Nel
costume, nella teologia e nella Chiesa la donna, in particolare la donna
cattolica, da oltre un secolo non cessa di specchiarsi e di fare
riferimento alla persona di Maria. Stringente è il parallelismo tra la
Vergine, che "si libera" degli orpelli che le sono stati appesi da una
devozione massimalistica, e la donna che esce dalle pastoie di antichi
stereotipi, per attingere una sua originaria fisionomia. Il quadro
sinottico a fatica si ricompone, fino a giungere alle intuizioni dei
nostri giorni, cariche di interrogativi e di sapienza, di travaglio e
profezia. Maria, dunque, un progetto di donna nuova per il Terzo
Millennio? La teologia mariana traccia il cammino di promozione della
donna.
È
di dominio pubblico, per chiunque conservi una
elementare memoria storica, che presso i Paesi latini – altro il
discorso riferito a quelli nordici – negli ultimi centocinquant’anni la
donna cattolica non ha mai cessato di specchiarsi in Maria, ed è
stringente il parallelismo tra la Vergine e la donna che la Chiesa si
ritrova ma insieme ipotizza, auspica e già forma, in tutto questo arco
di tempo. Così che se l’Ottocento conosce una Madonna monolitica nei
suoi attributi di madre, di vergine e talvolta anche di sposa come
condizione ineludibile per la maternità, questa immagine – in un
processo che la accomuna alla più generale "promozione" femminile – si
fa poi negli anni dilatato e incandescente "manifesto di giustizia" e
"profezia di liberazione", protagonista della storia della salvezza e
presenza incancellabile nella civiltà umana quale Maria viene finalmente
riconosciuta.
Possiamo dire allora più esplicitamente che, come
la donna storica esce dalle pastoie di stereotipi antichi per attingere
una sua originaria fisionomia, così la Madonna "si libera" degli orpelli
che una devozione massimalistica le aveva cucito addosso per ritornare a
essere la cristiana sobria e dirompente su cui misurarsi in ogni
condizione e stagione della vita. Sia nel costume come nella teologia e
nella Chiesa. In un quadro sinottico che si fa sempre più limpido, fino
alle intuizioni dei nostri giorni, cariche di interrogativi e di
sapienza, di travaglio e di profezia, di già e non ancora. Cariche
sovente di visione.
Come
Maria, "Fior di dolore". Fare l’identikit della donna dell’Ottocento
e dei primi decenni del Novecento sembra fin troppo semplice. All’apice
dei pensieri, dei desideri e delle attese, che ella coltiva fin dalla
preadolescenza, si colloca il matrimonio, perché è soltanto nel
matrimonio che ella economicamente, socialmente e affettivamente
acquisisce identità e spessore e si affranca dalla sua natura di "essere
dimezzato". Ben triste sarebbe la sua sorte qualora non riuscisse a
sposarsi (a farsi sposare!) o non scegliesse il convento. Chi mai le
darebbe protezione affidabile, sicurezza per il futuro, opportunità di
relazioni sociali? Chi si farebbe garante della sua virtù per
antonomasia, ossia della sua castità?
Simile destino comporta l’educazione della ragazza
ai compiti futuri identificati nella capacità di piacere al marito e di
compiacerlo, nel governo della famiglia, nell’allevamento e nella
formazione morale dei figli: nel vivere in funzione della casa di cui
sarà regina e angelo.
Non favorita in una corretta percezione di sé come
persona, si "adornerà" dunque di grazia, di dolcezza, di benevolenza,
imparerà sottomissione, sopportazione e pazienza, convinta che la
capacità di "fare sacrificio" delle proprie opinioni e, ove occorra,
delle proprie amicizie femminili e dell’abitudine (del gusto) a una
lettura-conoscenza che non sia "dosata e saggia", è premessa e
apprendistato al saper soffrire. Ed è ben viva in lei – lo testimoniano
con chiarezza solare le riviste, le agiografie e la poca pubblicistica
del tempo – la coscienza che la vita familiare le chiederà di nascondere
le lacrime sotto il sorriso. Lei che dovrà comporre conflitti, mitigare
contrasti, lenire ferite e sofferenze.
Il costo di questa valutazione – la donna nella
veste esclusiva di sposa e di madre – è altissimo. Al di fuori del ruolo
obbligato, quand’anche sia lavoratrice extrafamiliare (all’opificio o
nei campi o nella scuola) non le sono riconosciuti personalità,
autonomia, pensieri e desideri propri, e trova sbarrata ogni strada di
affermazione personale se non a prezzo di lotte, sacrifici, scelte
anticonformistiche che comportano l’emarginazione dai benpensanti e la
riprovazione delle altre donne. Questa donna è capace di tacere, di
pregare, soprattutto con formule intimistiche e preferibilmente in casa,
davanti a una Madonna dalla quale ricava conforto, esempio, forza nel
reggere magari all’ingiustizia, violenza compresa, cui è fatta segno o
sono fatti segno i suoi cari.
In simile atmosfera pesantemente segnata dal
dovere e scarsamente progettuale – quasi sempre alieni i concetti di
felicità e di liberazione – fioriscono sulla stampa destinatale e
altrove, nelle omelie e nelle orazioni, titoli dalla significatività
lampante: "Martirio di una madre", "Calvario di una sposa", "Fior di
dolore" (la Madonna, ovviamente).
Ma chi è, esattamente, la Madonna per i buoni,
comuni, cristiani di questo scorcio storico? È soprattutto e
innanzitutto la donna del nascondimento e della sottomissione,
"esaurita" nella sua sfera domestica e privata, relegata in una
segregazione riduttiva di ruoli, chiamata a vivere alcune virtù
"femminili" configurate, per di più, come virtù private: l’umiltà,
l’ubbidienza, la mitezza, l’abbandono, la sottomissione.
Ebbene, questa figura di Madonna così privata,
così sofferente, trova culto ed esaltazione oltre il conveniente nel
costume e nella pietà popolare: e non tanto per le cose grandi che nella
fede ha compiuto, quanto per il sentimento e il sentimentalismo che
suscita. Se qualcuno in nome dell’assioma che «di Maria non si dirà mai
bene abbastanza» ieri era giunto a chiamarla Spirita Santa, oggi, al di
là di ogni solida giustificazione biblica, le esagerazioni e le
adulterazioni, non solo linguistiche, si esasperano.
La donna, però, sembra poter così ricuperare in
Maria, suo modello, quella grandezza e quei riconoscimenti che i tempi
le negano. È forse, per lei, un po’ il vivere per interposta persona, in
nome di una delega che gratifica l’eterno femminino che è in ogni donna
– madre, vergine o vedova che sia –, le commoventi processioni, le
appassionate novene, le ardenti suppliche, la venerazione che il clero
tributa in panegirici talora enfatici anche in pieno ’900, le immagini
folkloristiche (statue ricoperte di ori e di argenti votivi, cuori
brillantati trafitti da implacabili spade) tanto lontane da quello che
dovette essere la "normalità" preziosa e intensa di Maria, a Nazareth
come altrove.
Come
Maria, "grembo del mondo". Il grande spartiacque della seconda
guerra mondiale segna il trapasso di un’epoca in tutti i settori della
vita: dal costume all’economia, dalla politica alla pratica religiosa. I
decenni che seguono sono di ricostruzione materiale e di consolidamento
democratico. La donna esce allo scoperto e si scrolla di dosso
l’immagine di "persona dipendente". Anzi, ora si è "emancipata",
"promossa", "liberata", a seconda delle dottrine, a seconda dei
femminismi, toccando giuridicamente (non nel costume) i traguardi
culturali e professionali più ambiti (dagli uomini), diventando
cittadina votante e votata, ma insieme esperta di autonomie locali e
partecipe dei "comitati di gestione", restando moglie e mamma. Ma vive
su un terreno straniero e alieno, dovunque si trovi: nella cultura, nel
lavoro (dove, a determinare l’andamento delle cose è la logica del
potere, del profitto, della prevaricazione individuale e collettiva,
della forza), talora nella Chiesa e addirittura in famiglia poiché qui
gli oneri sono più pesanti, le contraddizioni più palesi, le
frustrazioni quotidiane.
Domandarsi perché ciò avvenga, significa scavare
oltre l’approssimazione. Una causa importante mi pare ravvisabile nel
seguente fenomeno. La giovane donna pone oggi la professione come primo
obiettivo da realizzare, mentre solo in un secondo o terzo momento
penserà a diventare moglie o padrona di casa. Ma il nuovo senso sociale
può uccidere in lei le emozioni profonde e mutare il senso dei valori.
Così il bisogno di uguaglianza rende la donna aggressiva e la fa
rivaleggiare con l’uomo; ella diventa il doppione del maschio; il
potenziale della sua affettività specificamente femminile si abbassa e
la donna rischia di "perdere" la propria natura. Si assiste in tal caso
a una deviazione aggravata dal fatto che l’incorporazione della donna
nel mondo maschile avviene proprio nel momento in cui questo mondo
scivola verso la decadenza. In ogni caso – e qui ci trasferiamo già su
un altro piano – la reciprocità, il faccia a faccia con l’uomo vanno
persi, l’autonomia trascende l’alterità, ci si serve l’uno dell’altro e
si arriva alla solitudine e all’alienazione.
Allora la riflessione si approfondisce e si
spalanca su panorami nuovi cui la teologia non è estranea (valga come
esempio La donna e la salvezza del mondo di Evdokimov al quale mi
rifaccio), si colgono suggestioni e si profilano certezze. Queste, per
cominciare.
La crescita della persona umana si realizza
spezzando la solitudine orgogliosa e romantica, separandosi da sé stessi
e ritrovando la comunione. L’umanità è come una vetta i cui due versanti
sono il maschile e il femminile e sono tali proprio in quanto si
realizzano l’uno attraverso l’altro. Se l’uomo, e la donna con lui, si
prolungano nel mondo con gli utensili, la donna lo fa con il dono di sé
al quale intende educare anche l’uomo. Nel suo stesso essere è legata ai
ritmi della natura, è in consonanza con l’ordine che regge l’universo. E
proprio grazie a questo dono ogni donna è virtualmente madre e porta in
fondo all’anima il tesoro del mondo. Possedendo il senso nascosto delle
cose, la donna, insieme alla capacità di "dare alla luce", possiede la
penetrazione nelle segrete profondità dell’essere. Se l’uomo deve
agire (e la donna vuole agire), la donna è: e questa è la
categoria religiosa per eccellenza.
La donna potrebbe accumulare valori intellettuali,
ma questi valori non danno gioia. La donna intellettualizzata ad
imitazione dell’uomo, e costruttrice del mondo alla maniera maschile,
finirà con il vedersi spogliata della propria essenza perché suo compito
è quello di introdurre nella cultura la femminilità come modo d’essere
insostituibile.
L’uomo ha creato la scienza, l’arte, la filosofia
e persino la teologia, ma tutto ciò porta a una terribile oggettivazione
della verità. Fortunatamente c’è la donna, che è predestinata a
diventare la portatrice di questi valori, il luogo in cui essi si
incarnano e vivono. In cima al mondo, proprio nel cuore dello
spirituale, c’è la "Serva di Dio", manifestazione dell’essere umano
riportato alla sua verità originaria. Proteggere il mondo umano in
quanto madre e salvarlo in quanto vergine, dare al mondo un’anima, la
propria, in quanto donna, questa è la vocazione femminile. La vocazione
della donna, insomma, non è in funzione della società ma in funzione
dell’umanità. Il suo campo d’azione non è il "progresso" ma la
"cultura": se vogliamo, la "civiltà". Ella "onora in silenzio"
l’imminente nascita delle cose ultime. E il tempo dell’attesa porta già
in sé la "cosa attesa".
La vera trascendenza unisce il maschile e il
femminile in un’integrazione che trasforma i suoi elementi. Essa
interrompe la loro frammentazione in "femmine" e "maschi", in io e
non-io. Il paradosso del destino umano è che si diventa sé stessi
diventando qualcosa d’altro: l’uomo si scopre Dio secondo la grazia, ciò
che è esteriore non si distingue più da ciò che è interiore.
Una
nuova teologia mariana. Ma non è tutto. Mentre la teologia riscopre
nel mutato contesto culturale il modo nuovo di rapportarsi alla fede, si
sviluppa e matura, parallelamente alle nuove suggestioni sulla donna,
una nuova teologia mariana. «Maria – è la teologa Adriana Zarri a
parlare – è il grembo pregnante del mondo, dell’umanità, della storia,
la terra fertile seminata da Dio. Nella luce della Pentecoste la figura
di Maria, simbolo e sintesi dell’accoglienza femminile, acquista un
significato particolare. La sua discreta presenza ai primordi della
Chiesa, la sua perseveranza nella preghiera e nell’amicizia con i
discepoli di Gesù, ce la proiettano in una luce nuova: più impegnata,
più pubblica, più ecclesiale. Si direbbe che la vita di Maria, prima
così privata, conosca una espansione nuova, un nuovo impegno, una nuova
responsabilità».
Paolo VI, dal canto suo, nella Marialis cultus
afferma: «Si osserva che è difficile inquadrare l’immagine della Vergine
quale risulta da certa letteratura devozionale, nelle condizioni di vita
della società contemporanea e, in particolare, di quelle della donna,
sia nell’ambiente domestico, dove le leggi e l’evoluzione del costume
tendono giustamente a riconoscerle l’uguaglianza e la corresponsabilità
con l’uomo nella direzione della vita familiare; sia nel campo politico
dove essa ha conquistato in molti Paesi un potere di intervento nella
cosa pubblica pari a quello dell’uomo; sia nel campo sociale dove essa
svolge la sua attività nei più svariati settori operativi, lasciando
ogni giorno di più l’ambiente ristretto del focolare; sia nel campo
culturale dove le sono offerte nuove possibilità di ricerca scientifica
e di affermazione intellettuale» (n. 34)...
«La lettura delle divine Scritture compiuta sotto
l’influsso dello Spirito Santo e tenendo presenti le acquisizioni delle
scienze umane e le varie situazioni del mondo contemporaneo, porterà a
scoprire come Maria possa essere assunta a specchio degli uomini del
nostro tempo. Così, per dare qualche esempio, la donna contemporanea
desiderosa di partecipare con potere decisionale alle scelte della
comunità, contemplerà con intima gioia Maria che, assunta al dialogo con
Dio, dà il suo consenso attivo e responsabile non alla soluzione di un
problema contingente ma all’opera dell’Incarnazione del Verbo; si
renderà conto che la scelta dello stato verginale da parte di Maria, che
nel disegno di Dio la disponeva alla Incarnazione, non fu gesto di
chiusura ad alcuno dei valori dello stato matrimoniale, ma costituì una
scelta coraggiosa, compiuta per consacrarsi totalmente all’amore di Dio.
«Così costaterà con lieta sorpresa che Maria di
Nazareth, pur completamente abbandonata alla volontà del Signore, fu
tutt’altro che donna passivamente remissiva o di una religiosità
alienante, una donna che non dubitò di proclamare che Dio è vindice
degli umili e degli oppressi e rovescia dai loro troni i potenti del
mondo (cf Lc 1,51-53); e riconoscerà in Maria, che "primeggia tra gli
umili e i poveri del Signore" (LG 56), una donna forte, che conobbe
povertà e sofferenza, fuga ed esilio (cf Mt 2,13-23): situazioni che non
possono sfuggire all’attenzione di chi vuole assecondare con spirito
evangelico le energie liberatrici dell’uomo e della società; e non le
apparirà Maria come una madre gelosamente ripiegata sul proprio figlio
divino, una donna che con la sua azione favorì la fede della comunità
apostolica in Cristo (cf Lc 2,1-12) e la cui funzione materna si dilatò
assumendo sul Calvario dimensioni universali» (n. 37).
Come
Maria, protagonista: una realtà e un auspicio. In risposta alle
intuizioni teologiche e a realizzazione delle utopie femministe, si
profila oggi, ma insieme si auspica, un modello di donna numericamente
più esteso di ieri ma lontanissimo ancora dall’essere generalizzato – e
le violenze da lei tuttora subite in ambito familiare, lavorativo,
sociale, e le discriminazioni, e la difficoltà di accesso a posti
dirigenziali la dicono lunga – che viene acquisendo e che viene offrendo
coscienza di sé, dei tempi, del mondo. Coscienza di poter rappresentare
il crocevia attraverso il quale l’umanità ricupera la capacità del
dialogo e il coraggio del confronto, ma insieme raggiunge la liberazione
della verità e il riscatto della misericordia, la forza decisionale e la
temperanza della pazienza. In altre parole, emerge una donna consapevole
che non si può agire solo all’interno della condizione femminile, ma che
questa si inserisce in più vasti mutamenti della famiglia e della
società; e che lucidamente discerne ciò che veramente è per la persona,
e giova alla persona, e ciò che non lo è.
E così, faticosamente ma inevitabilmente, in
questa rinnovata identità, compone i propri dissidi interiori come
persona; fa sintesi dei rispettivi doni e delle rispettive esperienze –
donna e uomo – nella coppia prima e nella famiglia poi, dà incisività e
respiro (un supplemento d’anima) alle istituzioni finalizzandole alla
dignità della persona. E sa affrontare il nuovo con responsabilità e
fiducia adottando la vincente strategia dell’aggregazione. Perché
responsabilità, al contrario di quanto qualche ideologia recitava e
recita, significa farsi carico del destino degli altri oltre che di sé
stessi; ricuperare il senso della maternità, del rapporto con l’uomo,
del progettare e costruire famiglie paritarie e serene, non per
imposizione culturale o per costume, ma per scelta consapevole e libera,
come insegna una donna della Chiesa e del femminismo, Gianna Campanini.
La donna nuova appare in tal modo critica nei
confronti delle mode e del costume, e capace di andare controcorrente
per proporre soluzioni totalmente altre, quelle dell’inedito evangelico
che, incarnato nella complessità e nella frantumazione che
caratterizzano l’oggi, riesce a fare "famiglia dei figli di Dio", in
unità di obiettivi e in coordinamento di metodi con tutte le persone di
buona volontà. Una donna davvero in grado di proporre soluzioni e
insieme di assumerle e di attuarle, convinta che la storia non si
costruisce malgrado le persone, ma in loro funzione e a loro
realizzazione. Una donna protagonista.
Consequenziale, la religiosità che viene aprendosi
spazi, l’unica che incontri considerazione e riscuota rispetto, si
discosta rigorosamente dal "femminile" tradizionalmente inteso, e cioè
segnato da caratteristiche "passive" e "private". Al contrario, corale
come non mai, acquista il respiro e il sapore universale di Chiesa.
La
"nuova" Maria, icona della donna nuova. La devozione mariana,
lasciati forse "inoperosi" i fulgori teologici della Lumen gentium
e della Marialis cultus, è alla ricerca di una sua identità e di
una liturgia che efficacemente la traduca. A un’epoca ormai
definitivamente tramontata di non più accettata presentazione
massimalistica della devozione mariana quasi esclusivamente basata su
privilegi straordinari, su apparizioni, grazie e miracoli, un’altra sta
per seguire. Ma intanto affiorano da più parti interrogativi precisi:
forse la Madonna è oggi per molti cristiani una sconosciuta? forse è
ignorato il suo protagonismo nella storia della salvezza e nella storia
tout-court? forse Maria non è ancora, per la Chiesa, pietra di paragone?
Ebbene, quasi in risposta alle attese espresse e
inespresse del mondo e della Chiesa, il Papa indice il 7 giugno 1987 un
anno mariano straordinario dopo aver emanato l’enciclica Redemptoris
Mater. È, questa enciclica, la traccia per un nuovo cammino. In essa
il cristiano riscopre la propria identità, la propria grandezza, il
proprio ruolo.
La sinopsi di Maria con la figura della donna
nuova che i tempi hanno maturato, poi, è ancora una volta mirabile.
Articolata in tre parti: "Maria nel mistero di Cristo"; "La Madre di Dio
al centro della Chiesa in cammino"; "Mediazione materna", la
Redemptoris Mater presenta infatti rispettivamente la Vergine come
madre sollecita di Cristo, sua generosa compagna nell’opera della
salvezza, discepola fedele ("piena di grazia", "beata perché ha
creduto", Madre, in Giovanni, dell’umanità); modello e guida per il
popolo di Dio nel pellegrinaggio tra le persecuzioni del mondo e le
consolazioni di Dio; mediatrice tenerissima nella compagine ecclesiale.
Maria come la donna – e la donna come Maria – è allora crocevia di
incontro e offerta di dialogo. È colei che si fa carico della perenne
generazione di Cristo nell’umanità. Nel silenzio e nel canto. Nella
contemplazione e nell’azione.
Abbiamo voluto ascoltare il pensiero di due donne
credenti e praticanti. La prima è Veronica, una ricercatrice trentenne:
«Se c’è persona abissalmente umile (mai umiliata, però) e pur tuttavia
perfettamente conscia delle grandi cose che Dio ha operato in lei tanto
da profetare che le generazioni tutte la diranno beata per la distesa
dei giorni; così discreta da non riempire di sé il Vangelo ma tanto
sicura da andarsene, libera e sola, missionaria ante litteram da
Elisabetta e da strappare il primo miracolo dando ordini ai servi di
Cana contro la precisa dichiarazione del Figlio: "non è ancora giunta la
mia ora"; tanto ubbidiente da definirsi "serva" ma... del Signore (e
servire il Signore è regnare); espropriata di sé come nessuna ma per
poter essere, come nessuna, inabitata da Dio... questa è la Madonna».
Mentre Alessandra, una mamma cinquantenne molto
provata dalla vita, aggiunge: «La vita di Maria giocata tutta sulla fede
che è una roccia dura, nuda, aspra; la perseveranza senza ripensamenti e
senza cedimenti, non senza martirio; la costante accettazione,
conformazione e adorazione del mistero fanno di lei una cristiana non
ignorabile con cui confrontarsi. Non quindi l’icona policroma su cui
versare lacrime di dolcezza, ma la pietra di paragone davanti alla quale
porsi in discussione senza maschere».
Il progetto di donna in perenne divenire e in
costante attuazione è dunque Maria, la donna incessantemente nuova fino
alla parusia. Oggi esattamente come ieri. Come domani. La donna del 2000
e di tutti i tempi.
Sigillo
luminoso e autorevole a quanto detto, la lettera apostolica di
Giovanni Paolo II datata 1988. In essa è detto come per l’invio del
Figlio come "uomo nato da donna" – culminante e definitivo punto
dell’autorivelazione di Dio all’umanità – la donna si trova al cuore
dell’evento salvifico. E non solo nella prospettiva della storia di
Israele, ma anche nella prospettiva di tutte quelle vie lungo le quali
l’umanità da sempre cerca risposta agli interrogativi fondamentali e
insieme definitivi che più l’assillano. Ma, ancora, nella donna si
ravvisa la rappresentante e l’archetipo di tutto il genere umano in
quanto essa esprime l’umanità che appartiene a tutti gli esseri umani ma
mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo che può appartenere
solo alla "donna". La pienezza di "grazia" concessa alla Vergine di
Nazareth significa la pienezza della perfezione di «ciò che è
caratteristico della donna», di «ciò che è femminile».
A ciò consegue un’indicazione etica. La donna deve
intendere la sua realizzazione come persona, la sua dignità e vocazione,
sulla base delle sue risorse, secondo la ricchezza della femminilità che
ella ricevette nel giorno della creazione e che ereditò come espressione
a lei peculiare dell’«immagine e somiglianza di Dio».
Non si può non riconoscere che di strada se ne è
fatta. Tanta. E mai come oggi la donna può trovare in Maria, l’Amica.
( da Vita
Pastorale, maggio 1999, Carla Guglielmi)
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