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Da LA STAMPA 28 settembre 2003

In democrazia le leggi e le forme si sostituiscono alla naturalezza primitivista delle passioni e la politica non è smania di fucilare un nemico-oppositore, ma arte di fare il bene pubblico in concorrenza e non in guerra con l'avversario

I riti che fondano la civiltà

di Barbara Spinelli

Dice il deputato-avvocato Carlo Taormina che il suo modello è l’attuale presidente del Consiglio: anche quando finge di dimettersi da parlamentare, perché sospettato d’aver dato credito a faccendieri e fabbricatori di falsi dossier nella commissione Telekom Serbia, e poi ritira beffardo le dimissioni. "Cerco d’imitare Berlusconi, estraneo ai falsi riti", dice in un’intervista. Molti comportamenti classici della democrazia rappresentativa entrano nel novero di quelli che son visti da Taormina e da Berlusconi alla stregua di falsi riti, e tutti son giudicati noiosi, poco proficui: in ogni caso ipocriti, non autentici, non naturali. E’ noioso e poco proficuo accordarsi con l’opposizione, nel momento in cui si istituisce una commissione parlamentare d’inchiesta sull’affare Telekom Serbia: la società allo stato naturale impone la guerra di tutti contro tutti, e le commissioni parlamentari sono fatte non per sapere come siano effettivamente andate le cose, ma per calunniare e piano piano annientare l’onorabilità dello schieramento avverso.

E’ un rituale ipocrita il rispetto delle regole, così come lo sono la disputa formalmente beneducata con l’avversario politico, l’attenzione a non dire parole a vanvera, la ricerca del vero in un affare politico-finanziario. La politica ha da essere una passione autentica, un’arte primitiva, e questo è possibile solo se essa assurge allo statuto di guerra. In guerra le regole son quasi tutte d’eccezione e le parole quasi tutte assassine: nel dizionario del ministro delle Riforme Bossi si dice fucilare l’avversario (o l’alleato scomodo), in luogo di confutare. Si dice eliminare, invece di competere. Una commissione d’inchiesta non lavora come in tempi normali, in simili condizioni: ha alle spalle un’intelligence invisibile oltre che inaccessibile (così il presidente Trantino definisce lo staff che fornisce ai parlamentari i dossier sulle persone sospette), usa gli articoli di stampa come dispositivi di questa o quella propaganda, e mescola arbitrariamente competenze politiche-finanziarie che sono certamente sue con competenze che sono penali e di conseguenza non sono sue.

Di qui l'impressione sgradevole, che si ha quando si esamina il caso Telekom alla luce delle rivelazioni fatte venerdì da Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo su "Repubblica": la commissione parlamentare incaricata di indagare è presieduta da un uomo onesto, Enzo Trantino di Alleanza Nazionale, ma è in realtà congegnata come una macchina di guerra politica. Non è fatta per accertare il vero, ma per durare e ferire l’avversario tutto il tempo che politicamente sarà giudicato necessario da chi ha mobilitato faccendieri e fabbricatori di falsi. Lo stesso Trantino sembra nutrire in proposito qualche sospetto: "E’ possibile che qualcuno abbia usato la mia faccia, senza meritarla. E io ho il dovere di approfondire questo punto. Ho il dovere di sapere. Anche perché la buona fede, se si viene ingannati, può essere addirittura un’aggravante". Proprio perché dice queste cose ("Ho un solo patrimonio da difendere, il mio onore") Trantino è giudicato da Taormina "troppo sbilanciato a sinistra". E comunque, non genuinamente leale alla maniera in cui si è leali in un’orda. Taormina gli è stato accanto in tanti momenti difficili: perché Trantino non restituisce i favori?

Trantino evidentemente non sa il vero scopo della commissione d'inchiesta: far quadrato intorno a falsi documenti e informatori, nella certezza di poter infangare i capi dell’opposizione anche se è chiaro che questi non sono coinvolti in casi di corruzione. E agire in modo tale che con l'andare del tempo l’avversario ne esca con la reputazione spezzata. L’affare Telekom Serbia è bene che duri fino alle elezioni europee o meglio ancora fino alle politiche del 2006, indipendentemente dalle verità scoperte. I tempi dell’indagine hanno poco a vedere con la verità, la giustizia. Sono tempi esclusivamente politici, e in quanto tali bellici. Da questo punto di vista sono di certo una trappola, come è stato scritto.

In questa trappola rischiano oggi di cadere tutti, se non avviene un generale ravvedimento: maggioranza, opposizione, giornalisti. E’ una trappola che impedisce alla commissione di lavorare secondo tempi corretti, connessi al vero oggetto d'indagine che riguarda gli aspetti economici e politici dell’acquisizione di una quota della telefonia serba. E’ una trappola che non fa distinzione fra l'aspetto penale (di competenza del giudice) e quello economico-politico (di competenza parlamentare). Che confonde quello che chiaramente sarebbe un crimine se venisse provato (la corruzione, le tangenti) e quello che fu al massimo un errore (l’acquisto della telefonia serba in un momento non opportuno e magari anche improvvido, finanziariamente e politicamente). E’ il motivo per cui la macchina da guerra può stritolare anche l’opposizione, se essa accetta che l’affare resti in sospeso e venga chiuso senza che i suoi aspetti vengano definitivamente chiariti e disgiunti: la fabbricazione disonesta delle accuse da una parte, e l'acquisto di Telekom Serbia dall'altra; l’accusa di corruzione da una parte, e l’accusa d’aver commesso errori dall’altra. Uno sbaglio forse è stato fatto, quando sotto il governo Prodi venne acquistata una quota di Telekom Serbia da parte di un’impresa in via di privatizzazione, la Stet-Telecom. Uno sbaglio compiuto in verità da tutti gli occidentali dopo gli accordi conclusi con il regime serbo a Dayton nel ‘95, come spiega assai bene in un’intervista a questo giornale Ljubisa Ristic, l’uomo cui Milosevic affidò il programma delle privatizzazioni dell’ex Jugoslavia: "Era una corsa frenetica, una specie di assalto alla diligenza con gruppi tedeschi, inglesi, francesi e italiani che tentavano di fare affari in ogni comparto: in quei mesi si fecero vive praticamente tutte le società telefoniche europee e questo confermava come l'acquisto della Telekom Serbia fosse un grosso affare" (intervista a Giuseppe Zaccaria, "La Stampa", 25 settembre 2003). Forse l’acquisto fu effettivamente un errore, forse no. L’Ulivo potrebbe un giorno ammetterlo pubblicamente e dire quello che ne pensa, se non vuol restar prigioniero della perversa congiunzione fra quello che potrebbe essersi verificato (l’errore momentaneo, anche se poi corretto dalla scelta di entrare in guerra contro Milosevic) e quello che non c’è stato (il crimine delle tangenti).

Per tutti, dunque, c’è urgenza che sia stabilita la verità, al più presto. E soprattutto: che i tempi siano quelli necessari a un’indagine completa, e non all’interesse di questo o quel partito, e di una maggioranza che si sente costretta ad affidare il proprio successo elettorale alle Commissioni d'inchiesta e alla creazione di scandali, quasi non avesse numeri in sovrabbondanza - alle camere - per governare.

Ogni mestiere ha i suoi riti, le sue norme: anche il mestiere di giornalista, che non può divenire ostaggio di guerre partitiche di trincea. Che spesso è alle prese, addirittura, con verità doppie: da una parte la verità di un acquisto che forse non fu gestito in maniera trasparente, oculata, e che favorì sia pur transitoriamente il dittatore Milosevic, come D'Avanzo e Bonini scrissero su "Repubblica" nel febbraio 2001; dall'altra la verità di prove falsificate da faccendieri oscuri per incriminare penalmente quella medesima sinistra che oggi è opposizione, come denunciato dagli stessi giornalisti su "Repubblica".

E’ bene che vengano spiegati tutti questi fatti contraddittori, di Telekom Serbia: è bene per la sinistra che s'oppone e spera di tornare al governo, per il centro destra che non vuol confondersi con le manovre di Taormina, e per i giornalisti che hanno come ambizione quella di fare inchieste comunque veritiere, di convivere se necessario con verità doppie, e di non guardare in faccia i partiti che vorrebbero inchiodarli a speciali obblighi di schieramento.

Alcuni chiameranno tutto questo: un falso rito d’indipendenza giornalistica, un falso rito di correttezza parlamentare, giudiziaria. Ma non si vede cosa vi sia di falso in esso, e perché il rito stesso sia riprovevole. I riti, dice il dizionario, sono cerimonie consuetudinarie che tendono a realizzare, nell’individuo o nella comunità, il rapporto con il mondo divino. La civiltà è intessuta di riti, e chi preferisce il ritorno al primitivo, all'autentico, si è fatto l’idea che l’uomo debba esser bestia, e tale restare. Di riti è fatta anche la democrazia, quando le leggi e le forme si sostituiscono alla naturalezza primitivista delle passioni e quando la politica non è smania di fucilare un nemico-oppositore, ma arte di fare il bene pubblico in concorrenza sì, ma non in guerra con l’avversario.




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