Beata Beatrice "Leggende Euganee"
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Fonte:pagine internet del Parco colli Euganei a sua volta tratto  da “Leggende Euganee” di Sellida Il varo

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Note
Una lontana mattina di maggio del 1193 si levò una brezza che faceva muovere i rami del pesco in fiore, davanti a una finestra aperta del castello Estense. Qualche petalo staccandosi vi entrava, così che la stanza di Sofia di Savoia, figlia di Umberto III il Santo, fu tutta fiorita di rosa.
In mezzo a quella festa di primavera, nacque Beatrice, dalle gote rosee come fiori di pesco, e dagli occhi azzurri come l’azzurro del cielo. Crebbe bella come il sole. Divenne alta e flessibile come un giunco. Né sua madre Sofia durò fatica per allevarla. Tutti nasciamo con le nostre tendenze e il cuore di Beatrice, come gli occhi, era sempre chinato verso i poverelli.
Anche il suo dolce sorriso era carità, quella che annulla la distanza fra il povero e il ricco e fa così bene. Quando Beatrice specchiava il suo bel viso nell’acqua, che scorrendo torno torno al castello lo divideva dai prati, dai boschi e dai poveri, le pareva di vedere, o vedeva proprio, l’immagine di un essere ultraterreno che le chiedeva il perché della sua vita. Era il riverbero dell’anima sua attraverso l’acqua verde. Il suo cervello, il suo cuore avevano già risposto che ella era nata per il cielo, ma al cielo si giunge per tante strade … La sua?…
Intanto a dieci anni sua madre Sofia la lasciò, ed ella comprese che la morte della mamma segna la solitudine del cuore. Fra la rudezza delle armi la Corte Estense, anche allora, sin dall’albeggiare, mostrava senso gentile di poesia. Trovatori accorrevano ad innalzare la vita quotidiana in una atmosfera di gentilezza. Giostre, tornei salutavano la primavera in fiore. A principi vittoriosi più di un dono offrirono le candide mani di Beatrice, che, pur vivendo nell’amor di Dio, non sdegnava queste cose mondane, perché facevano parte dei doveri del suo stato.
Frattanto nel buio dell’odio e della durezza allora imperanti, apparve un esile punto luminoso, lucciola incerta che andava ingrandendosi per attirare tutto a sé, come lampada ardente le farfalle; e la lucciola, diventata globo, irradiò amore sul mondo.
Amore per i miseri, amore per i peccatori, amore per l’uccellino che invoca il becchime, per il filo d’erba intirizzito dal freddo. Un cantico dell’amore universale, si levò sull’umanità tesa in agguato nell’odio. L’orecchio fine di Beatrice udì quel canto e l’anima sua che soffriva come di uno strappo, della contraddizione col mondo esterno, dopo un’attonita attesa, si fa esultante e sente d’aver trovata la luce. Beatrice, creatura di Dio, amò tutte le creature, con fervore, con gioia. Amò i colpevoli, i peccatori, i reietti, scorgendo in ognuno l’immagine di quel Cristo, che per redimerci era morto su un patibolo infame e amò gli animali selvaggi e gli animali innocenti, perché tutti usciti dall’Eterno Amore. Ella curò e tenne seco un agnellino trovato un giorno ferito in un cespuglio, tanto che la bestiola aveva presa l’abitudine di seguirla ovunque come un cagnolino, finché non ritornò guarito all’ovile. In una notte bianca di brina giunse al cuore di Beatrice un “Beh!” tremolante; si sporse dal verone e, veduto il suo agnellino che lo invocava, scalza com’era, scese e, passata attraverso le guardie e fra la sterpaglia che circondava il castello, scorse, invece dell’agnellino, una gran luce risplendente e nella luce le lettere J.C. Beatrice comprese e adorò il richiamo dell’Amato. A più di un regnante che aveva chiesto la sua ella aveva fatto rispondere ch’era ancora troppo giovane. Ottrone cantava versi dolcissimi, ma la sua bocca non aveva ancora osato chiedere nulla. Come incantevole quell’autunno fra i colli! Tutto pareva avvicinarlo alla felicità! Ottrone si fece coraggio e chiese la mano di Beatrice. Questa disse al fratello che le aveva comunicato la domanda, di sentirsi troppo giovane ancora, rimettendo il suo destino alla primavera successiva. Ottrone restò. Nel suo cuore inconsciamente penetrava qualche cosa di grande. Era la felicità che si avanzava? E vennero le prime brune che sospinsero la corte nel castello di Este. Freddo e gelo. Beatrice filava attentamente e nel filare le pareva che il filo allungandosi sempre più dovesse alla fine segnare il suo destino che nel risveglio della primavera si sarebbe compiuto.
E la primavera venne. Una primavera precoce con qualche cosa di dolce, di carezzevole che si spandeva nell’aria fra i colli vicini. Oramai Beatrice sapeva e mentre il fratello aspettava che ella facesse la sua scelta, già il suo cuore si era posato. Ad Ottrone, che l’amava veramente, un giorno d’aprile Beatrice fece conoscere che fra tre giorni avrebbe lasciato il castello per rinchiudersi nel monastero di Salarola. Una notte senza luna, la porticina del mastio si aprì cautamente e ne uscì Beatrice con una compagna; si arrestò un momento: i suoi occhi frugarono nelle tenebre quasi ella volesse portar con sé il paesaggio appena abbozzato dalla luce siderea.
Qualche lume in fondo sulla Rocca di Monselice, nido d’aquila, asilo di perseguitati. Provò come un colpo al cuore all’idea che mai più avrebbe rivisto i luoghi della sua infanzia. Perché anche i Santi amano, soffrono nel lasciare quello che amano. Le sue azzurre pupille dall’orizzonte lontano si trasportarono ad una figura che stava a pochi passi da lei. Lo intravide: Ottrone. Beatrice ebbe un momento d’esitanza, ma poi raccogliendosi al petto il mantello nero avanzò decisa nella notte. La strada era lunga fra sterpi e sassi e la fiaccola di Ottrone la illuminava; così procedettero. Giunti alla porta del convento, Beatrice staccò le mani dal petto per prendere il battente. Il mantello le cadde ed apparve vestita d’azzurro e con lo strascico lungo lungo. Allora Ottrone avanzandosi le cadde ai piedi. Con gesto lento Beatrice gli posò una mano sul capo e disse: “Che tu abbia sempre la felicità di Dio”. Il cancello si aprì; la compagna raccolse il manto, sostenne lo strascico e Beatrice entrò con le prime luci dell’alba. Pareva una regina. Gli occhi di Ottrone la videro ancora per molto tempo, dopo che ella era sparita. E sparì anche Ottrone dall’Italia.
Ma a Beatrice pareva che il rumore delle grandezze della terra giungesse a Salarola, insieme a quello delle armi e ai canti dei soldati, a distrarla dalle contemplazioni celesti; e un anno e mezzo dopo decise di fondare un convento sopra un monte più alto e isolato. Ella disse:”Gemerà là” e da allora il monte di chiama Gemola ed è la gemma degli Euganei.
Il fratello Azzo VII, compreso che quella era la volontà di Dio, non si oppose più, ve l’accompagnò in pieno giorno, seguita da un fastoso corteo di principi. Vestita questa volta di nero, ella giunse alla sua nuova dimora. Tutti le facevano onore, ma Beatrice sentiva che il primo corteo, illuminato da una sola fiaccola, era stato più grandioso, perché allora l’accompagnava un cuore.
Poco dopo Ottrone ritornò alla corte d’Este e, come seppe che Beatrice si era trasferita definitivamente sul Gemola, preso il bordone da pellegrino, s’incamminò per monti e per valli, attirato dalla luce che raggiava dall’Umbria; la lucciola diventata faro.
Era la primavera in fiore, ma per Ottrone i fiori non avevano più né colore, né fragranza; tutto si disseccava al suo passaggio, sicché i suoi occhi vedevano il deserto anche là nella piana d’Assisi, argentea di olivi, ombreggianti la Porziuncola. Frate Francesco gli parlò a lungo dell’amore di tutte le creature, come riflesso di quello di Dio. Prima di lasciarlo partire, toccò con le sue mani piagate gli occhi di Otrtone, che si aprirono con rinnovellata meraviglia alle bellezze del creato. Tutto riprese colore e fragranza nuova in quella primavera in fiore. La gioia di Dio zampillava da ogni sasso perché il pellegrino aveva pieno il cuore di gioia e comprese allora perché avesse venduto i suoi beni in Germania: per godere la felicità di Dio.
Di fronte al Gemola c’è il Monte Fasolo; Ottrone vi fabbricò una capannuccia all’ombra di cipressi chiamati da allora i cipressi di San Francesco e visse colà da santo eremita.
A poco a poco una dolcezza ultraterrena gli penetrò l’anima, sentì di essere nato per la contemplazione di Dio, alla quale l’aveva condotto l’amore di Beatrice. Dopo appena cinque anni, in un’alba di maggio piena di promesse, una colomba si posò sulla tavoletta del cibo di Beatrice; richiamata dal suo Diletto, Beatrice volò al cielo e la colomba sparì.
Ottrone visse ancora molti anni, divenne un bel vecchio dalla barba bianca fluente. Un giorno Dio lo chiamò a sé; allora, come per incanto, il sasso che era davanti alla sua capanna si coprì d’erica che fiorisce ancora e sempre e la sua mandola suonò dolcissimamente. Oh meraviglia! Le campane della chiesetta di Gemola suonarono a distesa.
Nelle notti tranquille, stellate, quando tutto è silenzio, si sentono vibrare nell’aria le corde di una mandola e un tintinnio di campane, tutto avvolto in un tenue profumo d’erica montana che si espande in alto, in basso, investendo Este, Salarola, Gemola, i tre vertici, ascesa di santità.
(Da “Leggende Euganee” di Sellida Il varo)




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