 1245) fu sepolta accanto alla zia e fu oggetto
di culto locale. In due occasioni le monache si trovarono nella
necessità di abbandonare temporaneamente il Gemola: nel 1413
in occasione di un'incursione di Ungari e nel 1509 al tempo
dell'invasione dei territori veneti da parte degli eserciti della lega
di Cambrai.
Nel frattempo erano tornati i frati. Nella sua opera dedicata a
Beatrice l'abate settecentesco Giovanni Brunacci scrisse: "A
Gemmola precisamente nel monasterio di San Giovanni furono frati, col
nome di conversi, in quello dimoranti santamente colla nostra Santa,
colle monache di lei. Questo monasterio di Zemola fu così doppio, come
tanti altri d'antichità: ove erano frati e suore, l'uno e l'altro sesso
in abito di religione".
Alla fine del Quattrocento il monastero versava in condizioni
economiche assai difficili. Il vescovo Barozzi nel corso della sua
visita trovò che le 17 monache presenti pativano la fame.
Intanto si era diffusa la fama degli effetti miracolosi prodotti dalle
spoglie di Beatrice. Si narrava che il suo corpo emanasse
sudore e si rivoltasse nella tomba. Alla fine del Quattrocento lo
storico ferrarese Pellegrino Prisciani scriveva: "Quando si
annuncia qualcosa di sinistro per la sua illustrissima Casa d'Este,
beata Beatrice freme con tanto fragore e si rivolta nel sepolcro con
tanto strepito che le suore pensano che stiano per cadere non solo la
chiesa e il monastero ma il monte stesso di Calaone. Essendo stata una
volta aperta la tomba si vide che giaceva sul lato sinistro, mentre
prima stava sul lato destro ed il suo corpo ancora intatto era madido
di sudore".
Nel 1578, in seguito ad un decreto
papale, le monache del Gemola
dovettero abbandonare il convento e trasferirsi a S. Sofia di Padova,
dove portarono anche il sarcofago con le spoglie di Beatrice I.
Il 12 novembre, cantando inni e salmi, le monache accompagnarono il
corpo di Beatrice I fino alla porta del monastero.
Poi quattro uomini lo portarono fino alla chiesa di Cinto con
un corteo di quattro monaci, quattro monache e due converse. Il giorno
dopo fu caricato su una barca, che, seguendo il corso del Bisatto,
raggiunse Padova a notte inoltrata. Nell'arco di poche settimane tutte
le monache lasciarono il Gemola. Il gruppo più consistente
partì il 23 novembre. Imbarcatesi a Cinto su due
"burchielli", rifecero lo stesso tragitto del corpo di Beatrice I.
4. Da monastero a villa
Dopo il trasferimento delle monache a Padova, per il monastero del Gemola
iniziò un rapido processo di decadenza. Nell'estate del 1630, in
occasione della peste, si progettò di erigervi un lazzaretto per i
soldati fuggiaschi, ma l'idea fu subito abbandonata. Già a metà del
Seicento la chiesa era in condizioni tali da non poter essere più
ufficiata. Eppure c'erano quattro altari con tre immagini consunte dal
tempo.
Presso l'altare maggiore c'era il confessionale con le
grate di ferro spezzate. Il coro delle monache era senza sedie. In
condizioni peggiori versava il monastero. Del dormitorio non restava in
piedi che una piccola cella, forse quella di Beatrice I. In una camera
si
distinguevano ancora alcune immagini molto rozze della Vergine, di S.
Giovanni Battista, di S. Benedetto e di Beata Beatrice I. Vi era in
compenso una bella cisterna con acqua buona e una "caneva" molto ampia,
nella quale gli affittuali del luogo riponevano il vino. Intorno
alla metà del secolo il luogo fu acquistato dal mercante veneziano
Francesco Roberti che nel 1657 provvide al restauro della chiesa ormai
ridotta in condizioni rovinose. Ciò consentì che venisse ancora
officiata.
Le iniziative di Roberti suscitarono preoccupazioni tra gli abitanti di
Val di Sopra e Val di Sotto, che
cominciarono a temere per la sopravvivenza del loro antico centro
religioso, la chiesa di S. Giorgio.
Nell'ottobre del 1670 in occasione della visita pastorale di Gregorio
Barbarigo i "popoli" di Val di Sopra e Val di Sotto
stesero una supplica invocando la difesa della chiesa parrocchiale
di S. Giorgio dalle "pretensioni" del nuovo proprietario del Gemola
a favore della chiesa di S. Giovanni Battista, che era
officiata da Girolamo Rizzetti con la celebrazione della messa ogni
giorno festivo. Il Roberti - sostenevano gli autori della supplica
- pretendeva che il suo cappellano celebrasse "in Zemola" il dì di
Pasqua e il Natale, che dispensasse le ceneri il primo giorno di
quaresima, che impartisse la benedizione agli infermi e infine che
annunciasse le tasse dall'altare. Concedere questo - avvertivano gli
abitanti di Valle - avrebbe significato "la total rovina" della chiesa
parrocchiale e inoltre avrebbe indotto l'agente del cardinale Ottoboni
a chiedere le stesse facoltà per la chiesa di San Biagio, ubicata a Val
di Sopra. Per rafforzare la richiesta l'arciprete Anastasio Damiani
allegava un nota da cui risultava che sul Gemola vivevano appena 28
anime.
I timori si dimostrarono infondati. Il Gemola non sarebbe più
tornato ad essere un centro di vita religiosa. Anzi, rischiava di
vedere cancellata ogni traccia della vicenda spirituale di cui era
stato teatro. Una fu salvata fortunosamente all'inizio del ‘700 dal
canonico estense Paolo Perotti, che, in occasione di una puntata sul Gemola,
scoprì che una povera donna del luogo per lavare i panni si serviva di una
tavola su cui era dipinta l'immagine di Beatrice: era la più
antica immagine della beata, databile al secolo XV. Il canonico
acquistò il dipinto e lo donò al Duomo estense, nelle cui sagrestie
oggi si conserva.
Nel Settecento la cima del Gemola passò nelle mani della famiglia
Bregolini: un Bartolomeo Bregolini all'inizio del secolo diede un nuovo
assetto al luogo spianando il terreno e ricoprendo le rocce con la
terra.
A metà Ottocento erano rimasti pochi i segni della vicenda religiosa
del luogo. "Ora il santuario è deserto, - si legge in una
guida dell'epoca - e non trovi un contadino, non una pia donna che
ti mostri i luoghi testimonii un giorno di tanta virtù".
Beata Beatrice ritornò sul Gemola nel
maggio del 1957. Si trattò di una breve sosta durante la traslazione
delle sue spoglie dalla chiesa padovana di S. Sofia al Duomo di S.
Tecla di Este, dove oggi sono custodite.
All'inizio
del nostro secolo sul luogo un tempo occupato dal cimitero
fu costruita la barchessa che conferì a quanto restava dell'antico
convento le caratteristiche di un'azienda agricola.
Attualmente il complesso monumentale del Gemola è di
proprietà della Provincia di Padova, che ne ha fatto uno dei perni del
proprio sistema museale, collocandovi una mostra
permanente sulla flora e sulla fauna dei Colli Euganei. Nonostante
le trasformazioni, antiche e recenti, il luogo conserva ancora una
suggestiva aura di raccoglimento mistico.
Note:
Notizie aggiornate sulle origini del monastero di S. Margherita di
Salarola e del monastero del Gemola si ricavano da C. Polizzi, Alle
origini del monastero di S. Giovanni Battista del Gemola, "Atti e
memorie dell'Accademia patavina di Scienze lettere ed arti", parte III:
103 (1990-91), pp. 173-200. Su numerosi luoghi religiosi di Baone si
sofferma anche E Franceschetti, Baone e la sua antica pieve, Padova
1933.
La Vita B. Beatricis di Alberto di Santo Spirito è stata pubblicata da
G. Brunacci, Della B. Beatrice vita antichissima per la prima volta
pubblicata con dissertazioni, Padova 1767.
Per un inquadramento della figura di Beatrice nella storia della poesia
rinvio a G. Folena, Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e
nelle città venete, in Storia della cultura veneta, Vicenza, Neri
Pozza, 1976, pp. 481-492. Ma si veda anche G. Folena, Beata Beatrix, in
Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova 1990.
La vicenda religiosa di Beatrice è delineata in A. Rigon, La santa
nobile, Beatrice d'Este (1226) e il suo primo biografo, in Viridarium
floridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin,
Padova 1984.
Per la visita del vescovo Barozzi a Salarola cfr. E. Menegazzo, Di
alcune visite del vescovo di Padova Pietro Barozzi ai monasteri
femminili della diocesi e particolarmente a quello di S. Margherita di
Salarola, "Atti e memorie dell'Accademia patavina di Scienze lettere ed
arti", parte III: 83 (1970-71), pp. 287-304, da cui ho ricavato il
testo dell'omelia del Barozzi. La notizia dell'incendio di Salarola è
in A. Prosdocimi, Baone. Memorie storiche, Este 1876, p. 11.
Sulla contemporanea presenza di monache e conversi sul Gemola si veda
la già citata opera di Brunacci alle pagine 74 e 75. Il passo di
Pellegrino Prisciani è tratto da P. Balan, Memorie del la vita della
Beata Beatrice I d'Este, Venezia 1878.
I documenti sulle vicinie dei comuni di Val di Sotto e Val di Sopra
sono conservati presso l'Archivio Parrocchiale di Valle S. Giorgio. La
supplica degli abitanti di Val di Sotto e Val di Sopra è in ACM
Visitationes, XLI, c. 29, 32 e 33.
Sul progetto di trasformazione del monastero del Gemola in lazzaretto
si veda C. Ferrari, L'Ufficio della Sanità di Padova nella prima metà
del secolo XVII, Venezia 1909, p. 134. Molte informazioni sulla
decadenza degli edifici del monastero ho desunto da G. F. Tomasini,
Vita della B. Beatrice delle famiglia de Principi d'Este, Padova,
Stamperia Vidali, 1754. Per il ritrovamento della tavola che raffigura
la beata si veda infine G. Gambarin, Storia di un dipinto, "Famiglia
Estense", XXVII, n°4 (maggio 1982). Tra le numerose composizioni
poetiche ispirate alla presenza di Beatrice sul Gemola basterà qui
citare D. Roverini, Il monte Gemola e la Beatrice Estense, Padova,
Prospetini, 1865.
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