Riflessioni sul dialetto |
Girando per il paese mi capita sovente di cogliere frammenti di conversazioni tra premurose mamme intente ad insegnare ai figlioletti la lingua italiana, molte volte in un italiano corretto, altre volte in una lingua che è la traduzione letterale dal dialetto all'italiano. Se, ad esempio, traduco letteralmente "Vaju addue nanna", ottengo una frase in un italiano bastardo che suona: "Vado dove la nonna" perché in dialetto, invece della preposizione articolata "dalla", adoperiamo l'avverbio di luogo "dove." Bene, frasi come questa, non solo mi è capitato di sentirle centinaia di volte, ma mi hanno procurato anche un sacco di lavoro come maestro per correggere qualche mio alunno che le pronunciava. Nel nostro dialetto facciamo un uso molto diverso delle preposizioni semplici o articolate, rispetto alla lingua italiana. Ad esempio diciamo "Vaju alla cchjiesia", mentre in italiano si usa "in", "Luigi è ricotu alla casa", con la preposizione articolata mentre in italiano usiamo quella semplice: "Luigi è tornato a casa." La stessa cosa vale per i verbi. Molti verbi che in italiano sono transitivi, in dialetto diventano intransitivi o viceversa per cui non è possibile una traduzione letterale dal dialetto all'italiano, così come non è mai possibile anche dall'italiano in altre lingue. Questo, però, non significa che la nostra lingua materna sia un qualcosa da buttare, anzi la sua conoscenza, essendo il dialetto il prodotto dell'incontro, nell'Italia meridionale e, in Calabria in particolare, di decine e decine di civiltà, costituisce un cospicuo patrimonio di conoscenza che ha affascinato grandi studiosi, anche stranieri, a partire dal Rohlfs.
'E due vegnu portu cipulle! Ogni autentico caccurese conosce certamente questo simpatico modo di dire. Beh, sarà simpatico per chi lo pronuncia, un po' meno per l'interlocutore - destinatario della minaccia, a meno che l'ammonimento non si rivolto a terze persone, magari non presenti. Le cipolle in questione, ovviamente, non sono quelle belle, dolci di Tropea che io e Mario coltiviamo con amore e con una cura maniacale (oramai ci chiamo Attila perché dove passiamo non cresce più un filo d'erba selvatica), ma sono cipolle metaforiche, ovvero lividi, ficozze, bernoccoli; insomma palate. In italiano si potrebbe tradurre liberamente "Ti arrivano botte da ogni parte", in napoletano "Statte accuortu ca so' mazzate!" Comunque, fuor di metafora, fra qualche giorno davvero io e Mario ogni volta che verremo ossia torneremo in paese, porteremo cipolle, perciò chi ci vuol male è avvisato. Ma poi penso che è un avviso senza senso: chi potrebbe voler male a Mariuzzo nostro? Zimmèlli Ecco
un altro sostantivo caccurese del quale è difficile spiegarsi il
significato. E' una parola ancora usata nel dialetto corrente. Il
suo significato, più o meno letterale è ciarpame, oggetti inutili
e inutilmente ingombranti che spesso creano notevoli problemi di
spazio in casa. Il termine è dispregiativo, ma può anche
trasformarsi in un qualcosa che sta a significare il nostro
attaccamento a oggetti ritenuti inutili e inservibili, ma ai quali,
siamo comunque legati da piacevoli ricordi per cui alla fine optiamo
per tenerceli in casa sopportandone i disagi. Piàre 'e tumme Non sono mai riuscito a spiegarmi l'origine di questa curiosa espressione caccurese il cui significato è più o meno "deperire, iniziare il declino, essere in punto di morte". Una volta era molto usata nel linguaggio corrente, ora la si sente sempre più raramente e solo in bocca a persone di una certa età. Sarebbe davvero interessante se si riuscisse a far luce su questa specie di mistero, ma forse qualcuno più anziano o più ferrato di me nel dialetto potrebbe darci qualche delucidazione. Intanto registriamo che la "tumma" più conosciuta è un formaggio vaccino tipico dell'isola di Pantelleria, dolce e leggero, ma non credo abbia qualcosa in comune con la nostra "amara presa d'atto."
Sumiàre
Sumiàre
è un bellissimo verbo del nostro dialetto che si adopera per
indicare una piccolissima, insignificante perdita di liquido da un
serbatoio qualunque. Così si dice spesso che 'a vutta sumia', 'a
cipia sumia', 'u varrile sumia'. Jannacca
Schettu - a
Scapulàre Conoscere il dialetto è molto bello, non solo perché questo ci consente di continuare a usare correttamente la lingua dei nostri avi e quindi di conservare il più possibile intatte le nostre radici, ma anche perché, attraverso lo studio più o meno approfondito della lingua locale, riusciamo a ricostruire il nostro passato e l'evoluzione storica delle antiche lingue dalle cui ceneri o dalle cui radici nascono i dialetti. Così si scoprono cose molto interessanti che allargano l'orizzonte della nostra conoscenza. Prendiamo il verbo scapulàre, presente in quasi tutti i dialetti meridionali, compreso il caccurese. Si tratta di un verbo che nasce dalla fusione della preposizione latina ex usata per reggere un complemento di moto da luogo, nel significato di "fuori da" e dal sostantivo capùlum, cappio, lacciuolo, oggetto che serve per afferrare. Scapulàre significa perciò, letteralmente, liberarsi da un cappio. Per questi motivi il verbo è usato nel nostro dialetto, sia nel significato di smettere di lavorare (liberarsi dal lavoro) che di congedare, liquidare, mandare via. "L'he scapulati" (li ho liberati da un legame, da un obbligo, li ho liquidati, me ne sono liberato. Stranamente, però, nei dialetti meridionali, per tradurre "celibe", invece di usare "scapolo", come avviene nella lingua italiana, si ricorre all'aggettivo "schettu". Ma questo lo scopriremo nelle "prossime puntate." Ammicciàre Il verbo ammicciàre nel nostro dialetto ha due significati: il primo, usato in falegnameria, sta per realizzare un incastro, ( 'a miccia) di cui abbiamo già parlato diffusamente su questa stessa pagina, il secondo, invece, sta per "farci caso, porci un'attenzione maggiore". A volte di fronte a un fatto o a una situazione particolare adottiamo un comportamento superficiale perché non poniamo attenzione a qualche dettaglio apparentemente insignificante, poi, magari su suggerimento di qualcuno, "ci ammicciàmo", cioè vi poniamo una maggiore attenzione allora quel fatto o quella situazione ci appaiono sotto una luce completamente diversa per cui ci rivolgiamo al nostro amico o al nostro parente dicendogli: " 'Un c'avìari ammicciàtu", "Te ringraziu ca mi c'ha fattu ammicciàre."
Pùrchjia Devo al mio grande amico Vincenzo Fazio (Ciciarone), scomparso negli anni '80, la conoscenza di questo bellissimo sostantivo oramai completamente scomparso dal nostro dialetto e conosciuto solo da qualche pastore che ha più di 70 anni. Glielo avevo sentito ripetere spesso, ma non avevo avuto mai il tempo ( o forse la curiosità) di chiedergli il significato. A ciò si aggiunga il fatto che la mia proverbiale sordità che mi trascino dietro sin dall'infanzia (ma va anche detto a onor del vero che certi amici che mi sfottono sono messi molto peggio di me) non mi aveva fatto capire bene la consonante iniziale per cui confondevo pùrchjia con turchjia. E' stato nel corso di un incontro fortuito con l'altro mio amico, Giovanni Gallo, pastore in pensione e grande esperto del mondo agro - pastorale, fra l'altro nipote acquisito di Vincenzo Fazio, che sono riuscito a completare questa mia piccola ricerca. Magari da domani scoprirò che un sacco di gente conosceva il termine, ma ciò non sminuisce la mia personale soddisfazione. E ora veniamo al significato: pùrchjia si riferisce alla pecora e significa semplicemente puerpera; la pecora pùrchjia è perciò una pecora figliata da poco. E ora parafrasando il grande Ferruccio Amendola in un film della coppia Bud Spencer - Terence Hill, mi vien da dire che "il mio più grande difetto nella vita è quello di pensare che queste bellissime parole del nostro dialetto, non dico tornino di uso comune, anche perché sono spiti da tempo pecore e pastori, ma che non vadano perdute."
Cognomi di origine longobarda o gotica Dall'immenso
crogiolo lingustico calabrese nel quale si sono fusi termini
derivanti dalle lingue di decine e decine di popoli occupanti, oltre
a molti aggettivi e sostantivi di origine longobarda come Nnocca
(knocca), stuccu
(Stukki), trincare,
cioè bere (trinkan), saltano fuori anche alcuni cognomi della
stessa derivazione come Librandi
(da Aliprandus), Raimondo
o Raimondi
(da Ragemundus), Talarico
(da Athalaricus) con le varianti di Tallarico,
Tallerico
e Talerico
dovute, probabilmente, a errori di trascrizione. 'A morte 'e Giacchinu Con
questa espressione nel dialetto caccurese si vuole indicare una
musica o una canzone triste di quelle che ti deprimono e che
provocano trestezza o noia. Mi sono chiesto più volte quale potesse
essere l'origine del detto. Assai improbabile che si faccia
riferimento all'abate Gioacchino da Fiore, morto agli inzi del XIII
secolo, quindi oltre otto secoli fa, mentre è più credibile che
possa riferirsi alla messa da requiem di Verdi scritta nel 1874 per
onorare la memoria di Gioacchino Rossini. " 'A mamma " "Nn' he chjinu 'na visazza e la màmma" oppure "Nn'he chjiunu cinque casciotte e la mamma." Spesso da bambino sentivo ripetere frasi del genere, ma non ne afferravo appieno il significato. Intuivo che si usavano espressioni del genere per definire un buon raccolto, ma non capivo cosa c'entrasse la mamma con le olive o con le patate. Poi me me lo sono fatto spiegare e, per molti anni me ne sono stato quieto. Ma la vecchiaia, si sa, rende anche un tantino dispettosi per cui qualche tempo fa mi sono divertito a sottoporre il quesito ad alcuni giovani sottoponendoli a questo particolare "test". Anche loro si sono trovati nelle stesse difficoltà che incontrai io da ragazzo perché gli adulti non hanno tempo di soffermarsi a spiegare queste cose e ai giovani gliene può importare di meno. Eppure si tratta di una epressione molto bella e molto dolce. E' noto che la mamma, sia essa una donna, sia essa la femmina di un qualsiasi animale, tende sempre a proteggere i figli, soprattutto dal freddo coprendoli il più possibile, un tempo addirittura sotto le sottane come fa la chioccia quando prende i pulcini sotto le ali. Ora la mamma in questione non è altro che la quantità di prodotto che si mette in cima al sacco o a qualsiasi altro contenitore per coprire il prodotto già conservato, appunto come una mamma che ammanta i suoi piccoli. Insomma 'a curmatura per dirlo in altro modo.
Puta e Reglia
Ancora
tre bellissimi esempi della ricchezza del nostro dialetto, un
patrimonio che dobbiamo a tutti i costi tutelare e tramandare alle
generazioni future. Le prime due parole sono avverbi di tempo,
il primo significa "a breve" (generalmente entro tre
giorni), mentre il secondo "fra otto giorni"; la
terza è una locuzione con la quale si indica il Carnevale ( i tre
giorni di carnevale). Zirru, trena, tiritocta Trena. zirru, tiritocta; tre strumenti oramai quasi scomparsi, anche se l'anno scorso, grazie all'impegno dei fratelli Pitaro, hanno fatto una timida ricomparsa, qui a Caccuri, durante i riti della Settimana santa. In effetti questi curiosi "giocattoli" della nostra infanzia, inventati, pare da Archita di Taranto circa quattrocento anni prima della nascita di Cristo, venivano adoperati, prima del Concilio ecumenico Vaticano II, anche nei luoghi di culto durante i riti della Passione per sostituire le campane, mute per il lutto della Chiesa fino alla resurrezione del "Figlio di Dio". Mi sono chiesto spesso quale potrebbe essere l'origine dei nomi di questi tre strumenti fino a giungere alla conclusione che potrebbe trattarsi di parole onomatopeiche in quanto riproducono nel nome il loro rumore caratteristico. Questo per zirru e tiritocta; per trena, oltre a questa probabile origine ce ne potrebbe essere una più suggestiva: trena potrebbe derivare dal greco threnos, il treno, canto funebre. Ciò perché, come già detto, il suono della trena non era altro che una sorta di canto funebre per la morte di Gesù Cristo. Forse non è così, ma a me piace immaginarlo. Sciasciare Ecco un altro verbo del nostro dialetto oramai scomparso per "mancanza dell'azione." Fino a qualche decennio fa le mamme avevano la simpatica abitudine, che pare risalisse attirittura a 4.000 anni prima di Cristo, di fasciare i bambini come se fossero dei capicollo infliggendo loro, probabilmente, una sorta di tortura cinese ( non ho mai capito cos'è una tortura cinese, ma lo dicono tutti). Ovviamente, dopo qualche ora il bambino doveva essere cambiato per cui la mamma lo doveva sciasciàre, cioè doveva togliere le fasce. Ora, sparite le fasce è sparito anche il verbo. E' rimasta solo la polemica tra i medici favorevoli alle fasciature e quelli contrari. I primi sostengono che i bimbi non fasciati rischiano di morire nella culla, mentre i secondi sostengono che a rischiare di morire nella culla sono quelli che vengono fasciati. Più chiaro di così........
Ammùzzu Bellissimo questo sostantivo ancora fortunatamente molto usato nel nostro dialetto. Si tratta di un sostantivo di origine calabro - sicula il cui signidicato originario è quello di cottimo, cioè di un lavoro pagato sulla base di un prezzo pattuito, indipendentemente dal tempo impiegato per eseguirlo. Nel tempo, però, é stato sempre più usato con il significato di "a vanvera, a occhio e croce, senza particolare applicazione" e con qusto significato si va diffondendo in alcune regioni dell'Italia del nord come la Liguria occidentale dove sono presenti numerose comunità di immigrati calabrsei- Spunnacàre Spunnacàre è un verbo dialettale di origine araba oramai quasi scomparso dal nostro dialetto. Lo usa molto raramente solo qualche persona molto avanti negli anni o qualche raro cultore del dialetto in vena di facezie. Spunnacare deriva, come detto, dal sostantivo arabo funduq che significa casa, magazzino, alloggio per mercanti, ma comunemente viene adoperato per indicare un magazzino all'ingrosso. Sfunnacare perciò, in molti dialetti italiani, come ad esempio quelli del Cilento, significa svuotare un magazzino magari per riempirne un altro. Nel dialetto caccurese progressivamente la lettera "f" si è trasformata in una "p" per cui sfunnacare in caccurese é diventato spunnacare. Fino a qualche decennio fa il verbo era usato esclusivamente quando ci si riferiva all'approvigionamento dei tabaccai di sali e tabacchi dai depositi dei Monopoli di Stato. Arrancàre Ecco un bellisismo verbo che potrebbe essere facilmente confuso col verbo italiano arrancare, ma che in dialetto ha un significato molto diverso. Mentre in italiano arrancare significa trascinarsi faticosamente, camminare sbilenco e con uno sforzo ben visibile, in dialetto significa accorerre da qualche parte, fare una capatina in un posto nel quale si verifica un particolare evento. es. "Mo ce vaju arrancu", "Si tegnu tempu ce fazzu n'arrancata." Ziculìa Ziculia è un 'altro bellisismo termine dialettale che non si usa quasi più. E' un aggettivo con valore di avverbio che viene adoperato per indicare una modica quantità o anche un'azione flebile. Es. "Chjovari? Si, ma è 'na ziculia." Deriva sicuramente dall'avverbio zicu che significa poco.
Davvero bella ed efficace questa composizione lingustica formata da un verbo (mmuccàre) e da un sostantivo (ficu) e che serve a definire un credulone, un sempliciotto che crede a tutto, che si beve qualsiasi fandonia. Mmuccare, infatti significa inghiottire, deglutire, quindi alla lettera il significato di mmuccaficu è "uno che si inghiotte i fichi", una persona che crede a qualsiasi panzana, insomma.
'A
miccia nel nostro
dialetto, oltre a indicare il cordoncino che brucia per innescare un
esplodente, è anche e soprattutto l'incastro per legno in
falegnameria. Ovviamente ci sono diversi tipi di "micce",
ma il più diffuso è quello a tenone e mortasa passante per cui
quando si parla di miccia si è portati a pensare a quel tipo.
Quando ancora non c'erano le pialle elettriche con toupie e trapano
la mortasa veniva realizzata a mano usando uno scalpello particolare
e una mazza di legno con un lavoro duro, lungo e difficile che
richiedeva grande abilità da parte del falegname per evitare che un
foro fatto male rendesse difficille la messa a squadra delle assi
che dovevano poi essere unite nell'incastro. Ecco
due parole un tempo molto in uso, ma ora poco adoperate,
mutuate dal linguaggio dei contadini e degli artigiani. La prima è
un sostantivo e indica un picolo accumulo di terra col quale si
deviava l'acqua nei vari solchi dell'orto quando si praticava
l'irigazione a scorrimento senza l'ausilio di tubi di gomma o di
impianti a goccia. "Cacciare 'a mmarràta significava, perciò,
togliere con la zappa l'accumulo di terra che sbarrava la via
all'acqua per mandarla in un determinato solco, mentre
"mìntere 'a mmarràta" significava esattamente l'opposto. Scacchìare Questo verbo potrebbe essere confuso con scacchjiàre, ma, a parte la diversa pronuncia, è molto diverso anche il singnificato. Scacchìare significa ridere rumorosamente, in modo sguaiato, spesso senza un valido motivo. Si virìa cumu scacchìava' ...... oppure S'ha fattu 'na scacchìata ...... Gnermitàre
Gnermitàre è uno dei tantissimi, bellissimi verbi ereditati dal mondo contadino e che rischiano di sparire con la sparizione di quel vecchio mondo e di quella vecchia cultura. Il significato è quello di riuscire a fare qualcosa di complicato che richiede pazienza e abilità, compiere un'azione difficile e ha origine nell'arte, appunto, di jermitare, cioè preparare 'u jermitu o l' abbauzu. Quando ancora i contadini mietevano il grano con la falce, non si limitavano a tagliare lo stelo delle spighe, ma, contemporaneamente le legavano tra loro a fascetti di dieci o quindici. Tali fascetti prendevano il nome di jermitu o abbauzu. Poiché il fronte dei mietitori doveva procedere compatto lungo una linea orizzontale (antu) senza che qualcuno rimanesse indietro, non si poteva perdere molto tempo a preparare i jermiti che poi venivano lasciati a terra e raccolti dalle donne che a loro volta li univano tra loro a formare le gregne, l'operazione richiedeva quindi destrezza e velocità, soprattutto considerando che il falciatore doveva legare tra loro gli steli con la mano destra nella quale stringeva contemporaneamente la falce, per cui gnermitare divenne sinonimo di abilità e rapidità nel fare qualcosa. "L'he gnermitàtu" perciò significa: "Sono riuscito a far bene una cosa complicata". Scacchjiàre Scacchjiàre
è, invece, un verbo di interpretazione etimologica molto più
semplice. Deriva, infatti da cacchjiu
(cappio) e significa letteralmente togliere dal cappio, sciogliere,
slegare. Viene adoperato generalemente per dire che si è riusciti a
comprendere un qualcosa di difficile, a svelare un arcano oppure il
contrario " 'un c'he scacchjiatu nente", non ho capito un
bel niente. Il verbo scariàre apparentemente è simile a scaràre, ma in realtà si tratta di due verbi diversi. Scarare si usa per i prodotti agricoli col significato di " 'nquirere", ricercare accuratamente il prodotto affinché nulla vada perduto, come ad esempio per le olive nascoste tra l'erba, le castagne, i fagioli secchi. Scariàre, invece, ha un uso, come dire, più domestico e significa frugare alla ricerca di qualcosa che non si riesce a trovare. Es. C'è scariatu, ma 'un signu riesciutu a lu trovare", He scariàtu 'ntr' 'u como', ma 'un l'he trovatu. Rriciniàre Rriciniàre è un altro verbo oramai poco usato e significa stropicciare, sfregarsi gli occhi. "Quannu te rricinìi l'occhji vo' dire ca te fa sonnu." Caccia
fama e va a metere! Nnacizzàre - Scaràre Sono due bei verbi della società contadina quasi in disuso. Il significato letterale del primo è inacidire ed è usato in riferimento a ortaggi o frutta andati a male. A volte viene sostituito con "piatu 'e l'aciru." Il secondo indica la parte finale di un raccolto quando si va alla ricerca accurata degli ultimi ortaggi o delle ultime verdurte, ad esempio gli ultimi pomodori rimasti sulla pianta, le olive o le castagne nascoste far i sassi o le sterpaglie, insomma per " 'nquirere" come spiegato in basso in questa stessa pagina. Vèrtula , visazza e sacchetta Chi non conosce il famoso proverbio " 'A cumperenzia rrazza la vertula" oppure l'altro altrettanto famoso " 'U latru s'attacca la vertula." Certo non sono famosi come l'ìncipit della favola di Fedro "Peras imposuit Iuppiter nobis duas", ma in ogni caso abbastanza conosciuti. Il primo ci ammonisce a non essere troppo buoni e a non dare troppa confidenza per evitare che i beneficiati ci strappino la bisaccia per sottrarne il contenuto, il secondo stigmatizza la diffidenza del ladro che, commisurando l'onestà degli altri alla sua, lega con cura la bisaccia temendo che qualcuno possa derubarlo. La nostra vertula infatti è la sarda " sa bertula", ovvero la bisaccia, da non confondere con la visazza lasciandosi trarre in inganno dall'assonanza con il sostantivo italiano. 'A visazza, infatti, è un sacco di juta (cannavellu) della capacità di una ottantina di litri o poco meno. Se le dimensioni sono più modeste (20 - 25 litri) si parla di sacchetta. Acciu, petrusinu e vasalicò Ci occupiano questa volta delle tre piante aromatiche più conosciute e più diffuse i cui nomi dialettali derivano tutti dal latino, la lingua dei nostri padri, un tempo lingua universale, poi dismessa, non solo dalla scuola italiana, ma anche dalla chiesa e oggi conosciuta in modo approfondito solo in Germania e in qualche altro paese civile. L'acciu altri non è che l'apium gravolens, il comunissimo sedano. 'U petrusinu, bellissimo sostantivo presente in tuttti i dialetti meridionali, è il latino proteselinu, ovvero il prezzemolo che va bene dappertutto (petrusinu ogni minerra). Infine 'u vasalicò è l'ocium basilicum (greco basilikon), divenuto progressivamente basilicùm, basalicò, e infine vasalicò, ovvero il basilico. Non so se capita anche a voi, ma se chiudo gli occhi, oltre all'aroma di queste utilissime piante sento anche quello del dialetto. Sbaseràre Ecco un altro bellissimo verbo di origine quasi sicuramente spagnola. In lingua spagnola, infatti, la maschera o visiera si chiama visera, mentre nel dialetto caccurese diventa vasera. Per estensione poi assume anche il significato di viso. Con l'aggiunta del prefisso sba si ottiene quindi questo verbo che ha il significato di "romperere la visera, la maschera", in pratica rompere il grugno, cambiare i connotati. Ovviamente uno il danno se lo può provocare anche da sé, ad esempio cadendo malamente e sbattendo il viso al suolo o incocciando in qualche ostacolo imprevisto (s'è sbaseratu). 'Nzignare - 'Ncignare La riflessione di oggi verte su un verbo ancora molto usato nel nostro dialetto, ma anche in altri dialetti meridionali come il siciliano, il salentino o quello di alcune zone del salernitano. Il verbo è " 'nzignare" con la sua variante " 'ncignare". Nel nostro dialetto le due varianti si equivalgono e hanno entrambe il significato di iniziare, cominciare una cosa per la prima volta (ad esempio un lavoro all'uncinetto), mentre nel dialetto siciliano 'nzignare scritto altrimenti 'nsignari è una derivazione dal latino "insignare" a ha il significato di insegnare, ma anche di imparare. A Caccuri, dove i verbo ha il solo significato di cominciare, iniziare a fare qualcosa, è più in uso la forma 'nzignare rispetto alla più arcaica 'ncignare spesso usata dagli anziani. Zirrichiàre Nel nostro dialetto ci si imbatte spesso in questo termine del quale non ho trovato riscontro in altri dialetti dei paesi vicini. Può darsi che la mia ricerca sia stata superficile per cui magari potrei ricevere, come mi auguro, qualche smentita o qualche spiegazione più attendibile circa l'origine del verbo. Nell'attesa, però, mi azzardo a formulare un' ipotesi in base alla quale questo curioso verbo potrebbe essere stato coniato dopo il 1868, anno nel quale, nel bosco di Eido, fu ucciso il brigate sangiovanense Giovanni Cosco, alias Zirricu (o Zirrica alla sangiovannese). Secondo una leggenda completamente infondata, come ho ampiamente dimostrato nel libro "Cronache di poveri briganti", a Zirricu, dopo essere stato catturato a seguito del tradimento di un compare, un certo PIntisciolle, fu tagliata lentamente e con qualche difficoltà, la testa, mentre il brigante urlava a squarciagola per il dolore e il compare lo rimproverava perché si mostrava troppo "sisitu." La realtà fu, per fortuna meno romanzesca e, soprattutto, meno cruenta, anche se l'epilogo fu comunque la morte del fuorilegge, in ogni caso il verbo "zirrichiare" significa proprio tagliare lentamente e con qualche difficoltà qualcosa. Porbicàre o corbicàre? E' corretto dire "porbicàre" o "corbicàre?" I due verbi, il cui significato è seppellire, coprire con la terra, vengono usati indifferentemente dai nostri compaesani senza che si riesca a stabilire quale sia il più corretto. Questione di gusti, forse. Io preferisco "porbicare," ma altri potrebbero legittimamente preferire l'alternativa. 'U posto affettivu Ho riflettuto a lungo su questa curiosa storpiatura dell'aggettivo effettivo da parte di molti concittadini e riflettendo mi è venuto di pensare che pare sia fatta apposta per rafforzare un concetto. 'U postu affettivu è il posto fisso, il lavoro stabile, effettivo, quello che, secondo il Devoto - Oli, implica un'applicazione assidua e continuativa, insomma quello al quale, tranne che per i lavativi ché quelli non mancano mai, ci si affeziona perché è il nostro lavoro e ci dà il pane, per dirla con i nostri compaesani poco acculturati, "'u postu affettivu". Purtroppo di questi tempi le occasione di lavoro "affettivo" diventano sempre più rare per cui è anche molto difficile affezionarsi a quello precario al quale, viceversa, sembrano affezionati tanti nostri politici e tanti cosiddetti manager.
Ecco un bellisimo sostantivo del mondo contadino oramai in disuso e a rischio "estinzione." Credo siano oramai davvero pochissimi a sapere che 'u miròsulu è il comunissimo trifoglio presente in tutti i prati della zona. Mùrria Ecco un'altra parola oramai scomparsa dal nostro dialetto, anche perchè sono oramai scomparsi anche i vecchi falegnami che usavano spesso questo sostantivo. 'E murrie erano infatti le cornici che coprivano i telai delle porte interne. Cimiciùrru Arrimiscàre
L'espressione corrisponde al napoletano "Mettere a uno 'ncopp' a 'nu puorco" e trae origine dall'antica usanza di condurre alla gogna i condannati sul dorso di un maiale tra i lazzi, gli scherni e le contumelie della popolazione. Mintere 'n cavallu a 'nu porcu significa quindi additare al pubblico ludibrio. C’ho
fattu ‘nu Napuli! Alla sculata 'e ri vallani E'
sempre più difficile sentire, nelle conversazioni tra
caccuresi, questa
perifrasi che ci invita a non trarre bilanci affrettati, a valutare
il nostro operato o quello di qualche nostro competitore o
avversario solo alla fine dell'operazione o dell'evento in corso. I
vallani sono le castagne bollite che in autunno si preparano come
alternativa alle ruselle (caldarroste). Spesso capita di
incappare in qualche castagna non buona o comunque cotta male,
immangiabile per cui sapremo quanti vallani potremo mangiare
solo dopo averli colati e mangiati. Da qui il monito
contenuto nell'espressione. Riflessione amara quella di oggi che nasce dalla presa d'atto che amici caccuresi solo di qualche anno più giovani del vecchio webmaster, non conoscono il sostantivo "frurata" ovvero la brodaglia, la sciacquatura dei piatti che con l'aggiunta di una o due "junte"(dal latino junctus, cioè la quantità che poteva essere contenuta all'interno di due mani mani aperte e congiunte) di "caniglia" (crusca) o "farinazzu" (farinaccio), costituiva il pasto quotidiano del maiale fino a settembre - ottobre, quando poi lo si integrava anche con ghiande, favette o castagne. Ovviamente all'epoca per lavare i piatti non si adoperavano detersivi, ma solo l'acqua di cottura della pasta.
Questa volta ci soffermiamo un po' su alcuni verbi atmosferici o meteorologici. Il primo deriva dal verbo calabrese jazzàre (nevicare) e si usa per indicare la caduta di un po' di nevischio, quindi non una vera e propria nevicata. Frisuliàre ne è una variante nella quale il fiocco di neve viene paragonato a una briciola di cioccioli (frisuli) e si usa appunto per indicare la caduta di qualche fiocco senza la pretesa di una nevicata. Nel caso di una nevicata vera e propria si adopera jazzàre o il sostantivo"purberinu", (tormenta). Es. C'è 'n purberinu....! Squicciuliàre, invece è riferito alla pioggia e deriva da squicciulu (goccia d'acqua). Squicciuliare indica un accenno di pioggia. Sdillampàre significa, invece, lampeggiare. Scupetta e ribotte Quando da bambino mi recavo a casa di nonno Peppino ero affascinato oltre che da Grassi, un magnifico setter che ero solito torturare approfittando della sua pazienza e dalla sua "saggezza" di cane adulto, anche dalle storie di caccia che nonno mi raccontava. Una cosa che mi incuriosiva in modo particolare erano i nomi con i quali distingueva le armi da fuoco che mi mostrava orgoglioso: scupetta e ribotte. A me sembravano nomi ridicoli di cui, ovviamente, non conoscevo l'etmologia ( all'epoca non sapevo nemmeno cosa fosse), poi, pian, piano cominciai a capire il significato di questi due curiosi nomi. Scupetta, molto diffuso nei dialetti meridionali, deriva dallo spagnolo Escopeta, a sua volta derivato dal latino medioevale sclopus che è variante di stloppus (Devoto - Oli). Ribotte, invece, è parola esclusivamente locale, che fa ricorso al prefisso "ri" dal lat. "re" per indicare un'azione ripetuta. Il ribotte, infatti, non è altro che la doppietta, cioè un fucile in grado di "ripetere la botta" (il botto), mentre con la scupetta si è finito per intendere un fucile a una sola canna, generalmente calibro 20. Dicevo dell'uso locale del sostantivo "ribotte" per distinguerlo da "dubbotti" come viene chiamato in altre zone della Calabria e del Mezzogiorno. Una curiosita: per Giosuè Carducci le ribotte non erano armi da fuoco, ma pantagrueliche abbuffate.
Arripàre E' un verbo presente in molti dialetti meridionali a partire da quello napoletano. Il significato più comune è quello di appoggiare qualcosa da qualche parte, ma nel dialetto caccurese significa anche sdraiarsi per riposarsi, coricarsi, schiacciare un pisolino. Forse per questo viene spesso confuso con ajjajàre, un verbo del quale parliamo in questa stessa pagina e che significa affievolirsi, spegnersi lentamente. Ajjajàre, infatti, viene usato per indicare l'addormentarsi di un bimbo irrequieto che non voleva dormire e non stava fermo un secondo e che, finalmente, "si affievolisce", si calma e si addormenta. Per indicare, invece, un sonno pesante nel quale si ricade per un motiovo qualunque, su usa il verbo "chjiatràre" Mi nne 'ncàrricu! Gli antichi caccuresi, che non erano rozzi e volgari come i gerarchi o i militi fascisti e che non potevano prendersi le licenze di quell'impareggiabile "ceffo" di Cetto Laqualunque quando ci ripete che " I havo no dream ", usavano quest' espressione garbata per dire in pubblico "Me ne impipo" o "Me ne infischio" che dir si voglia. Letteralmente l'espressione significherebbe "Me ne incarico", ma il significato corretto è quello di "Non me ne importa niente".
Parliamo un po' di botanica passando in rassegna i nomi di alcune piante molto comuni nella nostra zona. Cominciamo da visciglia, nome con il quale si indica una quercia giovane. Questo sostantivo è presente con qualche leggera modifica anche in altri dialetti meridionali, come ad esempio il molisano (vesciglia). 'U carigliu è, invece, il cerro (quercus cerris), albero molto simile alla quercia. Carigliu è diventato poi sinonimo di giovanottone, gran pezzo di ragazzo ("Benerica para 'nu carigliu!")." Parente del carigliu è anche l'ilice (quercus ilex), meglio conosciuto come leccio. Il suo legno, difficile da lavorare e molto duro, veniva utilizzato per fabbricare manici per gli attrezzi (maruci) come picconi, zappe, accette o per le trottole (rrumuli). Un legno, invece inutilizzabile perché molle (frollu) è quello dell'auzu (alnus ribra), cioè l'ontano, molto diffuso nella nostra zona. Infine qualche cenno a un arbusto tipico della macchia mediterranea, 'u scinu, dal latino schinus, ovvero il lentischio, da non confondere con lo scinu frosciu, ossia il terebinto, pianta conosciuta e molto sfruttata da Greci e Egizianin che ne ricavano una resina, la Trementina di Chio.
Sciùnnere - Sciulicàre L'amico
Adolfo Barone, nel ricordarmi, molto opportunamente, un altro
significato del verbo "ventàre"
che avevo omesso di riportare nella riflessione precedente, richiama
la mia attenzione su altri due verbi, il primo più usato, l'altro
un po' meno, di cui parlerò a breve. Intanto, come segnala Adolfo,
è opportuno ricordare che "ventàre" significa anche
"farcela ancora", essere capaci, avere la forza e e
l'abilità di fare qualcosa. Nell'occasione voglio approfondire
ulteriormente la riflessione sui verbi ventàre e sbentàre quando
sono usati entrambi col significato di "far scoprire a
qualcuno che si possiede qualcosa", notizia che, per vari
motivi, sarebbe stato meglio restasse segreta. Nell'uso di
"sbentàre" al posto di "ventàre" si coglie una
sottile venatura di rimprovero per la "sventatezza" di chi
ha fatto trapelare il segreto per cui si potrebbe ipotizzare che il
verbo dialettale sbentàre e l'aggettivo italiano sventato possano
avere la stessa origine. Sbentàre, ventàre, abbentàre Questa volta parliamo di tre verbi che si somigliano un po', ma che indicano tre azioni diversissime. Il primo potremmo tradurlo forzatamente con l'italiano evaporare, ma il significato può anche essere quello di perdere il gas (ad esempio nel caso di una bibita gasata lasciata aperta), perdere l'odore, il sapore o altre caratteristiche organolettiche. Anche ventàre potrebbe essere tradotto forzatamente con appurare, ma l'esatto significato è un po' più difficile da spiegare. Praticamente significa farsi scoprire di essere in possesso di un oggetto, un utensile, un qualcosa che potrebbe servire ad altri che potrebbero chiederlo in prestito; da qui l'esortazione: " 'Un tu fare ventàre sinnò t' 'u circa' ". Abbentàre, invece, significa semplicemente riposarsi un po' dopo uno sforzo.
Pugliu Bellissimo questo aggettivo del nostro dialetto che significa soffice, morbido. Si dice generalmente che "è pugliu" un guanciale (cusjinu pugliu), una focaccia ('na pitta puglia) e qualsiasi altro oggetto che al tatto risulti molle, cedevole.
Quannu ‘u pecuraru ‘un vo’ ‘mmiare rìcia ca ‘un po’ trovare ‘a mazzola Damme pane ca vaiu alli vovi Tra
contadini
e pastori non è mai corso buon sangue. Gli allevatori e i
lavoratori della terra, nel corso dei secoli, ma soprattutto negli
ultimi due secoli, ebbero sempre interessi contrapposti che, almeno
nella nostra zona, portarono alla nascita di due schieramenti
politici: quello dei conservatori e quello dei progressisti. Gli
allevatori, infatti, avevano interesse a che le terre rimanessero
incolte per essere utilizzate come pascoli per i loro armenti,
mentre i contadini ne reclamavano l’assegnazione per poterle
coltivare, trasformarle e ricavarne un reddito che potesse
migliorare le loro condizioni di vita. Da questo scontro durato
decenni e che a Caccuri si acuì maggiormente a partire dal 1919,
non solo nacquero due schieramenti politici antesignani della destra
e della sinistra caccurese, ma anche due proverbi, probabilmente
opera di qualche contadino dal “cervello fino” come vuole la
tradizione che voleva stigmatizzare la presunta scarsa voglia di
lavorare degli allevatori. Imprecazioni Oggetto delle nostre odierne riflessioni sono alcune pittoresche esclamazioni un tempo molto usate e oggi quasi sconosciute forse anche per esorcizzare le situazioni negative che costringevano la gente a usarle, forse più semplicemente perché nessuno si preoccupa più di insegnarle ai figli. Se su' 'mpesati i muncibelli! Ecco
un'altra imprecazione che sta scomparendo dalla nostra "lingua
locale." Chi come me si avvia oramai a superare la soglia
fatidica che segna il confine tra la mezza età e la vecchiaia,
l'avrà sentita centinaia di volta, soprattutto in caso di
condizioni meteorologiche particolari, quando ci troviamo nei
turbini di vento, ma anche quando abbiamo a che fare con persone
adirate o esagitate. In essa si fa riferimento al Mongibello (Etna)
e alla sua capacità di provocare, attraverso le eruzioni, paura,
sconcerto, devastazioni. Mungibeddu, infatti, è il nome siciliano
del grande vulcano. Era usata soprattutto quando si raccontava della reazione inconsulta, spropositata di qualcuno ad un fatto, a una notizia, a una richiesta giudicata inaccettabile. "Cce rittu si me 'mprestava 100 euro. Petre levative! E' diventatu 'nu riavulu!" Fossa stata ura surda! E'
una sorta di maledizione per un comportamento, una decisone presa,
un fatto nel quale si è rimasti coinvolti che hanno provocato
spiacevoli conseguenze tanto da maledire il momento in cui l'evento
si è verificato. A
sentirlo questo anatema sembra di una violenza e di una cattiveria
inaudita, in realtà non è poi così malvagio e corrisponde, più o
meno al proverbio italiano " A nemico che fugge ponti
d'oro", a meno che non sia preceduto dalla frase "Te vo'
rumpere". 'U ciucciu 'ntra musica E'
una bellissima, ironica considerazione che oramai solo pochi
appassionati cultori del dialetto, tra i quali i miei
carissimi amici Salvatore Basile e Antonio Gaetano Lacaria,
conoscono. Tradotta liberamente significa "L'asino che si trova
nel bel mezzo di una orchestra" e si usa per definire una
persona che si trova in situazioni e contesti sconosciuti nei quali
non sa come muoversi o è costretta a parlare di cose che non
conosce. "Me
sentu cumu 'u ciucciu 'ntra musica."
'Nzurare
Visciottula
Ecco un altro sostantivo dialettale, fra l'altro molto diffuso nella regione, che rischia di sparire dal dizionario non tanto perché sostituito da sinonimi in lingua italiana, ma a causa della derattizzazione con sostanze chimiche e della pulizia più accurata degli ambienti nei quali viviamo. 'A visciottula, infatti, è una trappola per topi o ghiri che cattura l'animale vivo. E' una scatola di legno con una porticina che scorre in due guide come le serrande di una finestra La porta è attaccata all'estremità di un'asta a bilanciere. Il braccio della "bilancia" è tenuto in equilibrio da un gancetto al quale è attaccata l'esca (generalmente un bocconcino di formaggio pecorino) che ferma l'altra estremità. Il topo per mangiare il formaggio è costretto a raggiungere il fondo della visciottula. Addentando l'esca fa spostare il gancetto e l'altro braccio della bilancia pende di scatto dal lato della porticina che si chiude e imprigiona il roditore. Un'altra trappola per catturare gli uccelli vivi è la catrea (catrica in altre zone della regione, acciuolo o mastrillo in Campania, scargarella nelle Marche). La versione caccurese meno sofisticata era costituita da una foglia di fico d'india (paletta 'e ficu 'nniana) al centro della quale si ricavava una finestrella con una grata di legnetti. Uno di questi legnetti veniva appoggiato ad un piolo infisso nel terreno al quale veniva legata l'esca (un semino, un chicco di grano). Il tutto veniva collocato in equilibrio precario su una piccola buca scavata nel terreno nella quale era collocata l'esca. L'uccellino beccando il seme, faceva cadere il piolo che sorreggeva la pesante foglia che, cadendo sulla buca, lo imprigionava senza schiacciarlo. Toccu - Vallani - Zinnare Continuando le nostre riflessioni sulla lingua dei nostri padri ci soffermiamo oggi su due sostantivi e un verbo ancora in uso nella nostro dialetto, ma che, col tempo, potrebbero cadere nel dimenticatoio o essere sostituiti da vocaboli in lingua italiana se non addirittura in lingua inglese.
Jettare allu toccu Con questa espressione ancora in uso intendiamo riferirci alla conta, il "tocco", gioco, pare di origine toscana, che serve per individuare "a chi tocca" fare una certa cosa e che diventa poi la famosa "morra" ( in napoletano 'o tuocco) , il gioco fatto con la conta delle dita che corrisponde a quello del "padrone e sotto" con le carte. Nel gioco del tocco ci si dispone in cerchio e, a un segnale, ognuno presenta un certo numero di dita di un mano. Il capo gioco fa il totale delle dita mostrate e, partendo da uno dei giocatori in cerchio stabilito precedentemente, tocca uno per volta tutti i giocatori fino ad arrivare alla somma delle dita. L'ultimo giocatore toccato è quello che viene individuato. Vallani Zicu Ecco un avverbio praticamente sparito dal nostro dialetto e sostituito con l'italianizzato "pocu". Il suo significato è, infatti, poco. Un tempo era diffuso in tutto il Meridione, oggi è sempre più difficile trovarne traccia. Trocculiare - Tranganiare Ecco altri verbi che stanno scomparendo dal nostro dialetto sempre più sostituiti da verbi italianizzati. Entrambi si usano per indicare un qualcosa che non è ben fissato nella propria sede, che si muove, che non è saldo (ad esempio un dente che sta per cadere, la ruota di un carretto, una sedia che non è ben salda etc.) Scacàre Ancora un verbo oramai poco usato sostituito sempre più dall'italiano sbagliare. Lo si può tradurre con sbagliare, fare cilecca. Lo si adoperava molto nei giochi tipo rrùmmulu (trottola), sguiglia (lippa), quatràtu (campana) per indicare l'errore commesso che ti costringeva a passare la mano (ha scacàtu).
Ecco un altro verbo da segnalare al WWF prima che scompaia dal nostro lessico. Il significato è quello di affievolirsi, scemare, spegnersi lentamente. E' ancora usato, oltre che a Caccuri, anche in molti alti comuni calabresi della provincia di Catanzaro. Vataliare Questo bellissimo verbo arcaico può avere diversi significati, almeno nel dialetto caccurese. Generalmente viene usato per indicare le lallazioni dei bambini, la capacità di cominciare ad articolare i suoni di cui dà sfoggio verso i 6-7 mesi, ma può significare anche sbraitare, protestare, sbavare, protestare senza motivo e senza senso.
Questa volta più che proporvi una riflessione sul dialetto voglio rimediare ad una omissione. Nei giorni scorsi il mio amico Tonino Rugiero mi ha fatto opportunamente notare che nel dizionario del dialetto non erano riportati i nomi di due notissime verdure selvatiche alle quali io, e forse molti altri caccuresi e calabresi nati qualche decennio prima del boom economico degli anni '60, dobbiamo tanto: laprista e cardella. La prima, dal latino rapistrum, è una rapa selvatica a foglia pelosa, mentre la seconda, dal nome scientifico sonchus asper è una pianta spinosa simile al cardo, ma molto più tenera le cui foglie, non solo sono commestibili, ma anche gustose. E' inutile precisare che queste due magnifiche verdure selvatiche abbondano nelle nostre campagne e che vale la pena consumare di tanto in tanto per riappropriarci degli antichi sapori della nostra terra.
E gapu 'un si 'ne mora', ma si 'ne male 'ncappa. Questa volta mi piace riportare questo antico proverbio caccurese che contiene una verità incontrovertibile. Chi si scandalizza per certi comportamenti del prossimo che ai suoi occhi appaiono degni di censura o per i guai che possono capitare agli altri ritenendo che magari se li siano cercati, farebbe bene a evitare critiche e censure perché prima o poi anch'egli si comporterà, anche involontariamente, allo stesso modo o sarà vittima degli stessi guai. Sburiare Sburiare è un interessante verbo del dialetto calabrese usato in diverse frasi e con diversi significati. Quello più comune è "svagare", distrarsi con qualcosa di piacevole per esempio per dimenticare un fatto spiacevole, per liberarsi da un'oppressione, anche per non sentire il dolore fisico (esempio mal di testa, mal di denti tc.) Esiste anche un curioso modo di dire riferito al sonno o meglio alla sonnolenza: "M'è sburiatu 'u sonnu", cioè "Mi è passata la sonnolenza" quasi come se fosse stata distratta da qualcosa di piacevole. Arrasellàre Arrasellàre è un verbo usato frequentemente nel nostro dialetto, ma, evidentemente, sconosciuto ad altri dialetti della Calabria o sottovalutato, tant'é che non si trova nei vari dizionari dialettali che è possibile anche consultare on line. Il significato del verbo, che deriva dal sostantivo rasella (cantuccio) è, appunto, mettere in un cantuccio. 'Nzippiatu Ecco
un altro bellissimo aggettivo del dialetto arcaico oramai
scarsamente usato e forse sconosciuto ai giovani. In italiano si
potrebbe tradurre con un termine volgaruccio, ma che rende
benissimo il senso: fighetto. Ma 'nzippiatu può significare anche
precisino, vanesio, vacuamente supponente. L'origine del termine mi
è sconosciuta; potrebbe forse derivare da "zippa", zeppa,
cuneo per indicare uno che sta su con le zeppe (''nzippatu) e la
"i" del dittongo servire a dare un significato
ironico all'aggettivo distinguendolo da 'nzippatu, ma queste sono
solo supposizioni. Anche questo aggettivo lo si sente sempre meno nel parlare quotidiano. Crettu si riferisce a qualcosa che non è ben cotto, che è rimasto al dente. Si dicono cretti, ad esempio, i fagioli o i ceci immangiabili perché mal cotti. Azzirpulàre
- Arripinnàre
Tricàre Tricare è un verbo ancora in uso nel nostro dialetto che deriva dal latino tricare, verbo che si rifà al sostantivo tricae - arum (fastidi, imbrogli, difficoltà ) e che perciò assume il significato di creare difficoltà, problemi che, a loro volta, possono generare un ritardo; da qui il significato di tardare. Tricare non è usato solo nel dialetto calabrese, ma anche in quello del Lazio (tricare) e in quello napoletano (tricà) Cupellu Con il sostantivo maschile cupellu nel nostro dialetto indichiamo l'arnia, ovvero la casa delle api. Esiste anche la versione femminile dello stesso sostantivo per definire una donna di facili costumi. Mi riesce difficile risalire all'etimologia del maschile, mentre, una volta assodato che 'ul cupellu è l'arnia, risulta più facile spiegarsi il significato della versione femminile. Evidentemente " 'a cupellu" è una donna capace di attirare gli uomini come uno sciame di api in un'arnia. 'Ngrizzulare Bellissimo questo verbo usato nell'espressione "Me 'ngrizzulano i carni" oppure "M'ha fattu 'ngrizzulare ' carni", che significano rispettivamente, con una traduzione non troppo letterale, "Ho la pelle d'oca" e "Mi hai fatto venire la pelle d'oca". Oggettivamente le due frasi in dialetto hanno un fascino particolare. Molto probabilmente l'origine di questo verbo è la stessa di quella della parola italiana grinza.
Chi vo' jettàre 'a giurgiulena A
volte capitava, da bambini, che, presi dall'ansia del gioco o
distratti da qualche evento o, semplicemente, per incontinenza
infantile, ci facessimo la pipì addosso. Quando le mamme se ne
accorgevano, mugugnando e imprecando, tralasciavano le faccende
domestiche che le impegnavano in quel momento e, armate
di santa pazienza, provvedevano a cambiarci. Allora tra le altre
imprecazioni, ve n0era una particolare: "Chi
vo' jettàre 'a giurgiulena."
Per molti anni non ho mai saputo che cosa fosse questa misteriosa
"giurgiulena" anche perché questo prezioso seme fra
l'altro ricchissimo di Omega 3, molto conosciuto nel basso jonio
catanzarese, non viene quasi mai adoperato nella nostra cucina e
nella nostra tradizione dolciaria. Si tratta, infatti, del sesamo
(sesamum indicum) con il quale, appunto nel basso jonio catanzarese
producono uno squisito dolce natalizio, 'u
cumpettu, da non
confondere col confetto così come lo conosciamo normalmente. Che
rapporto ci fosse tra il sesamo e la pipì non l'ho mai capito,
però qualcosa in più negli anni l'ho imparata. Verbo oramai poco usato che significa "riempire pari", ovvero fino all'orlo. Lo si usa quando si raccolgono prodotti o si versano liquidi in qualche recipiente per invitare chi compie l'0operazione a sfruttare il contenitore fino al limite (Es. parìnchjiere 'u saccu, parìnchjiere 'a casciotta, parìnchjiere 'u mpagliatu." Tiriu,
'nzurtu, lupellu, cepalìa Parrare allu 'rracqu o allu stracqu Bellissimo e antichissimo modo di definire il parlare a vanvera, il lanciare invettive o minacce contro non ben definiti individui, il cianciare in modo cattivo e senza senso, esattamente come fa qualche politico dei giorni nostri in cui nome, ironia del destino, fa rima anche con una parte di questa perifrasi. E' proprio vero: Nomina sunt consequenzia rerum!. Appurchjiàre Ecco un altro verbo molto interessante e poco usato. Traducendo liberamente , anche se abbastanza correttamente, lo si potrebbe rendere con "attaccarsi alla bottiglia," senza, però, le connotazioni negative ed i sottintesi che l'espressione ha nella lingua italiana. Ci si "appùrchjia" quando si è particolarmente assetati per soddisfare velocemente il bisogno impellente di bere. Ovviamente significa anche bere molto. Ci si appurchjiava generalmente alla bottiglia o "allu gùmmulu" (orcio) pieno di acqua fresca. Scapuzzàre 'Nquìrere Da ragazzino, quando accompagnavo mia madre a raccogliere le olive, le castagne o le ghiande, la sentivo spesso raccomandarmi: " Circa 'e 'nquìrere!" All'inizio non capivo il significato di questo curioso verbo, poi ho capito che mi incitava a cercare i frutti in modo più accurato, a scovare anche quelli più nascosti, perché niente andasse perduto. Oggi capisco che 'nquìrere, verbo oramai in disuso, anche perché nella società dell'opulenza si è persa la voglia di 'nquirere, viene dal verbo latino Inquirere (inquiro, is, sivi, situm, inquirere) che, tra gli altri significati, ha anche quello di "cercare". Muncibellu "E' 'nu muncibellu!", "Ha fattu 'nu muncibellu!". Quante volte la sera, al ritorno a casa del babbo, le nostre madri raccontavano ai nostri padri le bravate che avevamo combinato durante il giorno usando una di queste due espressioni. Muncibellu era sinonimo di qualcosa di tremendo, di catastrofico che avevamo combinato, di un comportamento foriero di disastri e di guai. Ma qual è origine di questo vocabolo? Semplicissimo! "Mungibeddu". da cui Mongibello, era l'antico nome dell' Etna, il vulcano più alto del continente europeo e uno dei più alti del mondo. Evidentemente, le frequenti eruzioni vulcaniche dei secolo scorsi provocavano disastri tali da terrorizzare le nostre bisnonne per cui "muncibellu" divenne sinonimo di sciagura, disastro, grosso guaio o, semplicemente, discolaccio. 'Nzirillare
'Ncùiere - sè 'ncùiere Questo curioso, simpatico verbo certamente di difficile comprensione per i non caccuresi o, comunque, per i non calabresi, indica quel leggero "lamento", quel verso che emettiamo quando siamo impegnati in uno sforzo. Zummullàre
Jiffa E' il nome dialettale della cimice verde conosciuta anche con i nomi di "Nezara viridula" o "Palomena viridissima", ma, soprattutto dai contadini che la stramaledicono ogni volta che ci hanno a che fare. Si tratta, infatti, di uno dei più nocivi insetti in grado di devastare le colture e provocare danni notevolissimi. Di forma pentagonale, di colore verde e di odore sgradevolissimo, colpisce soprattutto il pomodoro, i fagioli e i cavolfiori, ma danneggia tutte gli altri ortaggi. E' così dannosa che, quando si vuol lanciare una maledizione a qualcuno si usa l'espressione: "Chi te vo piare 'a jiffa! L'astate
sicca serpe, ca 'u vernu su' ancille! Scioffàre
(se scioffàre) Scuntobbis 'Mpajare Sciasciàre
o spasciàre Muciuliàre Ancora
qualche termine derivato dalle lingue dei popoli invasori. Zumpa
filici L'assenza del verbo dovere Non
so se ci avete fatto caso, ma nel nostro dialetto, così come in
molti dialetti calabresi, non esiste il verbo "dovere",
sostituito, quasi sempre, dal verbo avere. Così "Devo
partire" in caccurese diventa "haiu 'e pàrtere", nei
dialetti del catanzarese "haiu mu partu" e in quelli
reggini " 'ndaiu mu partu"; "deve
lavorare" in caccurese si dice "ha de fatigàre", in
catanzarese "ava mu fatica", in reggino " 'nd'ava mu
fatica" e cos' via. 'Mpesare Campiàre Un
altro verbo molto interessante che significa andare in un posto per
darci un'occhiata, recarsi ad una manifestazione, in un luogo dove
accade qualcosa per controllare, informarsi, vedere che succede. Ho
cercato più volte di spiegarmi l'etimologia di questo verbo e sono
arrivato alla conclusione che potrebbe essere legata alla parola
"campo." I vecchi contadini, infatti, quando nei campi non
c'era la necessità di effettuare lavori urgenti ed indifferibili,
vi si recavano, comunque, per dare un'occhiata alle colture, capire
se c'erano lavori imprevisti da fare, controllare la crescita delle
piante, facevano, insomma, una "campiàta", ossia una
passeggiata esplorativa senza eccessivo
impegno. Ammasunare - S'ammasunare Provate a tradurre questo verbo in italiano e, soprattutto, a cercare un verbo che renda così efficacemente ed in maniera così diretta, succinta, l'idea di una gallina , di un asino, di un qualsiasi animale domestico che la sera si ritiri da solo nel suo ricovero per trascorrevi la notte. Eppure questo verbo è quasi sparito dal nostro idioma. Saccupiare Anche questo verbo ha il pregio di rendere immediatamente visibile l'azione che descrive. Per "saccupiare" si intende l'azione che si compie scuotendo un sacco per meglio distribuirne il contenuto (generalmente granaglie o legumi o farina) al suo interno e per sfruttarne al massimo la capienza. Per far ciò bisogna afferrare (piare) gli orli superiori del sacco e scuoterlo con forza. Da qui, probabilmente, il verbo composto "saccu - piare" Josjiaru Sostantivo bellissimo dal suono magico, sicuramente impronunciabile per un non caccurese. 'U josjiaru è un pertugio, un grosso foro dal quale fuoriesce, gorgogliando, una grossa qualità di acqua (ad esempio lo scarico di fondo di una vasca per l'irrigazione (cipia). Da Josjiaru deriva l'altro sostantivo jusjientaru, spiffero, fastidiosa corrente d'aria. Josjiaru, jusjientauru, jusjiare, jusjiune sono, probabilmente, tra le parole più affascinanti del nostro dialetto e più difficili da pronunciare. Buatta Tavarca,
cipia, tavutu, ciarra, zaccanu, Spunnacare Stiavuccu
, metaplasmo
di stuiavuccu Capizza, nàca, liona, timugna, zimmaru, cerasi, scifu, cantaru sono, invece, tutti sostantivi di origine greca. Capizza (cavezza), deriva dal greco "capuistru", nàca (culla , zana), deriva da nàke, liona (tartaruga) da chèlone, timugna (covone) da themoonia, zimmaru (caprone), da ximaros, cerasi (ciliege) da keràsa, scifu (truogolo) da skyfos, cantaru (tazza, recipiente) da kantharos. Racioppu Si tratta di un sostantivo poco usato, ma tipico dei dialetti meridionali, tra i quali anche il siciliano, il cui significato è "grappolo d'uva di piccole dimensioni", diverso, quindi, da "pennula" che sarebbe, viceversa, il grosso grappolo che "pende" dal tralcio, quindi "chi pennari " da cui "pennula".
S' abbentare Verbo molto simile all'italiano avventarsi, in realtà, almeno nel dialetto caccurese, ha un doppio significato. Il primo, meno usato, è quello di scagliarsi violentemente contro qualcuno, ma il secondo, molto più usato, almeno un tempo, sta a indicare il riposo, una sosta mentre si trasporta un peso gravoso o mentre si sta eseguendo un lavoro estremamente faticoso. "Abbentate 'nu pocu! ..... Si, mo m'abbentu." Jascu Notare la bellezza di questo pronome personale rafforzativo che viene, infatti, usato, in modo scherzoso, per soddisfare la nostra mania di protagonismo, per accentuare i nostri meriti, per esaltare le nostre gesta. "Chi si è sobbarcato il lavoro più duro? Jascu! (Proprio io!); Chi ha affrontato i maggiori rischi, i maggiori pericoli, mentre gli altri si defilavano? Jascu! Mantrellu Vocabolo che significa pastorello, garzone, una figura, anzi un mestiere scomparso dal panorama delle attività praticate. Mannise Chi
adopera ancora questo sostantivo arcaico per indicare il boscaiolo?
Quasi nessuno, se non qualche vecchio che ricorda i tempi antichi
quando gli unici combustibili erano la legna e il carbone
vegetale per cui il lavoro dei bravi mannisi era
indispensabile alla nostra sopravvivenza.
Minacce tra il serio e il faceto Te
mintu 'a pullicata Te mintu 'a ciota. E'
una variante della "pullicata" e consisteva nel mettere
l'indice e il medio uniti sotto il mento dell'avversario e premendo con
forza fino a provocare un forte dolore. Perchè si tirasse in ballo
l'aggettivo "ciota" (stupida, ebete) non sono mai riuscito a
capirlo. Spiaccicare è l'esatto significato di questo verbo che ha origine, probabilmente, nell'osservazione di un pane inzuppato nell'acqua che, cadendo per terra, si spiaccica sul pavimento " 'a mmattunata". Viene usato, anche se raramente, nell'espressione arcaica "Te 'mpanicu a 'nu muru", sostituito dal più moderno "Te sbattu a 'nu muru." Nnocca Ed eccovi una parola addirittura di origine longobarda. Nnocca deriva, infatti dal longobardo (knocca) e significa "fiocco". Nzurtare
Parrasia Ancora un sostantivo di origine greca (parresia) che significa logorrea, vizio di parlare a lungo fino a sfiancare l'interlocutore, Pirucca E dopo un sostantivo di origine greca, eccovene uno di origine spagnola (peluca) che non è altro che una salutare sbornia che ci riconcilia con la vita. Ma se la pirucca è una sbronza leggera, il piruccune è il massimo della goduria. Revelli Notare l'originalità e la praticità nell'economia del linguaggio di questo curioso avverbio di luogo che non ho riscontrato in nessun altro idioma e che significa letteralmente (in nessun posto). A vote, l'antica frase " 'Un vaiu revelli" si sostituisce con " 'Un vaiu a nessunu pizzu", ma "revelli" è tutta un'altra cosa. Rizzimmòtu
Rrummulu Scaranzia Ancora un curioso sostantivo del dialetto arcaico oramai scomparso dal linguaggio corrente e il cui significato è " compagnia chiassosa, gang." Scattignola Quante ne abbiamo prese da bambini da quei figli di buona donna più grandicelli di noi che si divertivano a seviziarci per puro diletto. " ' A scattignola" era un colpetto che veniva assestato sul lobo dell'orecchio schioccando con forza il dito medio mentre lo si faceva scivolare sulla parte inferiore del pollice. Col tempo il sostantivo venne adoperato anche per indicare il pop corn.
Pullicata Davvero difficile sentire oggi qualcuno urlare, adirato: "Te mintu 'a pullicata!" "Pullicata" in dialetto caccurese è un sostantivo femminile, ma provate a tradurlo in italiano adoperando un qualsiasi sostantivo. A me risulta davvero difficile e l'unica frase adatta a tradurre l'espressione che mi viene in mente è "Ti strozzo" che, comunque, non rende esattamente l'idea. Pullitriare Verbo
adoperato per "censurare" bonariamente chi si dà alla pazza
gioia, si diverte secondo noi, smodatamente come un puledrino senza
cavezza e senza pastoie che scorrazza liberamente per la
campagna. Un
tempo a Caccuri ve n' erano; cinque con quelli di Santa Rania, Ponte di
Neto e Botteghella. Ora, di fatto non ce ne sono più anche
perchè suonerebbe davvero strano chiamare "putighino" la
tabaccheria all'interno di uno dei bar del paese. " 'U
putighinu", infatti era il vecchio tabacchino, quello di zu
Giovanni Marullo o di Maria Mele. Il sostantivo potrebbe essere un
diminuitivo di "putiga" (negozio) forse in considerazione del
fatto che i vecchi tabacchini erano quasi sempre ospitati in locali
angusti. Taccaglia Un altro sostantivo da sottoporre all'attenzione del WWF perché in via di estinzione. La taccaglia è un legaccio, un nastrino o anche una giarrettiera. Taccia 'A taccia è oramai scomparsa sia come sostantivo, sia come oggetto. Chi si sognerebbe, mi chiedo, di indossare, al giorno d'oggi, le scarpe chiodate dei nostri nonni? La taccia, infatti, era un corto chiodo a testa piatta usato per chiodare gli scarponi dei contadini, sia per evitare la rapida usura delle suole, sia come misura antiscivolo. La tomaia, invece, la si ungeva con " sivu" (sego) per tenderla più soffice e per evitare che il cuoio si screpolasse. Tijillu
Ecco
ancora una carrellata di verbi e sostantivi che derivano da
lingue diverse: derivano dal francese: Vagliu (antro), da (baile), Ammucciàre (Nascondere) da (mucher), Ciminiera (Caminetto) da (Cheminee); derivano
dal latino: maruca
(Chiocciola), da maruca, sarcina
(fascina di legna)
da sarcina, pullula (fiocco
di neve), da pullula (la farfalla), pessulu
(scheggia di legna), da pessulus, parrilla
(cinciallegra) da
parrilla.
Vacàre Questo verbo, da non confondere con l'italiano vacare che ha tutt'altro significato, deriva dall'aggettivo latino vacuus, a, um, che significa, fra l'altro, anche disoccupato per cui "vacàre" significa appunto essere disoccupato, non andare a lavorare. Vajanella L'etimologia di questo sostantivo è un po' complessa. La parola ha origine dal latino "vagina" ossia guaina, fodero. Vagina in spagnolo diventò poi "vainilla" e fu adoperato per indicare il baccello che racchiude i fagioli e da lì, per estensione, anche i fagiolini o tegolini. Vainilla, poi, reintrodotto nell'Italia meridionale dagli Spagnoli, si trasformò poi nel nostro idioma in vajanella. Vurpile Molti anni fa, quando si uccideva il maiale, si metteva accuratamente da parte quest'organo molto ricercato dai falegnami per ungere la lama delle seghe. Vurpile, dal latino verpa, prepuzio, era in effetti, l'apparato genitale del maiale. Zimma Ed
ecco un curioso sostantivo di derivazione germanica. Zimma
non è altro che l'alterazione dialettale del sostantivo tedesco "zimmer"
che significa camera, stanza d'albergo. Peccato che le
"zimme" caccuresi siano in realtà, i porcili. Pagina
in costruzione. Visitatela nei prossimi giorni. Attenzione! I testi a le foto sono proprietà dell'autore e tutelati giuridicamente
|
1
2 http://s5.histats.com/stats/r.php?371533&100&63&urlr=&www.webalice.it/giuseppe.marino50/Dialetto/Riflessioni/Riflessioni.htm