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- Il sabato
del villaggio
di Giacomo Leopardi
La donzelletta
vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell'erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
giù da' colli e da' tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto siede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l'altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s'affretta, e s'adopra
di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
e' come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
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- "Morvan
Breus"
di
Giovanni Pascoli
Viveva con sua madre in
Cornovaglia:
un dì trasecolò nella boscaglia.
Nella boscaglia un dì, tra cerro e cerro
vide passare un uomo tutto ferro.
Morvàn pensò che fosse San Michele:
s'inginocchiò: Signore San Michele,
non mi far male, per l'amor di Dio!
Né mal fo io, né San Michel son io.
No: San Michele non poss'io chiamarmi:
cavalier, sì: son cavaliere d'armi.
Un Cavaliere? Ma che cosa è mai?
Guardami o figlio e che cos'è saprai.
Che è codesto lungo legno greve?
La lancia: ha sete, e dove giunge, beve.
Che è codesta di cui tu sei cinto?.
Spada, se hai vinto; croce se sei vinto.
Di che vesti? La veste è pesa e dura.
E' ferro. Figlio, questa è l'armatura.
E tu nascesti già così coperto?.
Rise e rispose il cavalier: No, certo.
E chi la pose, dunque, indosso a te?
Chi può. Chi può?. Ma, caro figlio, il re!
Il fanciullo tornò dalla sua mamma,
e le saltò sulle ginocchia: Mamma,
mammina (cinguettò), tu non lo sai!
Ho visto quello che non vidi mai!
un uomo bello più del San Michele
ch'è in chiesa, tra il chiaror delle candele!.
Non c'è uomo più bello , figlio mio,
più bello, no, d'un angelo di Dio.
Ma sì, ce n'è, mammina, se permetti,
ce n'è mammina, cavalier son detti.
E io, mammina, voglio andar con loro,
e aver veste di ferro e sproni d'oro.
La madre a terra cadde come morta,
che già Morvàn usciva dalla porta;
Morvàn usciva e le volgea le spalle,
ed entrò difilato nelle stalle;
nelle stalle trovò sol un ronzino:
lo sciolse, vi montò sopra: in cammino.
Egli partì, ne salutò persona
eccolo fuori, ecco che batte e sprona:
eccolo già lontano dal castello,
dietro quell'uomo, ch'era così bello.
Dopo dieci anni, dieci tutti intieri,
Breus, il cavalier de' cavalieri,
sostò pensoso avanti a quel castello.
Era fradicio e rotto il ponticello.
Entrò pensoso nella corte antica:
c'era tant'erba, c'era tanta ortica.
Il rovo vi crescea come una siepe,
e la muraglia piena era di crepe.
L'edera aveva la muraglia invasa:
l'erba copria la soglia della casa.
E l'uscio era imporrito e tristo a mo'
di tomba. Egli picchiò, picchiò, picchiò..
Ecco alfine una donna, ecco una donna
antica e cieca, che gli aprì. Voi, nonna,
mi potete albergar per questa notte?.
Albergar vi si può per questa notte,
albergar vi si può di tutto cuore,
ma l'albergo non è forse il migliore.
Ché questa casa è tutta in abbandono
da che il figlio partì, dieci anni or sono.
Era discesa una donzella in tanto,
che appena lo guardò, ruppe in pianto.
Perché piangete, buona damigella?
perché piangete, cara damigella?
Io voglio dirvi, sire cavaliere,
io voglio dirvi, che mi fa dolere.
Un mio fratello che dieci anni fa
(ora sarebbe della vostra età),
ci abbandonò per farsi cavaliere.
Io piango appena vedo un cavaliere.
Se vedo un cavalier presso il castello,
piango pensando al mio dolce fratello.
Non avete la madre, o damigella?
non un altro fratello? una sorella?
Nessuno... almeno ch'io li veda in viso:
son, fratelli e sorelle, in paradiso.
Anche la mamma l'ha chiamata iddio
non c'è più che la nutrice ed io.
La mia madre morì dal dispiacere
quand'è partì per farsi cavaliere.
Ecco il suo letto presso il limitare,
ecco il suo seggio presso il focolare.
La sua crocetta porto sopra me.
Pel mio povero cuore altro non c'è.
Mise un singhiozzo il cavalier d'un tratto.
Ella il pallido alzò viso disfatto.
La damigella alzò con meraviglia
gli occhi che aveano il pianto sulle ciglia.
Iddio la mamma ancora a voi l'ha presa,
ch'ora piangete, che m'avete intesa?
Ancora a me la mamma prese Iddio;
ma chi gli disse: Prendila! fui io.
Voi? Ma chi siete? Qual'è il vostro nome?.
Morvàn il nome, Breus il soprannome.
O sorellina, io son pien di gloria:
ogni giorno ho contata una vittoria:
ma se potevo indovinar quel giorno,
che non l'avrei veduta al mio ritorno,
o sorellina, non sarei partito!
o sorellina, non sarei fuggito!
Oh! per vederla qui sul limitare,
per rivederla presso il focolare,
per abbracciare qui con te pur lei
le mie vittorie tutte le darei:
sarei felice, pur ch'a lei vicino,
di strigliar tuttavia quel mio ronzino!
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