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Da LA REPUBBLICA del 23 novembre 2003

La guerra in Iraq non ha sconfitto il terrorismo e il problema palestinese rimane irrisolto

Non servono i marines per battere il terrore

di Eugenio Scalfari

LE DIAGNOSI più aggiornate sul terrorismo dilagante e sui possibili modi di contrastarlo concordano ormai su alcuni punti-chiave. Anzitutto sulla configurazione dell'arcipelago terrorista e sui suoi mutamenti in corso d'opera.

Fino ad alcuni mesi fa esso gravitava attorno ad un comando politico religioso e militare molto accentrato. Bin Laden ne era il capo riconosciuto; da lui discendevano i messaggi religiosi miranti ad un'interpretazione rigorista della legge coranica nella sua lettura sunnita, da lui proveniva la strategia mirante a rovesciare la dinastia saudita colpevole d'aver concesso appoggio militare e politico all'America, da lui nasceva il sogno di unificare la nazione araba attorno all'Islam recuperando un califfato che sostituisse i governi filo-occidentali di Arabia Giordania Egitto, infiammasse le masse musulmane di mezzo mondo, accendesse il fuoco di quella guerra di civiltà che si sarebbe dovuta concludere con la cancellazione dello Stato d'Israele, odiato avamposto occidentale in una terra strappata con la violenza ai suoi legittimi abitanti.

L'attentato alle Torri di Manhattan, nella strategia di Bin Laden, doveva rappresentare la folgore che avrebbe scosso l'anima della nazione araba e delle masse musulmane frustrate e derelitte, concentrando su di lui e sulla falange da lui guidata l'attenzione del mondo intero. L'11 settembre avrebbe posto le premesse della guerra di civiltà e della rivoluzione islamica contro i regimi corrotti vendutisi all'infedele.
Probabilmente il capo di Al Qaeda e i suoi più stretti collaboratori avevano sottovalutato la reazione dell'America e di tutto il mondo al crollo delle Torri di Manhattan. La determinazione con cui fu condotta la guerra afgana e l'ampiezza della coalizione antiterrorista costruita in pochi giorni dagli Stati Uniti devono avere obbligato Bin Laden ad una pausa durata per tutto l'autunno del 2001 e per i primi mesi del 2002. Ma poi lo scenario è cambiato

Se una volta abbattuto il regime dei talebani a Kabul la guerra al terrorismo fosse stata condotta da un'efficiente polizia internazionale e da una rete di "intelligence" guidate entrambe dagli Stati Uniti e se contemporaneamente l'America avesse messo al primo posto nella sua agenda la soluzione del conflitto Israele-Palestina e avesse giocato tutto il suo potere d'influenza politico ed economico per ottenere quel risultato, è molto probabile che il nostro mondo non sarebbe oggi di fronte alle bocche dell'inferno, cioè allo scatenamento del terrorismo più forsennato cui l'umanità abbia mai assistito.

I Demoni di Dostoevskij sono personaggi farseschi e i loro delitti quelli di nichilisti da strapazzo rispetto alle stragi che insanguinano ogni giorno la polveriera mediorientale dal Canale di Suez al Bosforo.
Così non è stato. Domandiamoci la ragione di questo drammatico peggioramento della situazione e poniamoci questa domanda a lume di logica senza passionalità di alcun genere.

I risultati della guerra afgana non furono sufficienti ad appagare la rabbia che i quasi tremila morti di Manhattan e soprattutto il crollo della mitica intangibilità americana avevano acceso nell'anima dell'America. L'America guerriera, l'America invitta, l'America liberatrice reclamava una risposta e un risultato di ben altre dimensioni che la cacciata del mullah Omar e la liberazione delle donne afgane dal "burqa" (che molte comunque continuano a tenere in testa e sul viso anche dopo la liberazione).

L'imprendibilità di Bin Laden, la resistenza dei suoi seguaci sulle montagne pachistane, le bande dei signori della guerra e i tagliatori di gole che dominano il paese, tutto ciò frustrò i sentimenti più profondi del popolo americano.

Affinché questa frustrazione non punisse l'appena nata autorevolezza di Bush, il gruppo dirigente di Washington montò due simultanee operazioni: mantenere altissima la paura di altre azioni terroristiche sul territorio americano (ricordate l'antrace, il timore e il preannuncio d'una guerra chimica e batteriologica, l'allarme per nuovi attentati sparso a getto continuo senza che per fortuna nulla di concreto seguisse). Contemporaneamente preparare la seconda guerra del Golfo, prepararla psicologicamente, politicamente, militarmente.

La seconda guerra del Golfo, dopo quella rimasta incompiuta di Bush Senior, presentava diversi vantaggi per Bush e per il gruppo dei neo-conservatori raccolto attorno alla Casa Bianca e al Pentagono. Alzava enormemente il tiro perché qui il nemico era uno Stato vero, un dittatore feroce e astuto, uno dei protettori dell'Intifada palestinese. E poi c'era il petrolio iracheno e non le capre afgane. E al posto delle catapecchie di Kabul c'era la mitica Bagdad, il centro storico del Medio Oriente, la città dei califfi, la pianura fertile tra il Tigri e l'Eufrate, il regno delle "Mille e una notte" . Infine si trattava di liberare un popolo da una feroce tirannide e dall'inizio di una partita di domino che avrebbe esteso i suoi effetti virtuosi a tutta la regione bonificando dal terrorismo e dal fanatismo la Palestina, l'Iran, la Siria, il Libano.

Quale migliore strumento infine della guerra contro Saddam per placare la rabbia e le frustrazioni dell'opinione pubblica americana? Ci volevano naturalmente motivazioni convincenti e furono trovate: il possesso di armi terribili di distruzione, la disumana ferocia del dittatore, la missione dell'America di portare libertà e democrazia in tutto il mondo, i legami tra Saddam e Bin Laden. Che si voleva di più?

* * *

Gran parte di queste motivazioni risultarono poi, col passar dei mesi, destituite di fondamento. Le terribili armi di distruzione non c'erano e infatti non furono usate: l'intelligence inglese e quella Usa avevano fabbricato per compiacere i rispettivi governi dossier sostanzialmente menzogneri. I legami di Saddam con Al Qaeda erano del tutto inesistenti. Anzi Saddam rappresentava uno degli ostacoli più solidi contro la strategia terroristica di Bin Laden, non condivideva il fanatismo religioso, non avrebbe mai permesso per quanto stava in lui l'affermarsi di un'egemonia che non fosse la propria e la concorrenza d'un potenziale aspirante al califfato di Bagdad.

Queste realtà furono in tutti i modi rappresentate a Bush e ai suoi più influenti collaboratori, nelle riunioni riservate dei gabinetti e delle cancellerie, nei dibattiti all'Onu, sui giornali di mezzo mondo. Il Papa si prodigò come mai per scongiurare una decisione così densa di pericoli. Lo stesso fecero la Francia, la Germania, la Russia, il Brasile, la Cina. I paesi arabi dal canto loro tentarono il possibile per rinviare la decisione.
Non servì a niente. Il gruppo di Bush aveva bisogno di quella guerra, tre quarti dell'opinione pubblica americana la voleva e quando vide che tardava ad essere iniziata alzò la voce e la temperatura. E la guerra cominciò. Durò 17 giorni. Fu impiegata una quantità di esplosivo maggiore di quant'era avvenuto in sei anni di guerra mondiale. I morti angloamericani furono poche decine.

L'esercito di Saddam si dissolse senza combattere. Le città furono prese senza colpo ferire, ma le truppe dei vincitori furono accolte da un silenzio spettrale: la gente aspettava di capire che cosa avrebbe guadagnato nel cambio.

Intanto cominciarono i saccheggi. (Il giorno seguente la strage dei carabinieri a Nassiriya, la settimana scorsa, quanto restava della palazzina distrutta è stato saccheggiato scientificamente, si sono portati via tutto, perfino i cartoni dov'erano imballate le carte d'ufficio, perfino una ruota di bicicletta, perfino i cassetti sopravvissuti alla distruzione dei mobili che li contenevano).

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Il primo effetto della sconfitta di Saddam per quanto riguarda il terrorismo è stato quello di suscitare una guerriglia terrorista da parte di coloro che erano rimasti fedeli al raìs. Si appostano, piazzano le mine, lanciano i razzi, sparano pistolettate alle spalle e a bruciapelo. L'obiettivo è che ogni giorno ci sia almeno un morto americano. Adesso da qualche settimana la media è salita a due e forse tre, alcuni elicotteri sono stati abbattuti. I morti tra la polizia irachena sono molti di più. Tutte le istituzioni locali e internazionali che collaborano con le forze d'occupazione sono sottotiro. Naturalmente ci vanno di mezzo anche bambini, vecchi, persone incolpevoli.

Il secondo effetto è stato l'ingresso di Al Qaeda in Iraq e con lei di una fitta schiera di terroristi e di kamikaze.

Il terzo effetto è stato che la configurazione di Al Qaeda è cambiata: non più un comando centralizzato ma la proliferazione di terrorismi locali che adottano in una sorta di franchising del terrore le tecniche di Al Qaeda. Questa nuova organizzazione di tipo, diciamo così, confederale è quanto di peggio poteva accadere: non c'è più una testa ma un'Idra dalle molte teste da tagliare e i fronti sui quali si combatte sono diventati molti di più.

Il quarto effetto avviene tra il Giordano e la Striscia di Gaza: la proposta di pace è ferma, Bush e Blair si erano impegnati a farne la prima delle questioni da risolvere e quell'impegno fu preso solennemente due settimane dopo l'11 settembre del 2001. Ma per l'ennesima volta fu messo in soffitta. Tra quella data e oggi c'è un fossato riempito da quasi tremila morti, esattamente quanto le vittime delle Torri gemelle.
Mentre scrivo queste righe arriva la notizia di altri 18 morti tra i poliziotti iracheni di due località a nord della capitale. È sabato, c'è il Ramadan, ma ormai le più radicate costumanze sono saltate. L'altra sera, in uno dei soliti vocianti talk show delle nostre televisioni, un bello spirito si rallegrava perché, diceva lui, in Iraq sono finalmente nati alcuni anticorpi contro il terrorismo che prima non c'erano. La notizia purtroppo non è questa. La notizia è che l'Iraq è in preda al terrorismo che prima non c'era per la semplice ragione che il fosco dittatore al potere non l'avrebbe permesso.

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Esiste una strategia in tutto questo, oltre quella di ricominciare a bombardare il nulla con aerei e cannoni pesanti? La sola strategia possibile può consistere nel disossare il terrorismo globale che la dissennata guerra irachena ha scatenato ai danni del mondo libero sempre meno libero. Cominciando dall'inferno palestinese. Il modo esiste: bisogna stabilire quale sarà lo Stato palestinese previsto per il 2005, i suoi confini, i suoi diritti e i suoi doveri, la sorte degli insediamenti israeliani al di là dei confini del ?67, i vincoli e le garanzie a salvaguardia di Israele, gli aiuti economici ad entrambi i contendenti, l'eventuale e forse necessaria forza internazionale di interposizione. Insomma sfilare la patata bollente palestinese dal terrorismo globale confederato.

Bisognerà anche avviare un'operazione analoga per quanto riguarda il terrorismo ceceno, checché ne pensino Putin e il suo difensore d'ufficio.
Bisognerà che l'Onu assuma al più presto la guida della ricostruzione politica ed economica dell'Iraq, protetta da un adeguato contingente militare posto agli ordini delle Nazioni Unite e sotto la loro bandiera.
Per uscire dal pantano iracheno e per ridurre Al Qaeda alle sue dimensioni originarie non esiste altra via purché si sia ancora in tempo e purché la svolta sia limpida e netta. Purché infine nessuno dei paesi che contano si assuma gli oneri che questa strategia comporta.

Bisogna insomma rimettere il coperchio sul vaso di Pandora dissennatamente scoperchiato e tenercelo inchiodato sopra. Probabilmente una strategia di questo genere non piacerà a Bush junior né a Cheney né a Rumsfeld né a Condoleezza Rice né ai vari neo-conservatori di mezzo mondo. Ma altre strade non ci sono. Qualche altro bello spirito televisivo (ce ne sono ormai in abbondanza) si è chiesto l'altra sera: chi ci garantirà che il territorio del futuro Stato palestinese non diventerà una base terrorista? Risposta: ma non lo è già? Qual è l'alternativa se non quella di Rabin di scambiare la terra con la pace?




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