Francesco Rutelli, Piero Fassino, Giuliano Amato, Massimo
D'Alema, Lamberto Dini:
Cari amici,
abbiamo aderito alla marcia Perugia-Assisi
di domenica prossima e quelli di noi che ci saranno, saranno lì ancora una volta
perché tutti noi vogliamo, come voi, un futuro di pace, di giustizia, di
libertà.
Sfileremo insieme quindi, consapevoli della crisi drammatica che ha
investito il mondo dopo le stragi dell'undici settembre e naturalmente delle
differenze di giudizio emerse tra noi dopo la reazione militare contro il regime
talebano di Kabul. I militanti dell'Ulivo ci saranno perché la marcia della pace
è stata storicamente la sede di un impegno comune degli uomini e delle donne di
buona volontà ma anche l'occasione per confrontare opinioni e culture diverse. E
dunque con voi in primo luogo vogliamo dialogare per approfondire le ragioni di
ciascuno.
Come sapete, noi non condividiamo la posizione che alcuni di
voi hanno assunto dopo l'attacco americano all'Afghanistan.
L'azione militare
di questi giorni contro postazioni dei talebani è una reazione mirata e
legittima dopo gli attentati di New York e Washington. In termini generali, è un
dovere morale colpire strutture legate al terrorismo dotate di mezzi e risorse
potenzialmente devastanti. E ciò è tanto più vero alla luce del proclama di
Osama Bin Laden e del suo programma di guerra totale all'Occidente, ai suoi
popoli, ai simboli della nostra cultura.
Sappiamo bene che a dividerci non è
il giudizio su questa manifestazione di fanatismo ma le politiche e gli
strumenti necessari a neutralizzarlo. Ed è appunto su questo che dobbiamo
confrontarci.
La prima considerazione riguarda la guerra, l'idea che abbiamo
della guerra e soprattutto la sua data d'inizio. Da questo punto di vista,
dovremmo evitare di ripetere gli errori già compiuti all'epoca della ex
Jugoslavia. La guerra, la concreta guerra che insanguina l'Afghanistan, non è
iniziata con i missili Cruise lanciati in questi giorni. La guerra è da anni
quella dei talebani contro il popolo afgano. E prima ancora quella
dell'invasione sovietica.
Milioni di persone oppresse da una dittatura
odiosa che costringe le donne a condizioni di vita inumane. Una guerra che ha
già causato migliaia di vittime. Nel corso del tempo, quello stesso regime ha
fornito basi operative, supporti logistici e protezione politica
all'organizzazione terroristica di Bin Laden. Per settimane, dopo gli attentati
di settembre, la comunità internazionale ha chiesto al regime di Kabul una
totale collaborazione e la consegna dei terroristi ricevendo in cambio un
rifiuto sprezzante.
Solo a questo punto, e dopo che l'Onu ha legittimato con
sue risoluzioni l'uso della forza contro esecutori, mandanti e complici delle
stragi americane, è partita l'offensiva militare.
Si poteva agire
diversamente? Crediamo di no. Riteniamo si fosse giunti a un punto tale da
rendere necessaria un'azione di forza che fosse in grado di colpire le centrali
logistiche del terrore e di isolare il regime talebano.
Voi dite che l'azione
è in sé illegittima perché "espressamente vietata dalla Carta delle Nazioni
Unite". E' una posizione contraddetta dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu e
dalle parole stesse del Segretario generale, Kofi Annan, il quale esprimendo
sostegno all'iniziativa americana ha parlato esplicitamente di "legittima
difesa" richiamando l'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.
Abbiamo
rammentato la tragedia jugoslava non a caso. Anche allora ci fu chi invocò
l'intervento dell'Onu. Un intervento militare e non solo diplomatico.
Quell'azione però non venne. E a Srebrenica - solo per citare l'orrore più
indicibile - nell'estate del 1995 si compì il massacro di ottomila mussulmani
deportati, uccisi e gettati in fosse comuni. Qualche giorno prima, i caschi blu
olandesi che controllavano l'enclave bosniaca avevano invocato a più riprese un
bombardamento dissuasivo della Nato sulle milizie serbe che accerchiavano la
città. Ma, come ricorderete, nessun aereo si levò in volo e il mondo subì in
silenzio l'onta di una tragedia e di una vergogna. Lo rammentiamo a ciascuno di
noi per ammonirci dal cedimento a posizioni di principio discutibili nel merito
ma soprattutto impotenti a risolvere il dramma concreto di milioni di persone
disperate.
L'uso della forza - questo è il punto - non può essere un tabù.
Talvolta esso si manifesta come una dolorosa necessità per impedire che si
consumino tragedie più grandi. In questo senso l'attacco ai talebani non è
un'aggressione al popolo afgano né tantomeno una sfida all'Islam. E' la
condizione per isolare un regime sanguinario e per rimuovere il pericolo di un
attacco all'umanità mascherato sotto le sembianze di una sedicente guerra di
religione e di civiltà.
La seconda considerazione investe più direttamente la politica
e le sue responsabilità.
Come si è detto da più parti gli eventi delle ultime
settimane hanno cambiato il corso della storia. Questo può restituire alla
politica una funzione centrale nella gestione di questa crisi e delle
prospettive della globalizzazione. Non era un esito scontato. Vi ha contribuito,
a diverso titolo, più di un protagonista. L'amministrazione americana, senza
dubbio, con la decisione di non precipitare tutto in una reazione cieca e
immediata. Arafat, scegliendo da subito la collocazione più difficile ma
certamente più saggia e utile alla causa palestinese, e con lui la leadership
israeliana consapevole dell'urgenza di una tregua. E ancora, la Russia di Putin,
la Cina, una parte importante del mondo arabo e naturalmente l'Europa e il
nostro paese; realtà e nazioni distanti ma unite per la prima volta in una
coalizione mondiale che ridisegna lo scenario geopolitico del dopo guerra
fredda.
E' probabile che la grandezza di questi eventi si manifesterà in
tutta la sua portata col passare degli anni. Ma qualcosa si può dire da subito.
Le novità di queste settimane consentono di pensare all'azione militare in atto
come a una sola delle articolazioni di una strategia che si sviluppa lungo piani
diversi.
E' ripreso, seppure in condizioni difficilissime, il dialogo tra
israeliani e palestinesi.
Sharon ha dovuto prendere atto dell'interesse
strategico degli Stati Uniti a rilanciare, qui e ora, la convivenza tra la
sicurezza dello Stato di Israele e il diritto a una patria per i palestinesi.
Anche questo è un risultato della politica perseguita in queste settimane dalla
comunità internazionale.
Lo stesso dovrà accadere, nei mesi a venire, per
altre aree e contesti di crisi. Ciò a cui stiamo assistendo è la ricerca,
faticosa e tormentata fin che si vuole, di un diverso ordine globale. Siamo
tutti chiamati a fare i conti con questo mutamento. Possiamo leggere tutto
questo come il modo concreto in cui la politica si riappropria delle sue
prerogative assolvendo a una funzione storica di regolazione dei conflitti e di
governo degli equilibri globali. Prosciugare i giacimenti dell'odio e della
sofferenza, colpire lo sfruttamento dei più poveri e ripensare le strategie
dello sviluppo e del benessere: questa può divenire la nuova agenda politica
mondiale.
La sfida è esserne protagonisti, condurre un'azione concreta perché
prevalgano le ragioni della pace e della politica su scala europea e
internazionale.
Dicendo questo noi riconosciamo non solo piena legittimità ma
un ruolo prezioso alle posizioni di un pacifismo integrale.
Ma dobbiamo anche
dire, con la stessa sincerità, che non esiste un solo modo di concepire la lotta
per la pace e che il nostro ruolo - quello di una coalizione che si è assunta in
un passato recente la responsabilità di guidare il paese e che punta a farlo
nuovamente in futuro - è un ruolo diverso, ma punta risolutamente al traguardo
di una pace vera e stabile.
E si misura con l'obbligo, in momenti difficili e
drammatici, di assumersi la responsabilità di scelte che, per le ragioni
indicate, non possono escludere un uso regolato della forza.
Così è stato per
il Kosovo e quella scelta ha contribuito a salvare migliaia di vite, a
proteggere decine di migliaia di profughi, a combattere la dittatura di
Milosevic e a portare la democrazia dove prima democrazia non c'era.
E'
questo che ci spinge a confrontarci con voi su come legare indissolubilmente
pace e giustizia, cessazione dei conflitti e rimozione delle ingiustizie che
spesso li originano. In questa situazione è tanto più importante che nessuno
pensi di interpretare da solo, e unicamente sulla base dei propri princìpi, le
ragioni vere e gli obiettivi duraturi della pace.
Diciamo che mai come adesso
bisogna saper ascoltare e comprendere le ragioni degli altri. Come chi ha oggi
la responsabilità della guida dell'Ulivo e chi in questi anni ha guidato il
governo del paese, tanto ci sentivamo in dovere di dirvi per la stima e il
rispetto reciproco tra noi.
Francesco Rutelli
Piero Fassino
Giuliano Amato
Massimo
D'Alema
Lamberto Dini