Marino Mersenne |
Filosofia dal vivo |
Intendiamo, qui di seguito, offrire
un esempio di come avvenga nel concreto lo “scambio” filosofico. Esso suppone,
ovviamente, la ricerca personale, ma, prima che si pervenga alla definizione
completa di una linea di ricerca, solitamente, c’è il confronto con l’altro.
Fare filosofia esige, certo, la solitudine della riflessione ma solo perché il
dialogo sia più profondo. Nelle pagine che seguono ne offriamo un esempio. In
primo luogo, c’è, dunque, il pretesto della discussione: in questo caso alcune
pagine del libro Paradossi e aporie del
cristianesimo. Il dibattito intorno
alla Revelatio nella filosofia contemporanea italiana, di Nicola Magliulo,
di recente uscita (giugno 2003) per le edizioni Saletta dell’uva. Queste pagine
sono state inviate via e-mail a Ciro Fiorentino che ha risposto all’autore
elaborando le sue impressioni. Infine, c’è la contro-risposta dell’autore. Se
non altro, queste pagine possono essere utili per sorprendere “dal vivo” un
frammento di ricerca filosofica genuina. Al fine di facilitare la fruizione,
abbiamo adottato qualche accorgimento grafico: le parti scritte dall’autore
sono colorate di verde mentre le parti scritte dall’interlocutore sono colorate
di blu.
IL (PRE)TESTO
(inviato a Ciro Fiorentino il
3/6/2003)
Essere
l’uno per, con, nell’altro: relazioni trinitarie e relazioni umane
di Nicola Magliulo
Cosa può significare,
per le nostre relazioni qui e ora, quell’essere
uno per, con, nell’altro delle Persone del Deus trinitas?
La ricerca intorno al Dio-che-è-relazione riguarda anche i nostri gesti, i nostri comportamenti, la nostra prassi più concreta. Gesù, come ha scritto Piero Coda, è venuto a salvare anche le relazioni tra gli uomini e non solo gli individui: “ In una parola: il Cristo non è solo l’accesso singolare e permanente alla relazione con il Padre, ma anche alla relazione tra gli uomini; anzi lo è pienamente nei confronti del Padre quando gli uomini si dispongono a raccogliersi in Lui diventando così, trinitariamente, <<uno nella distinzione>>…”[1].
In questo senso,
occorre ripensare le relazioni trinitarie e la pericoresi non come un’indistinta fusione o reductio ad unum, ma come quell’inseparabilità che non dissolve, ma
conserva, la distinzione tra le persone; domandandosi e approfondendo, inoltre,
ciò che questo simbolo può significare per le relazioni umane.
Si tratta certo di
interrogare un Impossibile che, tuttavia, rappresenta il confine, il limite, il
perimetro da cui possiamo guardare noi stessi e le nostre relazioni, misurare e
approfondire la nostra cultura, la nostra storia, le nostre comunità.
Il mistero delle
relazioni trinitarie ci viene donato e non può essere prodotto da noi, essere
in nostro potere: e questo amore è grazia che trasforma.
Essere per, con e uno nell’altro è, infatti,
ciò che non può dedursi o identificarsi con nessuno dei modi con cui le
relazioni umane, le varie forme di amicizia e di amore, anche le più elevate,
sono state vissute e pensate. Nelle nostre relazioni quotidiane, in cui il
nostro Io si esaurisce nei suoi piacerini e cantucci, nelle sue paure e
debolezze, nelle sue maschere, può accadere di avvertire, essere chiamati,
risvegliati da ciò che manca. Come si può sentire ed accogliere davvero in sé
l’altro: è la domanda che martella ogni esperienza relazionale intensa, vissuta
fino in fondo, e su cui gli uomini battono la testa, naufragano, anelano senza
poter riuscire a trovare nella dimensione mondana una via.
Senza dono, ascolto,
comunicazione, capacità di trasformarsi e di uscire da sé, di uno sguardo che
immagina le relazioni sub specie
trinitatis, l’amore per gli uomini resta confinato in uno spazio
esistenziale che si esaurisce in forme di simpatia, filantropia, compassione,
affetto.
Noi amiamo un Dio che
non sta in un aldilà separato da noi, ma amandoci l’uno per, con, nell’altro: e non possiamo davvero dirci amici e non servi, amarci, se non in
Dio, se non divenendo figli di Dio. Siamo chiamati ad amare in ogni creatura il
suo volto divino, ciò che è in lui altro da lui, a percepirne la gloria;
anche in chi patisce dolore, siamo invece abituati a pensare la presenza di
Gesù solo come quella del compagno che ha sofferto i nostri mali, senza,
insieme, riuscire a vederla come la gloria della e nella sofferenza.
Quelli che vengono
indicati come i tratti che determinerebbero la specificità dell’agape cristiana – ovvero il dono
smisurato e gratuito per il prossimo, e l’amore per il nemico – e che
costituirebbero la differenza tra essa e le altre forme di amore, non sembrano adeguati alla radicalità del mandatum novum se non sono connessi alla
percezione del volto divino, della gloria dell’altro.
Altrimenti, al
massimo potremmo considerare il nemico come una proiezione di un nostro problema,
e/o come colui che ci mette in discussione (secondo la sapienza della cella del Carl Schmitt di Ex captivitate salus); o esperire il dono gratuito come il fiore
della generosità ‘naturale’ dell’amore materno, ma resteremmo ancorati ad una
dimensione mondana confondendo i piani. Ineludibile, invece, per chi voglia
dirsi cristiano, è la necessità, che Gesù comanda, pur nella consapevolezza che
ciò rappresenti un impossibile per l’uomo, di separare i piani e di farsi
perfetti.
La straordinaria
misura d’amore di Gesù non è una potenza iscritta nella natura umana, ma è un
dono che la ‘spezza’ e la trascende, che posso conoscere solo nell’ascolto e
nell’imitazione del Suo amore, rinunciando alla philopsychia e
subordinando ad esso sentimenti e affetti: la carità non è un mezzo per guadagnarsi il paradiso, ma amore
gratuito, senza scopo, relazione d’amore che è dono attraverso cui mi faccio
uno con l’altro che soffre, ma anche comunicazione, contemplazione e unità,
condivisione profonda.
Come dobbiamo intendere, allora, il
comandamento di amare il prossimo per non tradirne la forza e l’inaudita
radicalità? Amarlo come si amano i propri cari, magari senza l’egoismo e la
eridaetà che accompagnano inevitabilmente i nostri affetti? O la caritas
evangelica ha un altro timbro, una radice celeste, che ne mostra la sua origine
divina, e che non può essere comparata neanche al più alto degli amori umani?
L’agape non ha origine dal
riconoscimento gratificante, dalla assiduità della convivenza, quanto piuttosto
dal vedere e amare l’imago dei nell’inafferrabile
singolarità della persona, attraverso
e oltre l’indistricabile nesso amico-nemico che ciascuno è per sé e per gli
altri.
Non si tratta, allora, di determinare la caritas come il vero amore che
garantisce una gioia stabile in quanto, a differenza di quelli umani/mondani,
si sottrarrebbe al divenire che annienta, all’inquietudine che accompagna come
un’ombra ogni felicità.
Il cristianesimo moltiplica e radicalizza la
nostra inquietudine in quanto deve, piuttosto, fondarsi sul Cristo che è venuto
a portare la spada, a invitare ad abbandonare, o a subordinare, il legame
affettivo con i propri cari per poterlo seguire: “ Perché chi ama suo padre e sua madre più di quanto ama me, non è degno
di me; chi ama suo figlio e sua figlia più di me non è degno di me” (Mt. 10,
37).
In questo senso la rottura evangelica con
desideri e affetti mondani va interpretata in modo più esteso e radicale della
stesse sistematizzazioni teologiche tradizionali, ritornando anche al ‘folle’
comandamento per cui occorre sradicarsi perfino dall’odio per il nemico: “ Se voi amate soltanto quelli che vi amano
che merito avete? Anche i malvagi si comportano così! Se voi amate solamente i
vostri amici, fate qualcosa di meglio di altri? Anche quelli che non conoscono
Dio si comportano così! Siate dunque perfetti, così com’è perfetto il Padre
vostro che è in cielo” (Mt 5, 46-7)
Dio è amore, ma amore non è “pappa del
cuore”, qualcosa di sentimentale ed emotivo. L’amore cristiano ti chiede di
amare i tuoi nemici – Hitler, per esempio, disse una volta con una battuta
paradossale Cacciari per mostrare la crudezza del problema e che cosa venisse
richiesto dalla follia di questa fede -; tragico è non potere che
combattere il nemico ma, insieme, doverlo amare provando ad attraversare il
fossato dell’inimicizia-ostilità, accogliendo e amando tutti, benedicendo tutto
ciò che incontriamo nella nostra esistenza, anche la morte, il nemico per
eccellenza vinto da Cristo.
Ma se l’agape implica un radicale mutamento del
concetto di amore, l’anelito ad essere uno
per, con, nell’altro, generato dall’immagine della gloria che è il cuore di
ogni creatura, è l’impossibile in questo mondo: non solo nel senso che gli
uomini possono scegliere di separarsi, chiudersi, rifiutare la relazione con
l’altro affermando un’inospitale philautìa,
o ancora in quello per cui non
percepiscono le creature come immagini di Dio, il loro volto divino e la loro
gloria; ma anche perché le relazioni umane mai, qui e ora, possono farsi icona perfetta delle relazioni d’amore
trinitarie.
Certo questo non vuol
dire, ad esempio sul piano teologico-politico, che ci si debba rassegnare al
dualismo che contempla in terra i poveri e gli assetati di giustizia come
sconfitti, e solo in paradiso come vincitori: perché se il regno di Dio non è
di questo mondo, il cristiano non può procedere qui e ora se non liberando,
configgendo con gli arconti, gli ipocriti farisei e anche con quanti pretendono
di primeggiare nel regno dei cieli come Giovanni e Giacomo, figli di Zebedeo: “
Ma Gesù li chiamò attorno a sé e disse:
<<Come voi sapete, i capi dei popoli comandano come duri padroni; le
persone potenti fanno sentire con la forza il peso della loro autorità. Ma tra
voi non deve essere così! Anzi, se uno tra voi vuole essere grande, si faccia
servitore degli altri. Se uno vuole essere il primo si faccia servo degli
altri. Perché anche il Figlio dell’uomo è venuto non per farsi servire, ma per
servire e per dare la sua vita come riscatto per la liberazione degli
uomini>>” (Matteo, 20, 25-28).
Né, viceversa, il
messaggio di Gesù può identificarsi con un messianismo politico per cui il
processo di liberazione sia interpretato come raggiungibile pienamente e
essenzialmente nella dimensione mondana, ripetendo il tentativo fallito e
sbagliato di chi ha identificato in tal modo regno dei cieli e prassi di liberazione politica, o di chi
vuole attuare in terra il regno dello Spirito.
In questo senso
occorre ripensare alle relazioni trinitarie senza ridurle unicamente a simbolo
delle relazioni umane nella loro dimensione comunitaria – come accadeva in
qualche misura nella tesi, che univa teologi di diverse tradizioni, <<La
Santa Trinità è il nostro programma sociale>> - ma restare in cammino
verso la patria trinitaria, che è già
e non ancora.
Solo questa riserva
escatologica può delimitare le pretese e i confini della nostra finitezza e
dare voce a ciò che è esiliato, rompere la granitica corazza della miseria
relazionale, aprendo il nostro cuore e la nostra immaginazione a ciò che eccede
inspiegabilmente l’orizzonte in cui siamo.
Nell’attesa che la
patria trinitaria venga a liberare i bozzoli di vita traditi e persi,
restituendo una ricchezza esistenziale appiattita, sciupata, ferita, e
mostrando come il nostro Io sia più largo dei vicoli ciechi e solitari in cui
finiscono le esistenze solitamente, o dei piacerini materiali e spirituali che
la riempiono.
2. Ma tutto quello che abbiamo detto finora,
dovrebbe inquietare la nostra stessa tradizione filosofica che dovrebbe ancora
sentirsi provocata a ripensare il modo con cui, di volta in volta, è stata
interpretata filosoficamente la relazione con l’altro: dall’antica philìa, alla moderna intersoggettività,
o al mit sein.
Nella filosofia
francese una riflessione in questa direzione è stata sviluppata da Derrida in
alcuni suoi recenti lavori: in particolare, in Politiche dell’amicizia[2], il filosofo
spiega come quel topos fondamentale,
espresso dalla formula “essere un’anima indivisibile in due corpi” – e
tutta la riflessione intorno all’amicizia da Aristotele a Cicerone, Montaigne,
e in parte Nietzsche -, non è assimilabile soltanto ad un’idea di amicizia
politica, ad un’armonia tra amicizia e polis.
Per Derrida, già fin dalla filosofia greca si dà il problema di un’amicizia che
trascenda la politica e la stessa giustizia; dunque, non si può affermare che
ci sia solo frattura, e non anche continuità, tra tradizione greca e cristiana,
e che insomma tra le due debba darsi un salutare rimescolamento che ne metta in
discussione la cristallizzazione di identità concepite come separate.
Ma anche Derrida
vede, concludendo il suo libro, come non ci si possa fermare a questi aspetti
di continuità, e come passaggi decisivi del discorso di Zarathustra richiamino
e richiedano un confronto con l’inaudita radicalità dell’agape comandata da Gesù e l’eccezionalità di quell’amore per il
nemico che spezza ogni possibile economia del dono.
Tuttavia, nonostante il filosofo francese sottolinei la solitudine del Dio aristotelico e greco – divinità autarchica che vive in beatitudine senza alcun bisogno di relazioni con altri che non sia se stesso – non arriva a confrontarsi con i problemi che la specificità di un Dio-che-è-relazione solleva anche rispetto alle relazioni umane[3].
Ma è nella filosofia
italiana che la discussione intorno al nesso identità-relazione appare
particolarmente approfondita e stimolante e solleva molteplici interrogativi:
l’unica dimensione che ci lega, che condividiamo è l’assenza di comunità?
Dobbiamo intendere la nostra identità, il soggetto, l’individuo come
originariamente isolato da ogni altro? O come costitutivamente in relazione con
l’altro da sé? E in una relazione accidentale o necessaria? E’ necessaria solo
la relazione tra le Persone del Deus Trinitas o può esserlo anche quella tra le
creature? L’identità del soggetto con se stesso è data dall’impossibilità di divenire
altro da sé, per cui “essere insieme
(con) è essere negazione (non)”[4] dell’altro da
sé(Severino)? O, viceversa, il proprio
del nostro essere se stessi è essere l’altro da sé (Donà)[5]?
Nelle belle pagine
che Severino dedica nel suo Gloria[6] alla
possibilità di esperire l’esperienza
altrui, ciò che consente di relazionarsi a ciò che l’altro patisce, è
essenzialmente quell’essere-identico a sé comune a tutti gli enti. In questo
senso, siamo tutti identici nell’essere differenti, e differenti nell’essere
identici. Mai potrebbe darsi, e in effetti
nel percorso di Severino è particolarmente in ombra, una riflessione sulle
relazioni trinitarie, in cui ciascuna persona ‘include’ in sé l’altra, e tanto
meno su quell’essere per, con, uno
nell’altro su cui stiamo meditando.
Note al testo Essere
l’uno per, con, nell’altro: relazioni trinitarie e relazioni umane
1 P. Coda, Sul concetto e il luogo di un’antropologia
trinitaria in P. Coda- L’ubomir Zak (edd.), Abitando la Trinità. Per un rinnovamento dell’ontologia, Città
Nuova 1998, p. 128. Cf. anche: P. Coda-
A, Tapken (edd.), La Trinità e il pensare, Città nuova, 1997.
2 Jaca Book, 1995.
3 Tema, invece, appena
sfiorato da un altro filosofo francese contemporaneo, Nancy: Dio se è pensato,
come in Spinoza e Leibiniz, come l’essere insieme di tutto quanto è, non è Dio.
“Un Dio trinitario, in compenso,
rappresenta l’essere-insieme come la sua stessa divinità, ed è così che non è
più neanch’esso <<Dio>>, ma l’essere-insieme in una forma
onto-teologica. Tocchiamo qui un altro tema di quella <<decostruzione del
cristianesimo>> che ho evocato a proposito della creazione e indoviniamo
anche il nesso intimo tra tutti i grandi temi della dogmatica cristiana,
nessuno dei quali potrà essere lasciato intatto dalla decostruzione” (J.L.
Nancy, Essere singolare plurale,
Einaudi 2001, p. 83, in nota).
4 E. Severino, Tautotes, Adelphi 1995, p. 150.
5 M. Donà, Aporia del fondamento, La Città del sole,
2000. Per Donà l’identità del soggetto, di A, mai potrà essere afferrata
attraverso le sue positive o negative determinazioni, che anzi la determinano
come originariamente indeterminata; il che, detto in una formula, equivale a:
NON-A = A o A=B. Nessun confine potrà davvero valere come definita separazione
tra lo spazio esistenziale di A e di NON-A.
6 Adelphi, 2001.
La risposta dell’interlocutore
(inviata a Nicola Magliulo il 12/6/2003)
Caro Nicola,
ieri sono riuscito a trovare il tempo
per leggere con l’attenzione che meritava l’estratto del tuo prossimo libro.
Innanzitutto, consentimi di fare un’osservazione che non riguarda il merito. La
tua è una religiosità profonda e vissuta e, se per un verso, suscita meraviglia
in me il fatto che tu continui a definirti ateo, per altro verso, non so
definire se non come autenticamente cristiana l’ispirazione delle tue
parole. Ma, forse, è il destino stesso di ogni profondo sentire quello di
vivere, lacerarsi e, per usare un tuo termine, glorificarsi nel paradosso.
La tua lettura del simbolo trinitario
– “...ci viene donato... è grazia che trasforma” – mai scade in una
banalizzazione psicologica o nella concettualizzazione filosofica
dell’intersoggettività: solo la religio
è appello ad un compito che appare radicale perché viene dall’impossibile.
Nulla è più rigoroso nell’eversione di ogni verità, di ogni presunto rifugio,
di ogni “cantuccio”, se non il richiamo che viene dall’Altro. Che è dunque
amore nella cui superlatività risuona tuttavia una durezza estrema, direi
inumana poiché esso è negazione di quanto noi sappiamo e viviamo dell’amore. Tu
non ti sei nascosto di fronte a questa contraddizione. Anzi, in essa individui,
e giustamente, il cuore non solo del simbolo trinitario ma dell’essere
cristiano.
Sulla base di quanto scrivi, sono
stato indotto a riflettere sulla perfezione (che mi sembrava il filo rosso
della prima parte dell’estratto) e su quanto essa significhi per un cristiano
(del resto tu evochi esplicitamente l’impossibile invito del Cristo a farsi
perfetti). Essa non è esaltazione di qualità già date (per troppo tempo abbiamo
pensato all’Altro come ad un potenziamento del Medesimo), non è compiutezza nel
raggiungimento di un fine (per troppo tempo abbiamo guardato alla Maestà divina
come ad una Provvidenza in grado di giustificare cose troppo umane, persino le
meschinità e nefandezze della storia), non è nemmeno possesso pieno di
proprietà generiche (come accadeva nelle vecchie prove dell’esistenza di Dio –
se Dio è Dio deve esistere per forza poiché al genere di cose cui appartiene
Dio appartiene necessariamente l’esistenza – o come accadeva nella enumerazione
degli attributi divini – se Dio è Uno, è anche Unico, se Unico anche Infinito
ecc. -). No: la perfezione per noi è negazione di tutto ciò che sappiamo,
facciamo e siamo; è la “mazzata” che mette a nudo la nostra nudità. In essa,
vedo un elemento che per essere disperante conduce lontano da una facile
percezione della “promessa” evangelica o da ogni speranza guadagnata a buon
mercato. Essere cristiano e vivere nell’ombra della perfezione può allora
significare attraversare il deserto della disperazione (può un cristiano dirsi
tale se osa pensare che la Via indicata dal Cristo porti effettivamente da
qualche parte? Ad esempio, all’indiamento? Che la imitazione del Cristo sia
possibile identità con Lui?). Se essere cristiano significa sapere della
propria irrimediabile lontananza da ogni perfezione allora ogni cristiano vive
anche della impossibilità di essere tale (credo che questa sia una delle
“verità” del Grande Inquisitore che, del resto, è una delle
anime della tormentata religiosità di Ivan Karamazov/Dostoevskij). Insomma,
parlare della perfezione significa essere tirati giù nel magma delle relazioni
mondane. Perciò, vedevo una separazione fra la relazione trinitaria
all’altro e quella che si dà tra le creature che non coincide esattamente con
il discrimine della necessità (come tu proponevi in una domanda a conclusione
dell’estratto). Mi spiego: penso che la relazione all’altro (stavolta lo scrivo
con la minuscola) sia necessaria anche per la creatura (poiché non è
nient’altro che la sua libertà/destino): solo che non è della stessa perfezione
della relazione trinitaria. La relazione all’altro, per l’esserci, può darsi (o
necessariamente si dà?) nell’anonimato in cui l’altro è il senza-volto, nella
violenza in cui l’altro è annientamento di ogni identità e singolarità, è
l’inglorioso regno della morte in cui il medesimo nulla pareggia ogni essere e
ogni valore. Se è così, allora è problematico anche parlare di simbolo a
proposito della Trinità (il simbolo presuppone una prossimità fra le parti che
lo compongono). Esso, come dicevi tu è cifra dell’Impossibile.
Ma, d’altro canto, può un cristiano
indugiare nella disperazione? Può ritenere che con essa si esaurisca la propria
autoconsapevolezza? No: non è possibile nemmeno questo. Un cristiano può
e deve deve correre il rischio di essere consegnato totalmente alla
disperazione ma la religio (che è sentimento della filialità-fraternità) sbarra
il passo ad ogni autocompiacimento nella disperazione. Il cinismo estremo
(come nel Grande Inquisitore) è la possibilità di ogni cristiano
(non nel senso di ciò che può accadere ma nel senso di ciò che inevitabilmente
segna la possibilità di essere cristiano), ma non è la parola definitiva. Forse
perché la religio è pietas e cura per tutto ciò che inevitabilmente subisce lo
scempio del peccato, della perdizione, dell’annientamento, della morte. Posso
sentirmi fratello con altri quando vivo la perfezione come maledizione e
negazione e perciò, secondo la parola evangelica, non mi ergo a giudice
dell’altro poiché so di vivere della sua stessa morte, so di essere lacerato
originariamente dalla stessa possibilità di peccato, so di aver sempre bisogno
di perdono.
Ma il passo oltre la disperazione, non
è consentito dalla ragione filosofica (tu sai che in base ad essa sono
impegnato in una riflessione intorno all’esserci e al suo nulla che non vede
redenzione) ma solo dalla religio. A questa altezza credo tu ti sia mantenuto.
Caro Nicola, ti ringrazio per avermi
fatto leggere le tue pagine perché mi hai regalato la possibilità di riflettere
su cose per le quali la tua attenzione si è rivelata più vigile della mia.
Un’ultima osservazione: il rigore
teorico si unisce nel tuo scritto alla godibilità e immediatezza dello stile
(traduci: sei riuscito a riferire al concreto esistenziale ciò che vagola nei
regni dell’astrattezza concettuale, il che non è solo un fatto stilistico).
Questo non vuole essere soltanto un complimento, ma testimonianza di
comunicazione profonda.
Ci vediamo.
Fraternamente. Ciro.
La risposta dell’autore
(inviata a Ciro Fiorentino il
14/6/2003)
Carissimo Ciro,
bisognerebbe sempre augurarsi
interlocutori attenti e appassionati come te! Le cose lucide e misurate che mi
scrivi sul mio testo sono per me uno specchio prezioso per capire cosa scrivo e
cosa comunico...ciò che mi rimandi coincide profondamente con quanto ho cercato
di comprendere e dire.
Certo non posso dirmi ateo ma non
credente in lotta con l'Angelo o inquietato da tanto da Gesù..in qualche momento
supero dentro di me la soglia e mi sento credente ma prevalentemente torno ad
essere non credente.
Ma le definizioni di questo tipo
servono a poco se non esplicitate. Nel brano che segue, tratto anch'esso dal
libro che sta per uscire, aiutandomi anche con riflessioni cacciariane, cerco
di dire qualcosa sulla differenza tra credenti e non credenti:" Qual è
allora il bivio sottile che separa, divide, in definitiva, la certezza inquieta
di chi crede di credere dal dubbio
inquieto di chi crede di non credere?
Perché crediamo di non credere?
Perché crediamo che ciò che muove il nostro interrogarci, che suscita il nostro
stupore e il nostro dolore, che balena nel cielo o tace, inerte, in una
sofferenza innocente, che accende l’amore per il prossimo, non sia la
rivelazione di un Chi ma, piuttosto, l’altra faccia del proprio se stesso, la
manifestazione del silenzio e del mistero senza nome che è in fondo alla
propria anima e al darsi del mondo, l’espressione di una filìa per ciò che vive. In fondo non percepiamo il volto divino
delle cose, la gloria delle creature e quindi non abbiamo fede nell’uomo e nel
Figlio dell’Uomo. E, tuttavia, tragicamente - che non vuol dire affatto
luttuosamente - coloro che credono di non
credere non possono che dubitare che questo silenzio non possa avere Nome,
e procedono confitti in questo invalicabile polemos
".
Il silenzio raggelante che spira
non di rado nelle relazioni umane, lavorative, matrimoniali,
politiche, etc., e i nodi che ne soffocano e tormentano la vita, producono in
me, a partire da me, una desperatio hominis che seppure non ha nulla del lutto,
della lamentazione, del pessimismo consolatorio, non riesce prevalentemente a
essere ricompreso in un orizzonte più ampio, sia esso religioso, metafisico e
quel che si voglia, senza almeno alimentare tonalità emotive e aporie
immedicabili. Quel nesso che tu hai individuato benissimo tra perfezione e
finitezza, tra Impossibile e finitezza, implica per me anche lo smarrimento di
una possibilità redentiva, comunque formulata. E, come accade nella tragedia
greca, si ripete la domanda e l'invocazione: da dove questo male? Solo colpa
umana? Dagli dei, che ci mandano insieme morbi e salvezza? Perché siamo
trascinati in queste peripezie che fanno delle nostre vite offese?
Quando accade che il dolore ti sfonda
il cuore e ti fa prigioniero, allora siamo condotti davanti all'aut aut in cui
dobbiamo decidere se insistere nei nostri amori umani troppo umani, riiniziando
ogni volta a ripercorre il pendolo tra dolore e noia, o se possiamo deciderci
per altro.
Mi vado facendo l'idea che nel tempo
della morte di Dio e in una società radicalmente secolarizzata, i
patimenti - per chi ancora ha sensibilità e profondità per viverli- e le
spirali delle nostre relazioni private e pubbliche producano un dolore la cui
esperienza ci restituisce, come dopo una via crucis mondana, l'amore cristiano
come un possibile sbocco oltre nichilistico. Una sofferta Passione
umana troppo umana ci riconsegnerebbe stremati e laceri al Padre, come il figliuol
prodigo.
Un caro saluto dal tuo Nicola.