CAPITOLO XII
FEBBRAIO
1945 - LA RAPPRESAGLIA DI COGNA
A Cogna scatta
la rappresaglia: sei uomini fucilati.
Il mese di Febbraio si apre con un fatto estremamente
doloroso: il giorno 1 nei pressi di Cogna, nel comune di Piazza al Serchio, nel
luogo stesso dove era stato ucciso in un agguato l'alpino Grigoli, vengono
fucilate sei persone dagli alpini dello stesso reparto del Grigoli. Le sei
persone erano state catturate nei giorni scorsi perché sospettate di essere
partigiani. Erano Tardelli Adriano, partigiano di Capanne di Careggine, nato il
19.10.1896, Talani Agostino di Sillano, padre di un partigiano, nato nel 1899,
Ferrari Cesare di Roggio, nato a S.Giuliano Terme il 29.3.1903, Ferrari Alfredo
di Roggio, nato il 30.4.1906, Pedrini Americo di Roggio nato il 26.4.1894,
Samassa Giovanni di Sillano, classe 1898. Racconta Don Santini, parroco di
Nicciano, che lui e Don Bruno li videro passare mentre venivano condotti sul
luogo dell'esecuzione e Don Bruno Nobili Spinetti disse qualcosa contro gli
alpini che li conducevano. Al che il Tenente che comandava il plotone ingiunse
anche a Don Bruno e al suo cognato Dr. Rocchiccioli che era con lui di
seguirli. C'era molta tensione e certamente Don Bruno e il cognato temettero
per la loro vita. Giunti sul luogo dell'esecuzione i condannati erano abbattuti
e silenziosi. Qualcuno piangeva. L'unico che sembrò non temere il suo destino
fu il Tardelli, che disse : "Fanno bene a fucilarci perché noi siamo per
la libertà" . Intendeva dire, certamente, che loro erano nemici
irriducibili e che solo uccidendoli li avrebbero resi innocui. Pare che dicesse
anche di donare le sue scarpe a qualche poveretto. Sul luogo, oltre al prete di
S.Anastasio, Don Mentucci, c'era anche Don Gisberto Milanta di Cogna e Don
Bruno. I condannati vengono confessati. Uno lo confessa Don Bruno, uno don
Milanta e quattro Don Mentucci. E siamo alla conclusione. Il tenente ordina il
fuoco. Seguono due scariche e i condannati cadono al suolo. Il tenente da loro
il colpo di grazia e Don Mentucci impartisce l'olio santo. Il tenente rivolto a
Don Bruno dice: " I soldati della R.S.I. combattono al fronte e all'interno......"
Don Mentucci non afferra le ultime parole, ma il significato della frase è
evidente. Probabilmente si concludeva così: "...ci sparano alle
spalle". Poi i soldati se ne vanno e i poveri resti vengono portati, dai
pietosi abitanti di questa frazione, nella cappellina del cimitero di Cogna
dove i familiari recupereranno la sera stessa la salma del Talani e il giorno
appresso tutte le altre. Il giorno 3 a S.Anastasio vengono celebrati i funerali
per tutti e sei i morti.
Lo scontro si è fatto estremamente cattivo. I partigiani
ora sono pochi e le azioni sono limitate quasi esclusivamente a favorire le
diserzioni, ma l'odio reciproco è palpabile. Gli uomini della R.S.I. che
combattono al fronte non sopportano questa minaccia alle loro spalle e non
sopportano neppure che molti giovani si siano sottratti alla chiamata mentre
loro stanno facendo il loro dovere a rischio della vita. Così si fa accanita la
caccia ai renitenti oltre che ai partigiani e, soprattutto, si è spietati coi
disertori.
Si aggrava il
fenomeno delle diserzioni.
Il fenomeno dei disertori si è fatto grave con l'arrivo
dei bersaglieri della Div. ITALIA, sia perché ci sono molti richiamati o,
addirittura, rastrellati, sia perché le sorti della guerra appaiono sempre di
più segnate. Gli avversari usano chiamare spregiativamente la Divisione ITALIA:
divisione "scappa" o divisione "lepre". Pare che nella zona
di Sassi l'11 febbraio la 7° Compagnia sia passata interamente al di là del
fronte con il tenente in testa (Guidi). E lo stesso giorno a Torrite vengono
fucilati 2 disertori. Dice Don Gigliante, il parroco, che il plotone di
esecuzione è formato dagli stessi commilitoni dei due e che “Li ubriacarono
mezzi perché non volevano tirare”. Poi sparano, ma i due non sono morti e li
finisce il Ten.Ferretti con un colpo di pistola alla testa. E il 25 a
Petrognola presso S.Anastasio la stessa sorte tocca a Giuseppe Tomei, che era
garfagnino di Vagli. Invano il Cap. Gervasini tenta di salvarlo telefonando al
comando di divisione. Il Gen. Carloni è inflessibile. E lo stesso giorno
(secondo Bertolini, ma Padre D’Amato registra la fucilazione in data 4
febbraio, domenica), a Fosciandora, cade sotto il fuoco del plotone di
esecuzione comandato dal Ten.Maddaloni lo studente in medicina al 3° anno
bersagliere Benito Tassoni (o Tossani), che tentava la diserzione. Era nato a
Fiorenzuola il 8.1.1922 ed apparteneva al 2° Btg. Stessa sorte tocca al
bersagliere Risi il 10 febbraio. E altri due vengono fucilati a Pieve Fosciana
e altri due a Torrite e altri due a Camporgiano. Episodio singolare anche
quello narrato da P.D’Amato (1). Il 28 febbraio dal comando tedesco del fronte
di Treppignana viene chiamato il cappellano militare dei bersaglieri che
risiede a Torrite, Padre Giovanni Vespertini. Pare debba incontrarsi con gli
americani per concordare le modalità per il recupero di morti e feriti sulla
linea del fronte. Alle ore 16 P.Vespertini passa il fronte in abito talare, con
un maresciallo e un soldato di sanità. Avrebbero dovuto rientrare la sera
stessa, ma “né P.Vespertini né gli altri si videro più”. E anche alla caccia ai
renitenti ci si dedica. Don Vincenti, parroco di Gorfigliano, racconta che il
13 febbraio in paese, malgrado il suo parere decisamente contrario, era stata
organizzata una festa da ballo. Nel bel mezzo capita un plotone di alpini
(forse dell'INTRA) e cattura e porta a Camporgiano uomini e donne. Ma il prete
scrive a Don Cafalli, parroco di Camporgiano e al Cap. Ruisi e li fa liberare
quasi tutti. Solo alcuni vengono portati a Pontremoli. Allora Don Vincenti
scrive al vescovo di Pontremoli Mons. Giovanni Sismondo e riesce a far liberare
anche quelli. Evidentemente i religiosi trovavano una certa udienza presso i
soldati. Anche a Sillano il giorno 20 vengono catturate quattro persone. E il
prete, Don Baisi, interviene e riesce a farne liberare tre. Il quarto è un
partigiano, Regali Francesco, che viene portato a Pontremoli e fucilato.
Tuttavia, dice Don Baisi, dopo questo episodio "gli alpini mostrano
rispetto e amicizia, e non danno più noia". E intanto i garfagnini
morivano anche altrove. Il 21 febbraio un maresciallo della G.N.R., Martini
Giuseppe Mario Adolfo, di 32 anni, di Castelnuovo, muore in combattimento
contro i partigiani a Vercelli. Pare che il suo valoroso comportamento gli
abbia meritato la Medaglia d'Argento.
Si diceva della Divisione ITALIA. Il mese di Febbraio fu,
infatti, il mese dell'arrivo del grosso di questa divisione (qualcuno, come
abbiamo visto, era giunto fin dal dicembre). Secondo il Federigi il 1° febbraio
il 2° Btg del 1° Rgt., (compagnie dalla 6° alla 10°) del Cap.Lucchesi Palli
sostituì il 285° tedesco nella zona sopra Treppignana (sinistra del Serchio)(2)
mentre il 1° Btg (cmp dalla 1° alla 5°) sostituisce il Btg. Brescia della Monterosa
(che, però, si tratterrà fino al 5. O, forse, oltre. Don Pinagli annota che gli
alpini che erano in Filicaia partono per il nord il 24 febbraio). Arriva anche
il comando di reggimento, col Col.Zelli che sostituisce Pasquali a Torrite. E
arriva anche il Btg. Pionieri, il Btg. Collegamenti, la compagnia divisionale
contro-carro e i servizi. Il 15 febbraio, infine, il 2° Gruppo artiglieria
ippotrainato dà il cambio al "Mantova" e arrivano due Btg del II Rgt:
Il 1° del Cap. Ferrario, che ha per motto "Non ho tradito" e il 2°,
unico in camicia nera, che ha per motto " Non mai secondo per virtù e
valore". A fine febbraio, così, se ne va anche il Btg "Uccelli"
della SAN MARCO. Ai primi di febbraio si rianima anche il fronte. Il 5 (3) il
366° Btg della "Buffalo" attacca sulla destra e il 365° sulla
sinistra del Serchio dove sono a difesa il 2° Btg del I Rgt della Div.ITALIA e
il 266° tedesco. L'attacco ottiene modesti successi iniziali. Radio Londra
annuncia la conquista di Gallicano, Calomini, Albiano e Lama di Sotto. In
realtà Albiano era "terra di nessuno" (Mons.Lombardi), Gallicano era
già il mano americana come pure Calomini (forse dagli americani considerati
"terra di nessuno" ma, comunque, non in mano agli italo-tedeschi).
Modesto successo, forse, fu la conquista di Lama di Sotto, Monte della Stella e
Quota 906 sulla sinistra del Serchio, nonché il M.Faeto e Quota 437 sulla
destra. Ma già il giorno 8, con il rinforzo di uno squadrone del Gruppo
esplorante dell'ITALIA, si passa al contrattacco e i "Buffalo" sono
respinti. Da fonte americana si apprende che ben 323 negri risultarono
"sbandati". Il giorno 10 c'è un nuovo tentativo di attacco su Lama,
ma il giorno dopo quattro decisi contrattacchi respingono i
"Buffalo". Il giorno 7 ci fu un forte attacco anche in Versilia, pure
respinto. Evidentemente gli americani facevano le prove generali per l'attacco
decisivo. Il giorno 23 febbraio una bomba di mortaio colpiva, a Sassi, il
giovane bersagliere Antonio Arciero (era nato il 25.7.1925, non aveva ancora venti
anni) che cadeva morente gridando “Viva l’Italia”. Gli era accanto il giovane
S.Ten. Mirko Tremaglia, che è stato poi Ministro degli italiani all’estero. L’
Arciero morirà poco dopo all’infermeria di Torrite.
Anche l'attività aerea americana si mantiene intensa.
Accaniti gli attacchi alle gallerie ferroviarie, alcune utilizzate dai soldati.
L’8 viene attaccata la galleria vicina alla stazione di Camporgiano. La
galleria non subisce danni ma una casa di contadini che era nei pressi (la casa
del Livio) viene centrata da due bombe e, letteralmente, sparisce. Al suo
posto: due enormi crateri. Lo stesso giorno viene centrata la galleria dei
"Messali" presso Villetta. Ma l'aereo, che si era troppo abbassato
per colpirla, viene investito dalla stessa esplosione che ha provocato e cade.
Il pilota si salva, ma è ferito e viene portato all'Ospedale Militare di
Camporgiano. Verrà poi a morte in un episodio mai del tutto chiarito (Vedi
quanto scritto più avanti nonché la storia dettagliata in Appendice). Durante
questo attacco muore a Villetta uno sfollato di Viareggio, tale Simonetti
Carlo, e una bimba di 8 anni, colpita da una raffica di mitraglia. Si chiamava
Salotti Giuseppina. Il parroco di Villetta dice che nei giorni 8, 9 e 10
attacchi aerei provocarono la morte di 5 civili e tre militari. Uno dei civili,
Vanni Nicola di 44 anni, muore il 10 folgorato dai fili dell'alta tensione che
le bombe avevano fatto cadere. Molti i centri colpiti. L'11 si ha un violento
bombardamento su Camporgiano dove viene centrata e distrutta anche la casa del
Commissario Prefettizio Prof. Ulisse Micotti (che, trasferitosi con gli uffici
comunali nella frazione di Vitoio continua instancabile la sua opera di
faticosa organizzazione della vita civile in quei frangenti disperati. Il 3 febbraio,
dice Don Pinagli, ci fu una riunione dei parroci e di quanti, in qualche modo,
potevano rappresentare gruppi di cittadini, convocata dal Micotti per gli scopi
suddetti). Don Cafalli, parroco di Camporgiano, dice che su Camporgiano caddero
complessivamente 160 bombe, che le case completamente distrutte furono 10 e
quasi tutte furono danneggiate. Egli, però, ci tiene a dirlo, non sfollò mai.
Disse sempre messa e assisté oltre 200 feriti (evidentemente quelli
dell'Ospedale Militare). Terribile fu il bombardamento di Castelnuovo del 13
febbraio, durante il quale fu colpito e distrutto un rifugio antiaereo dove
trovarono la morte 30 persone fra cui il cappellano di Castelnuovo Don
Raffaello Rossi con padre, madre e fratelli. E ancora il 28, nei pressi di Villetta
e di Sillicagnana muoiono per bombe due civili (Uno dei quali era Guidi Stefano
(o Rodolfo ?) morto a Sillicagnana in loc. Pollunga) e un alpino. E i paesi più
prossimi al fronte pativano anche il tormento continuo dei cannoneggiamenti.
Intorno al 6 febbraio, in concomitanza con un attacco americano nella zona di
Lama, Riana subì pesantissime offese dalle artiglierie. Una casa che ospitava
le suore e le orfanelle di Pieve Fosciana lì sfollate viene colpita e crolla in
buona parte. C’è anche Padre Conti con loro. Si teme il peggio, ma, per
fortuna, il rifugio che era sotto la casa ha retto e non ci sono vittime. Né
viene risparmiato il Collegio di Migliano che, pure, recava sul tetto grandi
croci rosse, funzionando come un ospedale. Una cannonata lo raggiunge mentre i
ragazzi sono in refettorio e ne ferisce alcuni. Uno, il giovane Ireneo Pistis,
riceve una scheggia sotto l’ascella destra che gli taglia l’arteria. E’ grave.
Per fortuna è presente quel “prodigio di chirurgo” (Padre D’Amato) che è il capitano
medico Klark, il quale con tempestività riesce a ricucire l’arteria e a fermare
l’emorragia. “La Madonna della Stella”, dice Padre D’Amato, “ci ha salvato
ancora”. Altro morto civile a Villa di Ceserana (Fosciandora) per cannonate il
22 febbraio. E’ “Nino” (all’anagrafe Salotti Angelo), di 75 anni. Vale la pena
di segnalare anche un clamoroso errore dell'aviazione americana che, il 7
febbraio, bombardò Vallico Sopra, paesino di montagna in territorio già
occupato, scambiandolo, evidentemente, con un altro centro dell'alta Garfagnana
(forse Vagli). Comunque almeno tre persone ci persero la vita: Giannasi Camillo
di anni 53, Guazzelli Primetta Ida di anni 42 e Dominici Ugo di anni 29. Ma
anche la contraerea è attiva ed efficace. Il giorno 8 , oltre a quello
autoabbattutosi alla galleria dei "Messali" un altro aereo viene
abbattuto e cade presso Caprignana. E il 20 le mitragliere di Piazza al Serchio
abbattono un altro aereo. Il pilota muore e viene sepolto nel cimitero di
S.Donnino. Si chiamava M.F.W. AUGUSTIN, della Terza Squadriglia SAAF.
A proposito della lotta contro la minaccia aerea, vale la
pena di narrare l’episodio di cui si parlò a Camporgiano
nell’inverno 1944/1945: Un mattino nella piazza di Camporgiano comparve un
alpino della "Monterosa" che sprizzava contentezza da tutti i pori.
Stava, infatti, per andare a casa in licenza premio. Aveva un paio di scarponi
fiammanti (i due scarponi erano legati insieme con le stringhe e gli penzolavano
sul petto. Infatti se li era messi al collo come una collana o un trofeo) e
stava ritirando dalla cucina militare che si trovava proprio lì sulla piazza un
bel gavettone di pastasciutta. Parlava con allegria con i cucinieri e con altri
alpini presenti e raccontava l’avventura che gli aveva fruttato e scarponi
nuovi e licenza. Alcuni civili curiosi che stavano lì intorno (sulla piazza
c’era anche un bar e un “tabacchino”) udirono così il racconto e lo diffusero.
Ed ecco la storia: Gli aerei americani da tempo si accanivano quasi
quotidianamente contro i ponti della ferrovia, costituendo un fastidio e un
pericolo non indifferenti. Così il nostro alpino un bel giorno perse la
pazienza e decise di reagire. Giova sapere che il breve tratto di ferrovia che
collega Camporgiano a Piazza al Serchio ( Km 5 in tutto) è costituito da una
serie di gallerie che attraversano dei picchi rocciosi e di ponti che
scavalcano torrenti affluenti del Serchio o il Serchio stesso, che scorrono in
gole profonde. Questi ponti non hanno mai smesso di costituire un bersaglio
privilegiato per i caccia bombardieri perché, anche se il treno da tempo non
passava più, in quel tratto erano state tolte le rotaie e le traversine e la
ferrovia veniva usata come strada. Ed era, per il crollo di alcuni ponti
stradali, l'unica strada rimasta per raggiungere il fronte. Naturale, quindi,
l'accanimento dell'aviazione nemica. Fortunatamente non riuscirono mai a
colpirli, ma ci provarono a lungo e, per riuscirci, facevano delle picchiate
molto audaci, insinuandosi nelle strette vallate e passando al di sotto dei
picchi rocciosi circostanti. Avendo notato questo, il nostro alpino si piazzò
di buon mattino su uno di quei picchi con il suo fucile mitragliatore e attese.
Dopo poco, puntuali, arrivarono i caccia bombardieri e si tuffarono in
picchiata. Uno di loro al termine della picchiata, mentre stava cabrando, venne
a trovarsi proprio al di sotto del nostro alpino che, dall'alto, con una
sventagliata ben mirata, colse in pieno il pilota uccidendolo. L'aereo, ovviamente,
andò a schiantarsi sui monti vicini. Questa curiosa storia è ben viva nella
memoria di chi la udì narrare quel mattino a Camporgiano (fra cui l’autore del
presente lavoro), ma questa è l’unica fonte. L’episodio appare, tuttavia,
verosimile, sia perché l’alpino stava effettivamente andando in licenza con gli
scarponi nuovi, ma anche perché una analoga storia (di un alpino che spara a un
aereo dall’alto) è narrata anche da Davide Del Giudice nel suo “Il Battaglione
Alpini INTRA sulle Alpi Apuane..” (4).
Il nipote del presidente
U.S.A. cade col suo aereo in Garfagnana.
Riguardo a uno dei piloti caduti l’8 febbraio, caduto a
sud di Cerretoli, si deve registrare un episodio sconcertante. Egli fu
condotto al comando dove fu interrogato. Dopo l'interrogatorio
fu condotto, a piedi, verso le carceri che si trovavano a circa un chilometro
dall'abitato.
Durante il tragitto pare che l'americano tentasse la fuga
(questa, almeno, fu la versione che allora fu data) e che un soldato della
scorta gli sparasse uccidendolo. Si chiamava ALFRED R. LYTH e fu sepolto
davanti al cimitero di Camporgiano insieme ai caduti italiani e tedeschi.
Circolò voce che quel pilota fosse nipote del presidente degli U.S.A. Henry
Truman. Non si ebbero mai conferme ufficiali, ma nell'immediato dopoguerra
(estate 1945), giunse una squadra di americani particolarmente attrezzati che
esumarono con molta cura la salma, provvidero al riconoscimento e la portarono
via. Poco dopo dagli americani fu istruito un processo a carico del Capitano
Simonitti della Gendarmeria della Div.MONTEROSA e di alcuni suoi collaboratori,
accusati di aver ucciso il pilota Lyth. Malgrado il Lyth risultasse ucciso da
un solo colpo di arma da fuoco (il che escludeva la fucilazione e avvalorava la
versione del tentativo di fuga) il verdetto fu di condanna a morte per il
Simonitti e alla reclusione per i collaboratori. La condanna a morte fu
eseguita nei primi mesi del 1947 e fu l'unica eseguita dagli americani a carico
di militari della R.S.I.
Per la popolazione civile continua, drammatica, la lotta
per la sopravvivenza. Non solo bisogna sopravvivere alle bombe, alla mitraglia
e alle mille insidie (5), occorre anche sopravvivere alla mancanza di cibo,
cercando di procurarselo anche correndo pericoli gravi. Che, a volte, risultano
fatali. E' quello che accadde a due donne di Vagli Sotto, che tentavano di
attraversare gli Appennini per cercare cibo in Emilia, ricca di granaglie.
Erano Fortini Armida Maria di 45 anni e Bravi Adelaide di 42. Il 20 febbraio si
trovavano al Casone di Profecchia, vicine al Passo delle Radici, allorché una
mina pose fine al loro viaggio uccidendole entrambe. (6) Anche i frati di
Migliano coi loro ragazzi sono assillati dal problema di cosa mangiare. Per
fortuna ogni tanto muore un asino dei soldati, e loro se lo mangiano,
trovandolo squisito. Ma non basta. Così il povero Padre Ceccaglia parte con lo
studente Domenico Cipollini e va a cercar cibo, non senza rischio, nei paesi
garfagnini di Vagli, Careggine, Roggio, Puglianella. E raccolgono un bel po’ di
farina di castagne “data con generosità”, tanto per tirare avanti.
Appendice
La vera storia del Tenente pilota Lyth
L’8 febbraio 1945 una squadriglia di aerei americani
che aveva condotto un attacco aereo nelle retrovie del fronte della Garfagnana,
rientrava alla base e il capo-squadriglia redigeva il seguente rapporto:
“” 8
Febbraio '45. Il Lt. Alfred R. Lyth,
del 66th FS /57th FG, a
bordo del P-47D 42-29307, fu costretto
a lanciarsi con il paracadute
dopo che il suo aereo era stato
investito dall'esplosione provocata da
un treno carico di munizioni nei pressi
di Castelnuovo Garfagnana.
Mentre cabrava, dopo aver sganciato le bombe, il suo caposezione, 1st
Lt. Mosites, notò lingue di fuoco
uscire dal turbocompressore
dell'aereo di Lith. Gli ordinò di dirigersi verso Sud.
Immediatamente dopo, il Lt. Lith rovesciò il proprio aereo e si lanciò,
da circa 4000 piedi. Il vento portò il paracadute di Lith ad
atterrare mezzo miglio ad Ovest di
Castelnuovo. Un aereo leggero
da osservazione L5, fu notato
dirigersi verso il punto in cui Lith
era
atterrato. L'aereo si schiantò a
Cerretoli. “”
In
realtà non era “un treno carico di munizioni” che Lith aveva preso di mira, (
fin dal giugno dell’anno prima non era più giunto nessun treno in Garfagnana)
bensì una galleria ferroviaria all’interno della quale erano ricoverati
bersaglieri della Divisione “Italia” (presumibilmente artiglieri) e, forse, un
deposito di munizioni.
La vicenda era stata seguita e attentamente
osservata da molti garfagnini che furono testimoni oculari dell’accaduto. In
particolare la seguirono quei garfagnini che si trovavano nei pressi del luogo
dove l’aereo cadde e dove il pilota, lanciatosi col paracadute, atterrò.
Erano
gli ultimi mesi di guerra e l’aviazione nemica (americana e inglese) dominava
pressochè incontrastata i cieli della Garfagnana, anche se la contraerea si
faceva sentire e riusciva ogni tanto ad abbattere qualche aereo.
Ed
era così anche quell’8 febbraio 1944. Quella mattina erano cacciabombardieri
americani P47D
a battere le retrovie del fronte. Ruotavano
nel cielo fino a che non avevavo individuato il bersaglio e fino a che non
avevavo assunto la posizione adatta, poi si gettavano in picchiata mitragliando
fino a poche centinaia di metri dal suolo, sganciavano le due bombe di circa
250 chili l’una, poi cabravano e si riportavano in alto.
Quel
giorno il Lyth aveva preso di mira l’imbocco della galleria dei Messali situata
fra la stazione di Castelnuovo Garfagnana e la stazione di Villetta San Romano,
sulla linea ferroviaria Lucca-Aulla. Su tale linea, che all’epoca non
raggiungeva ancora Aulla ma si fermava a Piazza al Serchio, non passavano più
treni, come già detto, dal giugno 1944, allorchè successivi attacchi aerei
avevano distrutto tutto il materiale rotabile disponibile, per cui i militari
sia italiani che tedeschi utilizzavano le gallerie come luogo di ricovero per
uomini e munizioni. E anche la galleria dei Messali veniva utilizzata in questo
modo.
Fatto
sta che il Lyth si gettò in picchiata proprio per colpire l’imbocco di tale
galleria. La picchiata fu effettuata e le bombe sganciate esplosero
fragorosamente. Ma, purtroppo per il pilota, l’esplosione investì anche l’aereo
che stava cabrando e che, forse, si era abbassato eccessivamente.
Non,
dunque, l’esplosione di un treno carico di munizioni , ma, molto più
semplicemente, l’esplosione delle sue stesse bombe provocarono la caduta
dell’aereo. E’ da escludere l’esplosione di munizioni ricoverate in galleria
perché ciò avrebbe provocato morti e gravi danni alla galleria stessa, cosa che
non risulta accaduta. L’esplosione di un deposito di munizioni avvenuto nella
notte fra il 3 e il 4 aprile 1945 nella galleria ferroviaria “della mula” nei
pressi di Camporgiano, infatti, fece crollare buona parte della galleria che
dovette essere ricostruita nel dopoguerra e dilaniò i corpi dei bersaglieri che
la occupavano.
Così
la gente vide (e forse vide lo stesso Don Palmiro Pinagli, parroco di Filicaia,
che registrò scrupolosamente il fatto nelle sue cronache) l’aereo che tentava
di allontanarsi verso sud lasciando una vistosa scia di fumo, poi lo vide
rovesciarsi e vide il pilota che si lanciava con il paracadute.
E
molto più chiaramente degli altri e con ben maggiore preoccupazione
assisterono alla scena gli uomini e le
donne della famiglia Pioli che videro con spavento l’aereo precipitare molto
vicino alla loro casa.
I
Pioli, infatti, abitavano all’epoca una casa colonica situata a sud di
Cerretoli, in un luogo detto “Scepato di sopra” e l’aereo del Lith si schiantò
a poco più di cento metri a sud della loro casa.
Possiamo
immaginare l’emozione che l’immagine dell’aereo che precipitava, il terribile
fragore dello schianto al suolo avranno provocato negli allibiti e allarmati
spettatori.
E
nuova emozione avrà certamente provocato la visione, sopra le loro teste, del
pilota che stava scendendo appeso al paracadute.
Essi
ne seguirono con lo sguardo la discesa e l’atterraggio, avvenuto questa volta a
poco più di cento metri a nord della loro casa. I due Pioli, il padre Silvio e
il figlio Pietro , corsero sul luogo e videro che il pilota era rimasto
impigliato fra i rami di un pioppo ed era impossibilitato a scendere perché
avviluppato dalle corde del paracadute.
E
quale sarà stata la loro sorpresa nel constatare che l’uomo teneva stretta fra
le braccia una cagnetta che, evidentemente, egli aveva condotto con se
sull’aereo.
Valutata
rapidamente la situazione, i due Pioli salirono sul pioppo, tagliarono con un
pennato le corde che trattenevano il Lith e lo aiutarono a scendere
dall’albero. Una volta a terra, essi avrebbero condotto l’uomo, che aveva una
gamba dolorante per averla battuta violentemente contro un ramo del pioppo
nella caduta, presso la loro casa. Ma
proprio in una stanza della loro casa, all’uopo requisita, aveva sede un
piccolo presidio della Divisione “San Marco”, e gli uomini del presidio, che
pure avevano assistito alla caduta dell’aereo e alla discesa del paracadute,
corsero subito sul luogo dell’atterraggio del pilota per farlo prigioniero
Ma
ecco che, dopo breve tempo, giungono sul posto anche alcuni uomini
dell’esercito tedesco che avevano presidio poco sopra, in una casa distante
poco più di 200 metri (Casa Bonini) e che avevano potuto, essi pure, osservare
la caduta dell’aereo e la discesa del pilota.
Al
primo incontro col pilota i comportamenti sono improntati alla correttezza. Il
tenente Lith offre sigarette a tutti e si tenta di scambiarsi qualche frase
mentre si fuma. Ma poi coi tedeschi nasce una disputa perché i tedeschi
vogliono portare via il pilota prigioniero mentre quelli della San Marco, che
lo avevano catturato, volevano considerarlo loro prigioniero e tenerlo. Quelli
della San Marco, però, hanno un piccolo presidio mentre la pattuglia tedesca è
piuttosto numerosa, per cui prevale la volontà dei tedeschi che se lo portano
via.
Prima
di andarsene il pilota riesce in qualche modo a farsi capire e raccomanda di
non fare del male alla cagnetta alla quale era, evidentemente, molto
affezionato. Questa sopravviverà, verrà adottata da un certo Gualtierotti e
vivrà a lungo partorendo anche molti cuccioli, regalati a questo e a quello. E,
forse, qualche discendente della
cagnetta vive ancora in Garfagnana.
Il
Lith viene dunque condotto via e sollecitato a camminare alla svelta. Ma egli
ha una gamba dolente e cammina piano. Qualcuno dice che è stato visto un
tedesco spingerlo brutalmente per farlo accelerare, colpendolo addirittura con
dei calci nei polpacci.
Il
prigioniero viene condotto alla “Palazzina” , una villetta nei pressi di
Antisciana e consegnato al comando del reparto della “Monterosa” che è lì
acquartierato.
Subito
il prigioniero viene condotto a Camporgiano ove si trova il comando della
divisione “Monterosa” col suo comandante Generale Mario Carloni. Non si sa con
quale mezzo, ma certo non a piedi, data la distanza.
A
Camporgiano viene subito portato al comando, presumibilmente nei locali scavati
sotto la rocca estense. In questi casi funge da interprete il Tenente Peruzzi
che conosce l’inglese, ma il Peruzzi non c’è, è in missione al fronte. Allora
viene chiamato un impiegato comunale di nome Silvio Cardosi che ha vissuto
molti anni in Inghilterra e, quindi, conosce l’inglese. Non è noto il contenuto
dell’interrogatorio ma non si sarà discostato dal modulo tradizionale. Il
prigioniero avrà fornito le proprie generalità e il proprio grado evitando di
fornire qualsiasi tipo di informazione.
Ora
bisogna condurlo un po’ fuori dal paese, in località “Le Piane” dove si trova
il carcere mandamentale ora utilizzato dagli alpini della “Monterosa”.
Ed
ecco che accade qualcosa di non molto
chiaro. Pare che ad accompagnare il prigioniero ci fosse il Sergente Pilon con
un altro (o due altri) militari. Pare (questa fu comunque la versione
ufficiale) che il Lith tentasse la fuga gettandosi oltre una siepe, e che qualcuno
degli accompagnatori lo fermasse con un colpo di fucile alla schiena. Ed
effettivamente la morte fu causata da un solo colpo di fucile alla schiena. E
la cosa finì lì.
Ma
appena passato il fronte – doveva essere intorno alla metà di maggio – ecco che
arriva a Camporgiano un grande furgone bianco, si ferma davanti al cimitero, ne
scendono alcuni uomini vestiti con tute bianche e con mascherine davanti alla
bocca e si mettono a scavare dove era stato sepolto il Lyth, davanti al
cimitero, dove erano stati sepolti anche tutti i morti dell’Ospedale Militare
che fino al 31 dicembre 1944 ebbe sede a Camporgiano. Il luogo era stato
occupato quasi tutto dalle diverse decine di tombe e il Lyth era sepolto vicino
alla strada, allora provinciale (ora Statale 443). In breve estrassero il corpo
che era stato sepolto senza cassa e i molti ragazzi curiosi che erano accorsi
per vedere (fra cui il sottoscritto) poterono constatare che il corpo era
ancora intero (non era, cioè, ridotto a scheletro) anche se la carne, ormai
putrefatta, aveva assunto un colore grigiastro. Gli uomini in tuta bianca,
deposto il corpo a terra, lo esaminarono a lungo con molta attenzione.
Particolare attenzione posero nell’esaminate l’etichetta della maglia, sul
dorso del cadavere. Una volta accertata l’identità del caduto, chiusero il
cadavere in una apposita sacca impermeabile, lo caricarono sul furgone e se ne
andarono. Una certa imponenza dell’intervento e, soprattutto, la rapidità,
alimentarono la leggenda che si trattasse dei nipote del presidente degli
U.S.A. allora in carica, Truman. Ma non se ne è mai avuto conferma.
La
storia ha un seguito, perché gli americani cercarono di individuare i
responsabili di quella morte. Così ricercarono fra i prigionieri catturati a
fine guerra il Capitano Simonitti, capo della Polizia Militare che aveva sede a
Camporgiano nella ex caserma dei Carabinieri, il Tenente Peruzzi dello stesso
reparto, il sergente Pilon e forse anche qualcun altro (gli atti del processo
fatto, ovviamente, dagli americani, non sono mai stati resi noti) e li
processarono con l’accusa di aver ucciso un prigioniero di guerra. Qualche
notizia del processo è trapelata perché tre persone di Camporgiano furono
chiamate a testimoniare per scagionare il Tenente Peruzzi. Esse erano l’impiegato
comunale che aveva fatto da interprete durante l’interrogatorio del
prigioniero, una ragazza che serviva alla mensa ufficiali e una signora che
abitava vicino alla mensa e la cui cucina veniva utilizzata per confezionare i
cibi destinati alla mensa stessa. Esse testimoniarono che il Ten. Peruzzi, quel
giorno, non era presente in Camporgiano ed egli fu scagionato. Una volta
libero, sposò la ragazza che aveva contribuito a salvarlo.
Il
Capitano Simonitti, invece, fu condannato a morte e nel 1947 fu fucilato presso
il poligono di tiro di Pisa. Il Sergente Pilon fu condannato all’ergastolo.
Queste le poche notizie trapelate.
Ci sono
altre due notizie, tuttavia, che vale la pena di riportare:
La prima riguarda un giudizio sul Capitano
Simonitti. Alcuni anni fa un ricercatore storico intervistò il Cav. Ernesto
Pellegrinotti che in tempo di guerra era Capo di Stato Maggiore del II Btg
della Brigata “Garfagnana” della Divisione partigiana Garibaldi Lunense (con
tale titolo è citato nel suo Un partigiano isolato di Bruno Zerbini che
fu comandante di quel Battaglione) e che è poi stato anche Sindaco di
Minucciano. Durante l’intervista il Pellegrinotti apprese della fucilazione del
Simonitti e si mostrò molto dispiaciuto. Disse che l’aveva conosciuto perché
una volta era stato arrestato proprio dagli uomini del Simonitti. Ed era stato
il Simonitti che lo aveva interrogato comportandosi – sempre secondo il
Pellegrinotti - con molta umanità e
correttezza, lasciandolo, infine, libero.
La
seconda riguarda la visita che un nipote del Simonitti fece a Camporgiano
alcuni anni fa. Egli voleva vedere i luoghi ove erano avvenuti i fatti che
avevano portato alla morte lo zio e raccogliere notizie e giudizi da parte di
chi lo aveva ricordato e conosciuto. Aveva con se un diario scritto dal
Capitano Simonitti durante i due anni di detenzione, del quale, però, fece
conoscere solo alcuni brani rifiutandosi di far conoscere l’intero diario.
Secondo il nipote, il Simonitti sarebbe stato sottoposto a vere e proprie
torture psicologiche ( una Guantanamo ante litteram ?) per indurlo a rivelare
che l’ordine di uccidere il prigioniero era venuto direttamente dal Generale
Carloni. Gli dicevano, ad esempio, che sarebbe stato accusato di aver seviziato
il prigioniero e, addirittura, di avergli tagliato le mani e i piedi. Il che
era sicuramente non vero. Ma per uno che sta per essere processato tali
insistenti accuse rappresentavano una vera e propria tortura psicologica.
(Scritto con la collaborazione di Francesco
Pioli, figlio di Pietro, e della zia Rina Pioli, presente ai fatti)
NOTE:
(1) Oscar Guidi, DOCUMENTI DI GUERRA 1943-1945,
cit.,pag.160.
(2) Padre D’Amato, però, registra in data 22 gennaio
l’arrivo di “alcuni gruppi di un battaglione di bersaglieri italiani della
divisione ITALIA destinati a sostituire i militari tedeschi.” (Oscar Guidi, DOCUMENTI
DI GUERRA 1943-1945, cit.,pag.151,152). E narra anche, nelle stesse pagine,
la vicenda del Serg.Magg. dei bersaglieri Arduini, romano, ucciso sul fronte di
Treppignana a fine gennaio o primi di febbraio dal rinculo di un cannone
anticarro che stava adoperando.
(3) Probabilmente è in queste azioni che perdono la vita
due partigiani: il giorno 3 Santi Achille, diciannovenne di San Romano (verrà
solennemente celebrato nel suo paese a guerra finita) caduto in località
Trombacco e il giorno 5 Bottari Marco di Stazzema, di 32 anni, caduto a
Calomini. Probabilmente facevano entrambi parte della compagnia "C".
(4) Davide Del Giudice, Il Battaglione Alpini “Intra”
sulle Alpi Apuane, Ottobre 1944 – aprile 1945, Ed. Centro Graf.Stampa,
Bergamo 1997.
(5) A Ceserana il 6 febbraio muore Giulia Biagioni in
Marcucci, di anni 37, ferita alla testa da schegge durante un cannoneggiamento.
Negli stessi giorni (il 3 febbraio) muore amche il giovane di 20 anni, Carlo
Salotti di Riana, precipitando in un dirupo mentre trasportava un barile di
vino ai soldati al fronte. (Oscar Guidi, DOCUMENTI DI GUERRA 1943-1945,
cit.,pag 152). Nel suo atto di morte, però, risulta morto “per mine”.
(6) Nei registri del comune di Vagli Sotto risultano fra
i morti anche Lopez Rosa, morta a Pisa pare in un bombardamento, Vergnani Fiore
e Vergnani Francesco, padre e figlio, pastori uccisi da una mina mentre
pascolavano il loro gregge. In nessuno dei tre casi è precisata la data della
morte.