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DIBATTITO SULLA
RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO E ART.18

Dal CORRIERE DELLA SERA del 25 marzo 2002

Allineare l'ordinamento sul lavoro italiano con quello tedesco

Una proposta (ragionevole)

di Pietro Ichino

C'è un terreno sul quale l'eccellenza del lavoro svolto da Marco Biagi nell'ultimo decennio in rappresentanza del governo italiano, tra Roma e Bruxelles, è riconosciuta da tutti, a sinistra come a destra: quello dell'armonizzazione tra gli ordinamenti nazionali europei. Forse, affinché la ripresa del confronto tra governo e sindacato non si riduca all'inutile liturgia di un dialogo tra sordi, si potrebbe ripartire proprio da qui: in cambio di una disponibilità del governo ad azzerare la delega legislativa sull'articolo 18 dello Statuto, il sindacato potrebbe dare la propria disponibilità a un confronto sull'armonizzazione del nostro diritto del lavoro rispetto a quello dei nostri maggiori partner comunitari.
Lo studio dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) pubblicato nel 1999 sulla rigidità della disciplina dei licenziamenti individuali nei Paesi industrializzati attribuisce, in una scala da zero a cinque, il grado di rigidità medio 2,9 all'Italia, 2,8 alla Germania, 2,6 alla Spagna, 2,3 alla Francia, 1,5 al Belgio, 0,8 alla Gran Bretagna (in questa graduatoria, per intenderci, agli Usa è attribuito il grado 0,2).

Allineare l'ordinamento italiano con quello tedesco, che lo segue immediatamente nella graduatoria dell'Ocse, è possibile senza alterare la struttura dell'articolo 18 del nostro Statuto: anche in Germania, come da noi, nel caso in cui il licenziamento è ritenuto illegittimo, può essere ordinata la reintegrazione del lavoratore nel suo posto in azienda. La sola differenza sta nel fatto che i giudici tedeschi possono discrezionalmente, tenuto conto delle circostanze, limitare la condanna dell’imprenditore a un congruo risarcimento (di fatto, essi applicano la reintegrazione forzata soprattutto quando ritengono che il licenziamento sia stato determinato da motivi di discriminazione, di rappresaglia antisindacale o di mero capriccio). Si tratterebbe di introdurre anche da noi una norma che attribuisca al giudice del lavoro di decidere discrezionalmente secondo buonsenso - tenendo conto delle circostanze e dei motivi che hanno determinato il licenziamento, sovente in sé legittimi, anche se giudicati insufficienti - se disporre la reintegrazione del lavoratore o limitarsi a condannare l'impresa a un risarcimento adeguato. Si tratterebbe inoltre di regolare i criteri di risarcimento: in Germania la legge fissa un limite massimo di 18 mensilità di retribuzione; da noi potrebbe essere negoziato un limite massimo doppio rispetto a quello tedesco. Nell'ottica, condivisa apparentemente da tutti, dello "Statuto dei lavori", si potrebbe infine cogliere l'occasione per istituire il diritto a un ragionevole preavviso di licenziamento per i collaboratori autonomi continuativi, che oggi sono privi di qualsiasi tutela. Una riforma come questa ridurrebbe di un poco quel decimo di grado di rigidità che ci separa dalla Germania nella graduatoria dell'Ocse, eliminando alcune conseguenze abnormi della regola attuale della reintegrazione automatica e inderogabile, anche a molti anni di distanza dal licenziamento. Ma lascerebbe intatta la struttura della protezione offerta dall'articolo 18. E, per converso, incomincerebbe a offrire almeno una protezione elementare a chi oggi non ce l'ha. D'altra parte, nessuno può ragionevolmente rifiutare di discutere di una riforma ispirata al modello tedesco, uno dei più protettivi del mondo. Anche sindacato e opposizione hanno interesse a evitare uno scontro su questo punto, che rischia di avere per il Paese, e in primo luogo per i lavoratori, un costo sproporzionato rispetto al rilievo effettivo delle modifiche legislative di cui si discute. Altri temi su cui misurarsi, e di ben altro peso, sono in agenda.




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