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Da REPUBBLICA del 28 agosto 2003

In maggio le prime "rivelazioni" sull'affare Telekom Serbia. Ma ogni volta il "grande accusatore" corregge e ritocca le cifre

I ricordi a rate
del "conte" Marini

di Carlo Bonini

ACCADE che, da tre mesi a questa parte, robusti settori della maggioranza parlamentare, esponenti di un qualche peso della Commissione d'inchiesta Telekom Serbia, abbiano deciso che le parole e i numeri di Igor Marini vadano prese molto sul serio. Ma molto sul serio. Che non se ne sprechi una goccia, se ne vagli ogni singolo dettaglio. Che mezza Europa venga alluvionata di rogatorie.

Perché i retroscena politici e finanziari della compravendita della compagnia telefonica serba nel giugno '97 - illuminati da un'inchiesta pubblicata su questo quotidiano nel febbraio del 2001 e ancora da un'ulteriore indagine documentale del luglio scorso - possano trovare una decisiva risposta non già in una paziente ricostruzione delle tracce finanziare pure sin qui squadernate sul tavolo delle evidenze, non nelle troppe incongruenze dei molti testi chiamati a deporre in Commissione. Ma nella valigia dei ricordi a rate di un curioso "Conte" che conte non è, già indagato dalla Procura di Roma e oggi detenuto a Torino con le accuse di associazione per delinquere, falso, truffa, ricettazione.

Al momento dell'arresto, Marini è uomo dal passato che è generoso definire opaco e un presente da facchino al mercato ortofrutticolo di Brescia. A Roma - per dirla come la si dice da queste parti - ha rifilato "sole" (truffe) a chiunque ne abbia incrociato il cammino. E' gonfio di "buffi" (debiti). Ma in fondo - azzarda la maggioranza a san Macuto - perché non provare a credergli? Enzo Trantino, presidente della Commissione di inchiesta, chiosa: "Anche il Diavolo può avere parole di verità". E dunque la "scommessa" viene giocata. Dal 7 maggio, data in cui appare per la prima volta sul proscenio dell'inchiesta parlamentare, Marini viene interrogato quindici volte. Due dalla Commissione parlamentare di inchiesta (in carcere a Berna e in carcere a Torino), sei dai magistrati di Torino, sette dagli inquirenti svizzeri.

Tra luglio e agosto i suoi verbali alla commissione di inchiesta vengono pubblicati a puntate sui quotidiani il Giornale e Libero. Marini crocifigge l'intero centro-sinistra, spiegando che il prezzo della corruzione nell'affare Telekom è rimasto appiccicato alle mani e ai conti di Romano Prodi ("Mortadella"), Piero Fassino ("Cicogna"), Lamberto Dini ("Ranocchio") e la moglie Donatella, Walter Veltroni, Francesco Rutelli, Clemente Mastella, Willer Bordon (forse sì, ma forse no a sentire il legale di Marini). E dei primi tre, il 7 agosto scorso, Carlo Taormina (Forza Italia) chiede l'arresto.

Gli accusati affidano la pratica agli avvocati, ritenendo superflui ogni pubblico commento o interlocuzione sull'affare che si discostino dalle carte bollate e dallo "sdegno" per le "parole di un ciarlatano". Almeno fino a ieri, quando Prodi, Fassino e Veltroni si dicono disponibili ad essere ascoltati dalla Commissione parlamentare d'inchiesta. In questo silenzio, l'affare Telekom Serbia si riduce così ad Igor Marini. Una mirabolante clava nelle mani degli accusatori, allegramente brandita per novanta giorni. Nessuno fa la cosa più semplice. Misurarsi con la bolla delle sue "rivelazioni", lasciando così che cresca a dismisura. E dire che ce ne sarebbe modo. Da subito. Leggendo attentamente carte, numeri, circostanze che gonfiano lo scartafaccio Marini e di cui Repubblica è in possesso.
Vediamo.

In maggio, Marini racconta di aver distribuito nel 2001 la tangente Telekom Serbia ad esponenti del centro-sinistra con tre diverse operazioni di rientro di capitali esteri. Da cinquanta, centocinquanta e trentadue milioni di dollari (non ha importanza, ora, entrare nel merito di ciascuna. Lo faremo più in là). Si tratta dunque di circa quattrocentosessanta miliardi di vecchie lire. Quindi, in giugno, corregge. Ai 230 milioni di dollari delle tre operazioni ne vanno aggiunti altri 120 di una quarta transazione. In tutto, settecento miliardi di lire. In luglio, fa di conto una terza volta. "Posso dire che ho prove certe per una tangente da 439 miliardi". E dunque: quattrocento sessanta, settecento, quattrocento trentanove. Miliardi, si intende.

Ora, il pallottoliere del "Conte" - lo si giri come si vuole - si pappa a suo dire tra la metà e i due terzi abbondanti dell'affare (a seconda del ricordo che si tenga per buono: 439 o 700 miliardi). Nel giugno del '97, il 29 per cento di Telekom Serbia viene infatti ceduto a Telecom Italia per 878 miliardi di lire. Belgrado, insomma, a sentire il "Conte", di questo denaro ne trattiene tra la metà e un terzo scarso. Meglio: Marini aggiunge - buttandolo lì come dettaglio di sfondo su cui medita di tornare presto - che Slobodan Milosevic gli affida un cento milioni di dollari sottratti al prezzo versato dagli italiani da appoggiare su una banca americana. Sono altri duecento miliardi di lire. Che sommati alle tangenti italiane (che abbiamo detto sono tra i 439 e i 700 miliardi, a seconda dei ricordi di Marini), in un caso totalizzano 639 miliardi, in un altro addirittura 900, vale a dire oltre l'intero valore dell'affare. Ci sarebbe materia per fare qualche domanda al teste. Quanto meno per fargli fare di conto. Non accade.

Affrancato da obblighi di coerenza matematica, Marini va dunque al sodo. E prima di pasticciare la tavolozza delle sue rivelazioni estive con una pioggia di nomi, indirizzi, conti bancari, in fondo la fa semplice. Alla Commissione e ai magistrati di Torino indica la sua società off-shore "Jundor Trading" come snodo del traffico delle tangenti in rientro. E ancora: racconta un drammatico confronto - siamo nel 2001 - con Fabrizio Paoletti, avvocato d'affari romano, suo ex socio.

"Paoletti mi spiega: 'Allora Igor, tu devi sapere una cosa. Prima di tutto ci hai dato una marea di problemi, non volendo mai collaborare con quel titolo da 50 milioni di dollari (la prima operazione di rientro della tangente ndr.). Adesso, questo titolo deve essere collocato entro maggio, perché noi tra giugno e luglio dobbiamo eseguire tutti i pagamenti e chiudere tutto quanto. Ti darò anche un altro titolo da 150 (la seconda operazione di rientro della tangente ndr.), ma prima fai quello da 50. Poi saremo in esaurimento. Sai perché ce l'abbiamo tanto con te?' E io dico: "No, spiegamelo". E Paoletti: "Perché questo titolo, alla scadenza, verrà pagato immediatamente. Perché una banca serba che ha partecipato alla vendita e all'incasso di Telekom Serbia ha pagato direttamente il titolo (...) Sono i soldi in surplus che sono stati gestiti dai serbi e che piano piano stanno rientrando a chi di dovere. Caro Igor, sono Ranocchio, Cicogna e Mortadella. Se non lo fai, Fox agisce..."" (Berna, 19 maggio, verbale di interrogatorio di Igor Marini ai pm di Torino).

La minaccia di Fox è talmente seria che Marini la squaderna anche alla Commissione parlamentare di inchiesta. E del resto è dettaglio importante. Perché Fox è l'uomo che muove Paoletti. Che non può aspettare oltre il denaro, a meno di non urtare Cicogna, Mortadella e Ranocchio. "Fox agisce....". Fox, verosimilmente, è l'uomo che arma due "serbi" dall'aria truce - Zoran Persen e Rados Tomic - che in un hotel di Zurigo - ancora nel settembre 2001 - minacciano con una pistola Marini.

Ora, i due "serbi", serbi non sono. Accade che uno sia croato, Persen (ora detenuto a Novara) e l'altro sia nato in Australia (Tomic). Ma anche questo - che un croato abbia gestito soldi del regime serbo in un Paese che si è scannato in nome delle etnie - appare dettaglio che finisce in un angolo buio. In fondo li mandava Fox...

Ma chi è Fox? Igor dice alla Commissione di inchiesta: "Lo conosco come Fox e basta" (trascrizione seduta del 7 maggio ndr.)". "E' forse tale Antonio Volpe?", eccepisce il commissario Giuseppe Consolo. Quell'uomo dai tanti mestieri di cui nessuno sa il 7 maggio ma che il 31 luglio apparirà a san Macuto con un altro scartafaccio di documenti sigillati che promettono chi sa cosa? "Antonio Volpe? Dovrei guardarlo negli occhi...", dice Igor misterioso in quei giorni di maggio. Del resto, chi trova Fox trova Mortadella, Cicogna e Ranocchio.

Il mistero di Fox è di cartapesta. Fox si chiama Antonio Lanciano e di mestiere fa il grossista di carni. Il citofono, come il telefono della sua abitazione, a Roma, in questi giorni suonano a vuoto. Ma la sua storia è documentalmente acclarata.

Nell'aprile del 2000, Lanciano si lascia convincere da Francesco Giannandrea, amico dell'avvocato Paoletti, che, vincolando un milione di dollari per un anno sul conto svizzero della "Jundor trading" di Igor Marini, entrerà in un programma di finanziamento di aiuti umanitari della Federal Reserve americana che assicura interessi del 20 per cento in un mese.

Lanciano ha un conto presso la Banca del Sempione, in Svizzera. E quel conto ha un nome: "Fox". Da lì viene accreditata la somma a favore di Marini (1 milione di dollari) e su quel conto, come nelle favole, arrivano dopo un mese dall'"investimento", i 200 mila dollari del guadagno promesso. Da stropicciarsi gli occhi.

Peccato che Lanciano-Fox da lì in avanti non veda più una lira. Nel maggio 2001, trascorso l'anno, il milione di dollari vincolato non torna indietro. Scomparso. Il grossista di carni si lamenta con Giannandrea, di cui si è fidato. Giannandrea si lamenta con Paoletti. Paoletti dice a Giannandrea che il denaro lo ha preso Marini. Marini che lo ha restituito a Paoletti. Una catena di sant'Antonio di patetiche bugie. Lanciano è fuori di sé. Dunque Fox - il conto che parla per lui - è fuori di sé. Anche perché non riesce a mettere le mani sui signori che si sono bevuti i suoi soldi.

Al "Conte" e a Paoletti viene allora un'idea. Perché non imbarcare Lanciano-Fox in un'altra avventura? Certo, non ha ancora visto il milione di dollari rientrare alla Banca del Sempione, ma se porterà pazienza, se non andrà dritto a denunciarli, c'è l'affare della vita che lo aspetta. Un bel titolo di credito da 50 milioni di dollari della "Bank Negara Indonesia" che, negoziato a dovere, attraverso linee di credito dello Ior, gli consentirà di rientrare. E' la patacca che il Conte cerca e cercherà inutilmente di negoziare sui mercati finanziari e che, due anni dopo e con gran successo, scaraventerà sul tavolo della Commissione Telekom Serbia come prova della mediazione per le tangenti Telekom.

Giannandrea ne parla con Lanciano. Lanciano ci sta. E fa male. Nell'aprile 2002, in un grottesco rendez-vous per la consegna del denaro promesso a Fox, alla presenza di Paoletti, di una misteriosa coppia croata con figli, di sua moglie, Igor si presenta trafelato. Due sconosciuti lo hanno rapinato del contante, giura. Chiede altri trentacinque giorni di tempo per un nuovo appuntamento. Questa volta - sono i primi di maggio - siede con Paoletti in un ristorante. Ma quando mette le mani in tasca ne estrae solo un pezzo di carta straccia che spaccia per certificato dello Ior. Paoletti non fa neppure in tempo a ragionarci sopra. I carabinieri lo arrestano in flagranza di reato. E con lui Giannandrea e Lanciano. Marini li ha denunciati per riciclaggio.

In un colpo solo Igor si è liberato dei tre "seccatori". Il socio (Paoletti), il mediatore (Giannandrea), il creditore truffato (Lanciano-Fox). Lanciano trascorre a Regina Coeli meno di 48 ore (dove finalmente conosce Paoletti) e viene scarcerato per "insussistenza del reato" (ordinanza di liberazione del gip di Roma Pierfrancesco De Angelis del 4 maggio 2002). Il suo milione non torna più indietro.




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