Premessa
“Te tagliu ‘a capu cumu Zirricu!”. La terribile minaccia, il più
delle volte scherzosa, qualche volta anche seria e irosa, mi risuonava
nelle orecchie fin da bambino. Zirricu: chi era costui? Mistero, mistero
fitto, nessuno sapeva rispondere alla domanda; ci si limitava a dire che
era stato un terribile brigante e che, dopo averne combinate di tutti i
colori, era stato ucciso a Eydo da un
suo compare che lo aveva tradito e che, dopo avergli tagliato la
testa, aveva portato il “macabro trofeo” in trionfo per le strade
del paese. Questo era tutto quello che era dato sapere su un fuorilegge
che, secondo la tradizione, avrebbe terrorizzato Caccuri per molti anni.
L’alone
di mistero che circondava l’identità e le imprese di questo
misterioso personaggio e il desiderio di identificarlo mi hanno spinto
ad avviare una ricerca sul brigantaggio e a scrivere questo libro.
Partito
con queste intenzioni, mi sono imbattuto, fra l’altro, in una storia
poco conosciuta, forse frettolosamente rimossa, una “storia
proibita”, come ha scritto qualcuno. E’ la storia della tenace
resistenza dei combattenti delle Due Sicilie contro l’annessione del
regno borbonico all’Italia, la storia di centinaia di migliaia di
uomini, briganti (ma anche gente perbene)
che lottarono, per molti anni,
contro quello che consideravano un esercito di occupazione e che
mostrò il volto feroce della repressione, spesso perpetrando crimini
non certo meno odiosi di quelli dei briganti.
Ma mi sono imbattuto
anche in decine di altri poveracci, di miserabili, alcuni dei quali
caccuresi, posti volutamente ai margini della società dalle classi
dominanti del tempo, sfruttati, privati di ogni diritto, laceri e
affamati che, come è stato autorevolmente scritto dagli storici del
tempo, vedevano nella vita del brigante e nella pratica della
grassazione una grande attrattiva. Briganti per necessità, dunque,
poveri cristi che si ingegnavano a sbarcare il lunario arrivando persino
a spogliare i loro simili, lasciandosi avvolgere sempre più dalla
spirale del crimine fino a morire ammazzati o a marcire in un
penitenziario.
Non
v’è nulla di eroico nelle gesta di questi miserabili braccati dalla
gendarmeria reale, dalla guardia urbana, dall’esercito, dai
manutengoli dei vari possidenti, che venivano catturati e uccisi, nella
maggior parte dei casi, con una facilità disarmante; tuttavia, spesso,
riuscivano a suscitare, se non ammirazione, almeno un briciolo di
comprensione e di umana pietà.
La
ricostruzione di quasi settant’anni di vicende storiche locali che
tenterò di operare attraverso la pubblicazione di questo libro, di una
storia minore e locale di cui forse gli addetti ai lavori si sono,
spesso colpevolmente, disinteressati, risulterà certamente lacunosa e
carente sotto molti aspetti, ma ciò dipende essenzialmente dalla
difficoltà di consultare fonti e di reperire materiale documentale. È
davvero triste constatare come la narrazione e la documentazione di
quasi un secolo di vicende storiche caccuresi – a parte ciò che è
stato scritto e che si può recuperare nei pochi documenti ufficiali
conservati negli archivi di stato – siano state demandate, dagli
“intellettuali” caccuresi del tempo, al farsaro Angelo Raffaele
Secreto (Velociu) che, essendo, purtroppo, analfabeta, non poté
tramandare compiutamente ai posteri la sua preziosa opera. Nessuno che
si sia mai preso la briga di scrivere un diario, un promemoria, un
appunto qualsiasi che consentisse di squarciare un velo, di accendere
una fiammella nel buio della conoscenza.
Nel
libro sono narrate le vicende di numerosi briganti caccuresi e non, le
imprese criminali compiute sul territorio caccurese e nei dintorni del
paese, le azioni brillanti e meno brillanti delle forze dell’ordine.
Insomma, una serie di fatti che, mi auguro, possano interessare il
lettore e soddisfarne 1'interesse e si apprenderà anche che la
maggioranza dei Caccuresi ebbe comportamenti coerenti con la legge,
nonostante le ristrettezze dei tempi e i gravi disagi.
Prima
di chiudere queste note sento il bisogno di ringraziare il Presidente
della Comunità Montana Alto Crotonese Carlo Rizzo e gli amministratori
dell'ente, il sindaco Sandro Falbo e gli amministratori di Caccuri, il
sindaco Pietro Durante e gli amministratori di Castelsilano, che hanno
offerto il patrocinio dell'iniziativa, i responsabili dell'ufficio
anagrafe di Caccuri, Vincenzo Parrotta e Domenico Secreto per la
disponibilità mostrata nei miei confronti, la dottoressa Pagano
del1'Archivio di Stato di Catanzaro, 1'amica Daniela Secchiari che ha
illustrato 1'opera, gli amici Peppino Sganga e Erica Rento e
1'Associazione culturale Zeus per la loro preziosa collaborazione.
L'autore
Capitolo
1
Il
brigantaggio locale nei secoli – Il brigantaggio antifrancese
1806–1812
Calabria, terra di briganti; calabrese sinonimo di brigante. È questo
uno dei tanti, forse il più conosciuto luogo comune che vuole gli
abitanti di questa sfortunata e bellissima terra sempre armati di
trombone, appostati sulle strade polverose di campagna o nei boschi per
sorprendere i viandanti, derubarli e, a volte, perfino sgozzarli. Un
luogo comune che si perde nel tempo e contro il quale i Calabresi
dovettero lottare da sempre.
Già
nel XV secolo papa Paolo II non nascondeva la sua antipatia e il suo
disprezzo per la Calabria e i Calabresi, considerati individui poco
raccomandabili e pericolosi, provocando l’orgoglioso risentimento di
Cicco Simonetta, caccurese, segretario e cancelliere del duca di Milano
Francesco Sforza, che in una
celebre lettera ebbe a rispondergli: “Che la prefata Santità dica che
tutti li calabresi siano cativi, perché questo toca as mi, respondo così
che la Calabria è la più fertile et la migliore provincia che sia nel
reame, benché sia nell’ultima et estrema parte de Italia. Nondimeno
in Calabria gli ne sono et de boni et de cativi, como è anchora ad
Vinexia, ad Roma, ad Napoli et ad Milano e neli altri luochi, pure io me
reputo nel numero de li boni et credo haverne facto le opere et
professione.”
Qualche
secolo dopo fu la volta del Lombroso a tentare di dimostrare la validità
delle sue teorie parlando di una innata tendenza a delinquere dei
Calabresi che si leggeva loro in volto. Pare che il celebre criminologo
si sia spinto persino a misurare i crani dei briganti uccisi per
dimostrare un nesso tra la dimensione della scatola cranica e la
tendenza a delinquere. Anche i
Francesi, furiosamente osteggiati dai partigiani filo borbonici nel loro
tentativo di impadronirsi della Calabria e del Regno di Napoli,
contribuirono ad alimentare il luogo comune del calabrese, feroce
brigante.
La verità è che, nel corso dei secoli, i poveri, i contadini, gli
antichi servi della gleba, furono costretti, spinti dalla miseria, dalle
angherie, dalle prepotenze, dall’avidità dei feudatari e dal
malgoverno dei sovrani del tempo, a cercare nel saccheggio, nella
grassazione, nella rivolta e nel ribellismo, la loro sopravvivenza.
Nel XVI secolo, nella presila crotonese,
la situazione era particolarmente grave. A Caccuri e Cerenzia le
popolazioni venivano sottoposte alle angherie e ai balzelli
intollerabili imposti .........................................
Per
continuare a leggere scrivi al webmaster cliccando sulla busta
E. Motta, Documenti milanesi intorno a Paolo II° e al cardinale
Riario. Archivio della
Società
di Storia Partiam XI (1888) pag.
253-65
|