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LA STAMPA - Mercoledì 26 Settembre 2001


ANTIAMERICANISMO Le radici profonde del pregiudizio
di Gianni Riotta

NEW YORK - Monica Goldstein aveva paura degli ascensori al World Trade Center. Qualcuno le aveva spiegato che un paio di volte s'erano sfasciati, fermati solo all'ultimo dai freni di emergenza. Non era vero, ma Monica talvolta si emozionava anche per un film dell'orrore, visto in tv a tarda notte con la sorella Adrienne e restava a dormire con lei. Monica Goldstein lavorava al piano 101 del WTC, con i colleghi della finanziaria Cantor Fitzgerald. Martedì undici settembre quegli uffici sono stati il bersaglio diretto del jet dirottato, gli impiegati "vaporizzati dal calore sviluppato dal carburante, pari a 2000 gradi centigradi". I parenti non avranno nessun resto da tumulare. Eppure, secondo tanti, Monica non è morta. Il 23 settembre La Stampa riportava la lettera di un funzionario italiano, che si trovava in Siria il giorno dell'attentato. Il nostro lettore spiega che la tv di Damasco, "citando la rete americana Cnn", ha informato che tra gli oltre 6000 morti delle Torri Gemelle "non c’è nessun ebreo". La leggenda urbana, o bugia, o campagna di disinformazione, chiamatela come volete, sostiene che il Mossad, lo spionaggio israeliano, avrebbe organizzato il blitz terroristico a New York, ma prima avrebbe informato uno per uno gli ebrei, che in 4000, sarebbero rimasti a casa salvandosi la vita. E' una calunnia, ovviamente e Cnn non l'ha mai riportata. Monica era ebrea e come lei centinaia di caduti alle Torri Gemelle. A Manhattan la maggioranza degli ebrei sposa gentili, e come si sarebbero comportate queste coppie? La moglie ebrea resta a casa accusando mal di testa e manda al massacro il marito cattolico? Eppure la sciagurata fola circola nel mondo arabo, viene rilanciata su Internet (date un'occhiata a www.lastampa.it) da firme che mutano sempre. C'è chi la rilancia da sinistra, in odio a Israele e in sostegno all'Intifada palestinese. E c'è chi la diffonde da destra, in nome del mai sopito antisemitismo. Destra, sinistra, islamici, cattolici tradizionalisti, antiglobal, l'antiamericanismo è altrettanto diffuso della passione che le stelle e le strisce suscitano ovunque nel mondo.

Parlando ai suoi militanti Ds, l'ex premier Massimo D'Alema ha ammonito che lo spazio per "l'antiamericanismo" è finito. Ma ancora ieri il New York Times criticava gli interventi del premio Nobel Dario Fo, che mette in rapporto la strage al World Trade Center con la politica estera Usa (ieri Fo ha fatto una parziale retromarcia rispetto alle sue prime dichiarazioni). Lawrence Rosenthal, docente di Politica italiana all'università di Berkeley, scrive: "Il punto di vista di Fo imbarazza la sinistra storica e umilia il suo progetto di pace e giustizia sociale nel dopo Guerra Fredda". "Perché ci odiano?". Non c'è europeo in questi giorni negli Usa che non si sia sentito fare da un amico americano questa domanda. Perché? Chi si dichiarasse tout court "antiafricano", "antisemita", "antieuropeo" verrebbe subito bollato come razzista. Abbiamo imparato, con fatica, che generalizzare il risentimento per una intera comunità è sbagliato. Invece in tanti, tornate ai siti Internet, si vantano di "essere antiamericani, pur deprecando la strage di New York". Cosa vuol dire? Essere contro il presidente George W. Bush e contro il democratico Al Gore che lo osteggiava? Contro Hollywood e contro Woody Allen o John Singleton, registi con un'idea opposta di cinema? Contro le multinazionali e contro il popolo antiglobal che proprio qui negli Usa, a Seattle, ha ricevuto il suo battesimo? Contro Duke Ellington? Contro la violenza del maccartismo e contro l'elegante coraggio degli americani che si opposero alla caccia alle streghe, Jim Aronson, il direttore del "Guardian Angel", Edgar Murrow della Cbs, l'inventore del giornalismo tv, Dashiell Hammett, il giallista che andò in galera, lo sceneggiatore Dalton Trumbo? L'antiamericanismo della piazza araba si basa sulle scelte Usa e sul malinteso senso di accerchiamento dell'Islam. Ed è nutrito da ignoranza, da settarismo, dalla propaganda interessata. Ma in occidente? Per anni gli esperti di Washington hanno parlato del "soft power", il potere morbido che la cultura di massa offre agli Stati Uniti. Film come il cartone animato "Mulan" della Disney, non contengono neppure un personaggio "bianco". Sono prodotti, come la musica di rivolta nera dei ghetti rap, i blue jeans, i pantaloni kaki, le scarpe sneaker che le donne iraniane indossano sotto lo chador, il computer, Internet, capaci di diffondersi nel mondo. Il regista tedesco Wim Wenders, nel suo capolavoro "Nel corso del tempo", fa dire a un personaggio "Gli americani ci hanno colonizzato l'inconscio". Il film risale a una generazione fa. Oggi la cultura di massa sviluppa un inconscio collettivo, gradevole o sgradevole che sia, dove Bocelli e Manu Chao, Tom Cruise e Umberto Eco, Ronaldo e Michael Jordan, Madonna e il cuscus, la ginnastica spinning in bicicletta, il software e i videogame, non sono "americani" o "europei", ma globali. C'è chi assegna il rancore antiamericano alla politica estera. Chi ricorda i bombardamenti indiscriminati della corazzata New Jersey contro la costa libanese nel 1983, dopo l'attentato alla caserma dei marines a Beirut. Chi accusa Washington di parzialità con Israele contro i palestinesi. Chi ricorda le sanzioni contro l'Irak, i bombardamenti Nato a Belgrado. Ma l'animosità contro la dittatura di Franco, le proteste contro il regime sovietico di Breznev, la campagna mondiale anti Pinochet, lo sdegno per i massacri di Pol Pot non si mutarono mai in astio verso i popoli. Al contrario spagnoli, russi, cileni e cambogiani venivano visti con simpatia. Sugli americani invece la condanna è comune, abbracciando anche i milioni di cittadini che si sono battuti, apertamente, contro le politiche in questione. "Perché ci odiano?". Va detto chiaro: criticare gli Usa è il solo modo per essere davvero amici di quel paese. E, già ora, mezzo parlamento è in rivolta contro le misure di sicurezza predisposte dal ministro della giustizia, il conservatore John Ashcroft. I democratici si preparano a difendere la privacy. Se pare che il ministro della Difesa Donald Rumsfeld stia allestendo un piano per controllare l'accesso all'informazione, i giornalisti accreditati alla Casa Bianca si rivoltano. E quando l'emozione patriottica invade gli schermi televisivi, dopo l'attentato, la rete Abc -il cui anchorman, Peter Jennings è nato in Canada, proibisce ai propri redattori di indossare distintivi o coccarde patriottiche: "siete cronisti tenuti all'equanimità, non militanti dediti alla propaganda".

Un altro elemento di "antiamericanismo" è economico. L'idea, vecchia di due secoli purtroppo, che la povertà del Terzo mondo derivi dall'eccesso di ricchezza occidentale. Studi come quelli di Amartya Sen provano che, al contrario del Sette-Ottocento, il nostro mondo non è affatto un gioco a somma zero. Non è necessario che un paese si arricchisca, impoverendo gli altri, come il Belgio che fece 12 milioni di morti in Congo. Lo sviluppo dei paesi asiatici, l'Europa post bellica, il Giappone, la situazione in America latina rispetto a vent'anni fa, l'India con 200 milioni di cittadini nel ceto medio e la Cina dove non si muore più di fame e si prova a comprare un telefono cellulare, provano che è possibile crescere insieme. Ma il luogo comune è tenace, diffuso in Europa, dove certo il tenore di vita non è inferiore a quello americano. Infine c'è un "antiamericanismo estetico". Il vignettista di sinistra che ritrae tutte le americane ciccione. Il ministro della cultura francese Jack Lang che, nel 1982, propone di espungere le parole americane dal vocabolario francese (e finirà per appuntare la Legione d'Onore sul petto di Clint Eastwood e Jerry Lewis...). Quelli che "non bevono Coca Cola, per carità". Il grande scrittore Graham Greene studiava lunghe deviazioni nei suoi viaggi aerei, pur di non mettere piede negli Usa "troppa aria condizionata e troppi riscaldamenti". Tanti li boicottano in odio, giusto, alla pena di morte: ma la campagna è sempre contro gli Usa, mai contro la Cina che mette al muro per furto, con processi sommari, centinaia di poveracci. "Perché gli Usa sono una democrazia, la Cina no" è la tradizionale replica: battuta che, se applicata al passato, non avrebbe mai portato in piazza nessuno contro i colonnelli greci o la garrota franchista. "The ugly American", il brutto americano, sta facendo esame di coscienza. Il paese è capace di adottare i suoi critici. I filosofi Adorno e Marcuse, avversari della società di massa, hanno ispirato il '68 nei campus, da Berkeley '64 con l'italoamericano Mario Savio. Bertolt Brecht, che detestava "il mercato dei sogni" di Hollywood, è rappresentato in tv più che in Europa, giusto in queste ore con Louis Armstrong che canta "L'Opera da Tre soldi". Decine di teatri off Broadway e cantine sperimentali mettono in scena Fo e la Rame. Wenders venne qui a girare "Paris, Texas". Nelle università americane domina la filosofia postmoderna francese di Derrida. Il "pensiero postcoloniale" fondato alla Columbia University dall'araboamericano cristiano Edward Said è dottrina di insegnamento e il multiculturalismo si pratica anche nelle scuole elementari. La cucina etnica, dall'italiana alla africana, popola di insegne i ristoranti e lo Slow Food di Carlin Petrini, nato contestando il fast food americano, raccoglie negli Usa legioni di entusiasti. Agli amici che ripetono sconsolati, "Perché ci odiano?" sarebbe bello poter rispondere che nessuno può, in buona fede, "odiare" un paese intero, ma che ci sono legittime critiche, diversi punti di vista, differenze storiche. Purtroppo leggendo i proclami di Osama bin Laden ("la sua retorica è viva, fiorente di tradizione, a tratti degna della cultura classica islamica" nota il maggiore islamista occidentale, Bernard Lewis), collegandosi con Internet "perché non scrivete che nessun ebreo è morto al World Trade Center: venduti!", ascoltando i distinguo farisaici di tanti "esperti" in tv, viene il dubbio che l' antiamericanismo, il rancore verso tutti gli americani, di ogni colore, razza, credo religioso e politico, status sociale e filosofia personale, sia radicato, capace di generare ancora a lungo frutti amari.

gianni.riotta@lastampa.it




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