Da LA STAMPA 29 settembre 2002
Di fronte alla guerra il panico sembra dilagare in tutte le nazioni comprese quelle europee
La paura disfa le menti
di Barbara Spinelli
Un insieme di nazioni impaurite, eccitate, soprattutto
impazienti: tale sembra essere - nel giorno dell’ultimatum chiesto da Bush e
Blair a Saddam - la coalizione che si appresta a combattere l’Iraq e le sue armi
di distruzione di massa. Non l’imperturbabilità della forza, quale si manifestò
dopo l’11 settembre nelle società aperte del mondo democratico, ma il fiato
corto, i dissidi tra alleati, i rancori nascosti. Qualcosa si è dunque spezzato
nell’ultimo anno, una solidarietà spontanea con l’America ha cominciato a
incrinarsi nel cuore stesso dell’Occidente - in Europa - e non tutto si spiega
con il raffreddamento degli animi, o con la vigliaccheria, o con la paura. La
paura è una passione torbida, che spinge alla rassegnazione o alla pusillanimità
ma che può anche indurre alla smania di agire con precipitazione, con fretta,
con gesti temerari e appariscenti. La paura spiega l’unilateralismo neutralista
di Schroeder ma anche quello che Al Gore chiama: il nervoso "saltare da
un’operazione incompiuta all’altra", che caratterizza l’operare Usa.
L’unilateralismo dell’uno alimenta l’altro, e davanti a questa rovina
dell’identità occidentale si trovano oggi, sgomente, sia Europa sia Stati Uniti.
Diceva il presidente Roosevelt che "l’unica cosa di cui dobbiamo aver
paura è la paura stessa". Ebbene, proprio in questa condizione ci troviamo a
vivere, da quando il crimine contro l’umanità ha colpito l’America. Viviamo in
questa condizione di paura permanente, iperattiva o inerte a seconda dei
caratteri nazionali, e su questo converrà un giorno riflettere tra noi europei
se vogliamo che il nostro agire non diventi una politica, mal controllata, delle
passioni. La paura è diventata il cardine dell’odierna politica internazionale,
e forse è il caso di ricordare che precisamente questo è l’obiettivo del
Terrore, da quando esiste quella forma speciale di guerra che non si propone di
conquistare territori o libertà perdute, ma che è tutta protesa a colpire la
mente stessa dell’avversario, e la capacità che ha l’anima di governare le
proprie dismisure.
Ogni sera, alla televisione, ascoltiamo i politici
allarmarsi su nuove e sempre più impaurenti minacce: sul prossimo attentato che
sta per venire domani o dopodomani, sull’attacco chimico o biologico che è lì lì
per incombere, sulle nostre vite appese a fili sempre più tenui. La politica
della paura non è solo l’arma offensiva usata da Al Qaeda: sta divenendo anche
l’arma con cui i governi democratici legittimano il proprio potere e le proprie
violazioni di leggi costituzionalmente garantite, ma con cui alla fine feriranno
se stessi. E’ l’arma di un Occidente che si sente giustamente assediato, ma che
perde l’essenziale: il vigore che viene dalla pazienza, la difesa da un panico
che lungi dall’irrobustire le difese può sfociare in diffusa rassegnazione al
peggio.
Essenziale per l’Occidente è quell’"enduring freedom", quella
libertà che sa perdurare nelle difficoltà perché vuol prevalere senza disperdere
energie, strada facendo. La prima cosa che l’uomo impaziente perde è appunto
l’attitudine a perdurare, a endure: che è poi il sentimento con cui si è
risposto all’11 settembre e ci si è mossi contro Kabul. L’esistenza come lotta
ininterrotta per la vita o la morte è nelle abitudini del terrorismo,
soprattutto se eccitato da religioni o pseudo-religioni. Non è nelle abitudini
delle democrazie, che non fanno politica con la paura di governanti e cittadini.
Non aver paura della paura fu compito dell’America, ai tempi di Hitler.
Oggi è compito degli europei, e non è antiamericanismo ricordare a Washington
che si vince con la calma di imponenti coalizioni. Se la nuova dottrina delle
guerre preventive suscita tante perplessità, e non solo negli animi pacifisti ma
anche in chi non può esser sospettato di neutralismo come l’ex vicepresidente Al
Gore, o l’ex consigliere per la sicurezza Zbigniew Brzezinski, o lo studioso di
terrorismo Michael Ledeen, o lo scrittore Salman Rushdie, è perché su tale
dottrina non c’è ancora chiarezza di pensiero. Perché essa mina una solidarietà
occidentale di cui tutti sentono incessante bisogno, visto che la lotta al
terrore non è finita. L’Europa in particolare non è apparsa mai tanto divisa
come nelle odierne circostanze, a causa di questo scarso pensare. L’ora forse è
venuta, per reagire con atteggiamenti meno impauriti e affrettati.
Prima
o poi, infatti, occorre che anche gli europei guardino la realtà consecutiva al
crollo dell’Urss. Nuove forze avversarie stanno emergendo, prive di un’ideologia
universalista ma non sprovviste di una straordinaria energia aggressiva:
l'energia che può venire dal "tutto è permesso" nichilista, o dalla presunzione
di agire in nome di Dio. Queste forze non temono per la propria esistenza, nel
momento in cui attaccano e sono attaccate. In effetti sono disposte a rischiare
tutto: la propria vita e quella delle proprie popolazioni. Non sono quindi
dissuadibili con l’arma razionale, come avveniva nei confronti dell’Urss. La
nuova dottrina statunitense si concentra su questi nuovi pericoli, e conclude
che solo un attacco militare preventivo può operare con efficacia, quando la
classica deterrenza fallisce: quando l’avversario non sceglie la moderazione,
sapendo che rischia la propria morte. Proprio questo è il punto, in Iraq: prove
certe di un completo fallimento della deterrenza non esistono, anche se Saddam
non è stato dissuaso dall’accumulare armi di distruzione di massa. Non esiste un
imminente pericolo di attacco iracheno agli interessi americani e occidentali, e
di conseguenza non è improprio ritentare l’arma della dissuasione: quella che
consiste in un intervento ancor più coercitivo degli ispettori Onu. L’intervento
in Kosovo o Timor Est o Afghanistan fu reso cogente da minacce reali, presenti:
la pulizia etnica, l’attentato alle Torri.
Quello che ha detto nei
giorni scorsi il presidente Ciampi è di grande importanza, per l’Europa. "Nessun
paese - ha ricordato - può oggi pensare di rispondere da solo". Non ha senso ed
è controproducente l’unilateralismo di Bush. E ancor più controproducente, si
potrebbe aggiungere, è l’invenzione di un nuovo internazionalismo che ambisce a
creare - con le sole forze Usa - "un mondo non solo più sicuro, ma migliore": un
mondo dove si raddrizza una volta per tutte il legno storto di cui è fatta
l’umanità, come promesso dai messianesimi politici del Novecento. Ma non hanno
neppure senso, dentro l’Europa, le posizioni unilaterali di Berlino o Londra, di
Parigi o Roma. Perché gli europei contino, urge che parlino con un’unica voce, e
con un pensiero che accomuni almeno Parigi e Berlino: difendendo interessi
concreti, assumendosi responsabilità da cui finora sono fuggiti, valendosi delle
proprie forze e non ingigantendo le proprie debolezze. E affrontando la
questione delle guerre preventive e della deterrenza, dietro la quale si
nascondono mali che l’America non ha inventato.
Le guerre preventive non
sono di per sé sbagliate, né nascono necessariamente da impazienza, paura. Una
guerra preventiva contro Hitler avrebbe risparmiato all’Europa la guerra
mondiale e un genocidio. E se si fosse saputo di un attacco di Al Qaeda contro
il World Trade Center sarebbe stato utile precederlo, attaccando preventivamente
i taleban. Quanto al pensiero strategico, esso comunque deve essere preventivo:
non si possono chiudere gli occhi davanti all’ammassamento di armi biologiche e
chimiche in Iraq, o agli ordigni nucleari che si affastellano in Iran o
Pakistan, se si vuol evitare che l’ultima arma - l’offensiva militare - diventi
la prima e l’unica cui l’Occidente sa ricorrere.
E’ dunque sterile e
inutile contestare la prevenzione in sé. Lo è assai meno, se si definiscono le
quattro condizioni perché essa possa avere luogo. In tutte le guerre preventive
è necessario che lo sfidante fornisca prove più che sicure sull’imminenza
dell’attacco, e queste prove ancora non persuadono un numero sufficiente di
Stati. Si sa che il terrorismo globale trova asilo in Iraq come in Iran, in
Arabia Saudita come in Siria e nei territori palestinesi. Si può dichiarare
guerra a tutti questi paesi, ma si possono anche appoggiare preventivamente le
forze che dal di dentro corrodano regimi proni al terrorismo, a cominciare
dall’Iran. E’ la tesi che Michael Ledeen esprime sul Financial Times del 25
settembre. Il terrorismo si combatte con le armi, ma anche con la politica. La
seconda condizione è l’esistenza di una coalizione affiatata, che si impegni
nella prevenzione politica e militare. Questa coesione fu trovata dopo l’11
settembre, perché l'America fu spinta a difendersi secondo il diritto
internazionale. E se la coalizione oggi rischia di infrangersi non è perché una
massa di paesi fuggono codardamente le proprie responsabilità: è perché il paese
guida non dà prove sufficienti, e si mostra indifferente alle alleanze come alle
solidarietà.
La terza condizione è il nation-building: la ricostruzione
dei paesi colpiti da guerre preventive. In quest’attività gli Stati Uniti sono
oggi deboli, e niente affatto perseveranti: non hanno nulla in comune con
l’America che ricostruì Germania e Giappone nel ‘45. Sembrano esser ricaduti
nell’insipienza successiva al ‘14-’18, quando si trascurò di ricostruire la pace
tedesca e si produsse Hitler.
Infine, quarta condizione: la guerra
preventiva deve esser congegnata in modo tale da non poter esser imitata da
aggressori piccoli o grandi. Non può fornire il pretesto a Putin, ad esempio,
per le sue aggressioni in Cecenia o in Georgia. Tanto più deve basarsi su
alleanze ampie, e sul diritto internazionale custodito dall’Onu. Non può essere
la solitaria impresa di un paese assetato di potenza e dominio. Neppure
l’eventuale controllo occidentale sul petrolio iracheno può essere un buon
motivo: il terrorismo si radicalizzerebbe, e le democrazie interessate al solo
benessere verrebbero snaturate.
L’Europa non è sprovvista di forze, in
guerre preventive e multilaterali che non ci snaturino. Nell’attività di
ricostruzione postbellica, essa è oggi molto più preparata delle amministrazioni
Usa. E’ molto più affine all’America del dopo ‘45. Le stesse sinistre tedesche,
ora accusate di unilateralismo, hanno dislocato diecimila soldati in
Afghanistan, hanno truppe schierate in Kosovo, e nei giorni scorsi hanno
indicato la via per aggiustare i rapporti con l’America: pur non partecipando
all’azione militare, intenderebbero contribuire alla ricostruzione postbellica
dell’Iraq.
Anche questa rischia di essere una mossa unilaterale, così
come lo fu l’iniziale rifiuto tedesco. Ma la via non è inutile, se imboccata
dagli europei come Unione. L’Europa può far valere la propria forza, offrendo
solidarietà e nation-building in cambio di azioni americane non unilaterali.
Questo sarebbe un modo non impaziente di guardare in faccia la nuova realtà
mondiale, di non sprecare il patrimonio di amicizia del dopo-11 settembre, e di
non trasformare la paura in un’arma che i governi democratici usano per
scoraggiare i propri popoli, senza scoraggiare chi per primo l’ha usata per
disfare i nostri cervelli.
|