L’UCCISIONE DI SILVIO SANTARINI

 

Quella che segue è la lettera scritta dalla figlia dell’ucciso, con la quale essa rievoca, con strazio, il momento della cattura del padre , della rapina di tutti i beni e, poi,  l’angosciosa scoperta della morte e il difficile recupero della salma.

 

“”  Caro Mario,

non è senza una certa ansia che proviamo a ripetere, qui, quello di cui abbiamo forse frammentariamente parlato durante le nostre serata a casa tua. Scrivo io per farlo rileggere a mia sorella e mio fratello, nel caso omettessi qualcosa.

 

A seguito dei bombardamenti, nell’ottobre del ’44 eravamo sfollati a Casatico, nelle due stanze della scuola dove insegnava la mamma, tutti, inclusa mia zia. Il papà veniva tutte le mattine ad aprire l’ufficio postale e il giorno 12, mi sembra verso le 10, vennero a cercarlo i partigiani (non so quanti). Andammo subito a chiamarlo e arrivò verso le 11,30/12. Trovò due o tre partigiani e gli disse chi era. Loro risposero che “Pippo” (un capo partigiano) era già andato via e che glielo avrebbero detto.

Per due giorni il papà andò avanti e indietro fra Camporgiano e Casatico, ma la mamma impensierita forse dal caso dell’Ingegner Nutini (che era stato prelevato dai partigiani), lo consigliò di dormire a Camporgiano a casa nostra. L’ufficio postale, del resto, si trovava al piano terra della nostra abitazione. Il terzo giorno, cioè il 14, essa si mise in strada per portargli le lenzuola, ma lo incontrò che tornava a Casatico. Le disse che non temeva nulla perché non aveva nulla da rimproverarsi.

Circa alle otto e trenta della stessa sera sentimmo dei colpi alla porta: erano tre partigiani armati di mitra e pistole. Volevano il papà che, già a letto, sentito questo trambusto, si stava rivestendo. In quel momento la lampadina della camera si fulminò e ne spostarono una dall’altra stanza, poi cominciarono ad aprire armadi, cassettoni, a tirar fuori pentoloe per cercare armi… Lo spavento e il terrore che lo portassero via ci faceva muovere da una stanza all’altra, anche se il papà cercava di calmarci. La zia rimase impietrita a letto, mio fratello che si era svegliato piangeva e il partigiano che sembrava il capo (Muzzi), che mio padre conosceva (era stato un fascista che esibiva con orgoglio la divisa), chiese di fumare. Il papà gli diede un mezzo sigaro che aveva e che tritava e mescolava, credo, con la camomilla per fare sigarette. Gli altri due (uno lo chiamavano “Zena”) presero delle balle e cominciarono a buttarci dentro tutto. Rovesciavano i cassetti nei sacchi e fu così che presero anche le chiavi dell’ufficio postale e i valori bollati. Il terzo partigiano, un giovane biondo che sembrava capitato lì per caso, come lo “Zena” si allontanò, riprese una tovaglia e i tovaglioli e li rimise in un cassetto che richiuse andando via. Appariva molto imbarazzato in quella situazione e quando, involontariamente, urtò la mamma, le chiese scusa.

 Non ho idea di quanto tempo sia durato questo incubo. Fecero uscire il papà e, dalla porta, li vidi prendere la direzione di Casciana. Non ricordo nulla d’altro di quella nottata, così come mio fratello, che aveva circa otto anni, non ricorda che vagamente il viso del papà.

 La mattina dopo la mamma cominciò il suo pellegrinaggio nei paesi vicini per avere notizie. Andò a Casciana, dove si diceva ci fossero dei partigiani e dove, con me, fece visita ai signori Poli i quali, però, dissero di non sapere nulla. Si recò, poi, con mia sorella, a Piari e poi, varie volte, a Fabbriche di Careggine e a Roggio. A Fabbriche, il paese ora sommerso, abitava un impresario amico del babbo che aveva promesso alla mamma di farle avere notizie, ma quando ci sono tornate l'ultima volta non lo trovarono. Le accolse, molto gentilmente, la moglie, ma non seppe dare noizie. A Roggio, dove la mamma aveva insegnato per diversi anni, le segnalarono un certo dottor Coli di Careggine. La mamma partì all'alba, sempre con mia sorella Agnese e arrivò alle "Coste" dove viveva questo dottore che la mamma conosceva perché aveva insegnato in un paesino vicino. Trovarono un paese "fumante" per un rastrellamento fatto dai tedeschi a seguito di una incursione dei partigiani. Il dottor Coli ovviamente non c'era e le altre porte erano sbarrate. Tornarono verso Careggine perché imbruniva e incontrarono un buon conoscente chiamato "Cuin" che era guardia comunale. Le accolse con tanta amicizia e le ospitò a cena (polenta di neccio) poi le fece dormire e le sconsigliò vivamente di proseguire nella ricerca. La mamma, invece, volle andare, il giorno successivo, alla "Foce", perché aveva sentito dire che lassù ci doveva essere un maggiore inglese, anche se le notizie al proposito erano discordanti e molti sostenevano che non era vero. C'era, comunque, il comando dei partigiani e ci arrivarono, sul tardi, dopo un percorso da incubo. La mamma era già sofferente di angina pectoris e prese un attacco, perciò furono costrette a fermarsi un bel po' in una selva. Poi arrivarono, scortate da un partigiano, in una casa della "Foce". Le fecero entrare. Mia sorella Agnese riconobbe i carabinieri di Camporgiano (che avevano disertato e si erano aggregati ai partigiani) e un suo ex compagno di scuola. Il dottor Coli non c'era e parlarono con uno dei tenenti Franchi. Disse che la loro banda non era a conoscenza di quanto fatto da quelli di "Pippo", ma, come in altre occasioni, non era da scartare l'idea che avessero fatto passare il fronte al papà. Fu decisamente gentile con la mamma e le disse, insistendo, di non girare più per le montagne perché con una ragazza giovane come l'Agnesina (aveva 22 anni) poteva fare brutti incontri e correva dei rischi anche con i tedeschi che, arrivati da poco in Garfagnana, facevano frequenti controlli e anche rastrellamenti. S'era fatto tardi perciò rientrarono dalla strada per Castelnuovo deviando verso Sillicano (dove la mamma aveva insegnato) e dormirono dalla Polda.

 Tornarono il giorno dopo e la mamma non si mosse più. Non so dire del tempo che passò fino a dicembre. Io andai a Camporgiano perché i tedeschi volevano i due centralini telefonici che erano nell'ufficio postale. Sfondammo la porta perché le chiavi non c'erano. Tornando a Casatico trovai "Pippo" che volle sapere cosa volevano i tedeschi. Gli chiesi di mio padre, rispose che stava bene. I partigiani tornarono più volte per avere altri vestiti del papà. Noi eravamo riusciti a salvare il giaccone e l'impermeabile del papà perché, attaccati alla porta della camera che era stata spalancata con forza, erano rimasti nascosti dietro la porta, ma li avevamo portati a Camporgiano e, così, non avevamo più nulla da dare loro.

 Rividi lo "Zena" più volte, ma non ho mai più visto l'altro giovane che non conoscevamo.

 

Dopo la metà di dicembre ero a Camporgiano con la mamma e l'Agnesina; ero all'ufficio postale per la consegna del telegrafo che voleva la G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana). C'era anche un'altra persona che non riesco a ricordare chi fosse. Ad un tratto il soldato che staccava l'apparecchio chiese come mai non c'era l'ufficiale postale: "Non l'ho mai visto, è forse con i partigiani ?" disse. L'altro uomo presente (forse l'Ulisse Micotti o l'Eurialo che aveva messo il lucchetto alla porta) gli rispose secco che era invece stato preso dai partigiani. Al che il soldato disse: " Ah, quello che hanno accoppato !"

 Non mi ricordo gran cosa di quello che dicemmo. L'uomo che era presente gli urlò dietro qualcosa : "Ma che dici ? Che ne puoi sapere ? Questa è sua figlia !"

 Salii in casa, la mamma era al fuoco. Non avrei voluto dire nulla, ma iniziai a piangere e lei volle sapere. Oggi penso che fosse presaga o in parte informata della morte del papà. Andò alla caserma della G.N.R. e parlò col capitano Simonatti che non glielo confermò, ma le promise che avrebbe fatto indagini. La conferma invece arrivò tramite il dottor Angelini che indicò anche, credo, dove avremmo potuto trovare il corpo. Per due giorni gli zii della mamma, l'Attilio, il Begna, e il "Rumito", lo cercarono nelle selve di Casciana, ma non lo trovarono. A quel punto mia sorella, solitamente molto dolce, con la mamma andarono a Casciana e radunarono un po' di gente vicino alla fontana. Dissero, credo piuttosto vivacemente, che rivolevano il corpo di nostro padre perciò che si passassero la voce e che mettessero un segnale nel punto preciso. Il terzo giorno l'indicazione c'era: un paletto con attaccato un pezzo di carta da zucchero. Lo trovarono sepolto sotto poca terra, praticamente nudo e lo portarono direttamente in cappellina al cimitero dove c'era il parroco don Cafalli ad officiare. Noi eravamo in casa perché la mamma non volle che ci spostassimo; voleva che lo ricordassimo da vivo.

 

C'erano ancora i bombardamenti ed eravamo sotto Natale.

 

Grazie Mario per le tue ricerche e per aver permesso di conoscere anche queste pagine della nostra storia.

Sandra

29 aprile 2010 “”

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