Da LA STAMPA 23 novembre 2003
La strategia puramente militare non dà frutti, anzi accresce i pericoli di una recrudescenza degli attentati e delle disfatte.
Le democrazie sono superiori perché sanno correggere i propri errori. Bush e Blair non sono su questa strada
L'uso del dolore
di Barbara Spinelli
IL dolore degli italiani per i caduti di Nassiriya. Il dolore
dei turchi per i due attentati a Istanbul. Il dolore dei musulmani e degli ebrei
e dei cristiani, contro cui si scaglia di questi tempi un Islam politicizzato,
radicale, fanaticamente pronto non già al suicidio dei propri affiliati, ma
all’intreccio nefando fra suicidio e assassinio di tutti coloro che s’aggirano
nei luoghi degli attentati, poco importa se uomini armati o civili inermi o
persone oranti in una sinagoga. Si può capire il desiderio dei responsabili
politici di immedesimarsi in questo dolore, di parlare al posto delle vittime,
di rincuorare gli animi spaventati con frasi battagliere, che promettono la fine
delle minacce e dei lutti. La pietas, dice il dizionario Battaglia, è
precisamente questo: è rispetto devoto, cura sollecita e reverente per cose e
persone, e questa cura è dovuta ai caduti degli attentati, siano essi perpetrati
da Al Qaeda o da seguaci di Saddam Hussein.
Ma pietas non è solo un
sentimento, specifica il dizionario: è l'osservanza dei doveri verso i genitori,
la patria, e Dio. Per i politici, in particolare, è il dovere di rispettare le
contraddizioni di un dolore, di ascoltare il messaggio complesso che si
racchiude nelle lacrime, di decidere il da farsi tenendo conto di circostanze
che possono migliorare o mutare le presenti strategie. Gli italiani e i turchi,
gli ebrei e i musulmani e i cristiani piangono i loro morti, danno loro il nome
di eroi, ma vogliono anche sapere se i politici fanno la loro parte: se hanno
valutato i pro e i contro di questa guerra multiforme lanciata al terrorismo
dopo l'11 settembre. Se sono capaci di fare bilanci rigorosi, e di correggersi
là dove hanno eventualmente sbagliato. Se sono disposti a trarre lezioni dalla
storia che stanno facendo. Il dolore è come una gemma splendente ma segreta, che
non può esser esibita su giacche e vestiti quasi fosse un ornamento. Il politico
che se ne veste e non risponde al suo appello finisce con l’usare il dolore e
assieme ad esso la paura, senza far nascere da esso parole veritiere e azioni
coerenti.
Naturalmente la lotta al terrorismo dovrà continuare, e farsi
semmai ancor più ferma, minuziosa, assillante. Con avversari di questo tipo -
veri e propri demoni, che combinano empiamente fede e bombe - non è possibile
l’appeasement, la pacifica e servile composizione del conflitto. Ma sta
rivelandosi inane anche la risposta adottata dal governo Usa e dai suoi alleati
dopo l’11 settembre: la guerra guerreggiata contro gli Stati sospetti di
appoggiare il terrorismo. Guerra condotta con armi sofisticate ma inadatte alla
guerriglia, con militari addestrati a bombardare e non a sgominare combattenti
irregolari, o a infiltrare cellule di resistenza e di terrorismo sempre più
diffuse nel mondo e inafferrabili. La strategia puramente militare non sembra
dar frutti, e anzi accresce i pericoli di una recrudescenza dei pericoli, degli
attentati, delle disfatte. Si fonda su una menzogna letale, inoltre: trattando
il terrorista alla stregua di uno Stato belligerante, e dichiarando contro di
esso una serie di guerre a oltranza, da condursi "fino alla scomparsa della
minaccia", crea l’illusione di una battaglia inter-statale che può esser vinta
militarmente. Una battaglia al termine della quale si spera di ottenere chissà
quale capitolazione, quale trattato di pace. Dal terrorismo non ci si può
aspettare nulla di tutto ciò: né la capitolazione, né il trattato di pace, né il
riconoscimento della propria sconfitta per il semplice fatto che questo o quello
Stato-canaglia sarà stato abbattuto.
Non conoscendo confini, il
terrorismo non può che guadagnare da guerre che restano ancorate ai rapporti tra
Stati, a territori circoscritti, a sovranità nazionali che vengono gelosamente
custodite negli Stati Uniti, e aggressivamente negate al nemico che Washington
vuole abbattere. È quello che sta succedendo in Iraq, e da questo punto di vista
non hanno molto senso le dispute italiane sulla natura del pericolo: se sia un
pericolo terrorista, oppure partigiano. La scelta di far fronte al terrorismo
globale con una guerra guerreggiata ha permesso al terrorista di tramutarsi in
guerrigliero, in partigiano, o comunque di vedere se stesso come guerrigliero e
partigiano. Gli ha regalato un sostegno popolare che non aveva. Ha permesso a Al
Qaeda di penetrare in Iraq, dove prima non esisteva, e di organizzarsi meglio e
diffondersi regionalmente in gran parte del Sud-Est asiatico e dell’Africa
orientale. Il capo dei servizi segreti tedeschi, August Hanning, ha detto
giovedì scorso in una conferenza di specialisti che Al Qaeda si è "rigenerata" a
seguito della guerra in Iraq, dopo esser stata solo momentaneamente indebolita
in Afghanistan, e che "gli occidentali sono sull’orlo di perdere la battaglia
per la conquista dei cuori e delle menti nelle popolazioni musulmane".
Conclusione: "i successi che si possono ottenere sul fronte militare non
condurranno alla soluzione dei problemi".
Rispondere al terrorismo con
altri mezzi non significa scegliere le vie alternative della pacificazione, e
tantomeno della sottomissione. Non significa minimizzare le colpe di chi uccide
persone inermi trasformandosi in bomba umana, o di chi assalta consolati,
sinagoghe, caserme di carabinieri incaricate dal proprio governo, più o meno in
buona fede, di assolvere compiti non bellici ma umanitari. E davvero non c’è
pietas in quei sondaggi che nei siti internet chiedono agli italiani di
scegliere fra tre sole forme di lotta al terrorismo: la risposta delle armi, o
della diplomazia, o degli aiuti economici; come se non esistesse, per combattere
il terrorista e prosciugare l’acqua in cui nuota, una risposta egualmente
ferrea, ma non militare.
Il finanziere George Soros, che avversa la
guerra in Iraq e si sta impegnando in una vasta operazione per contrastare la
vittoria di Bush alle prossime elezioni, non banalizza i demoni che minacciano,
non giustifica in alcun modo l'attentato alle Torri del 2001 (George Soros, La
bolla della supremazia americana, "The Atlantic Monthly", dicembre 2003). L'11
settembre va chiamato, egli dice, con il solo nome che merita: crimine contro
l'umanità. Dargli il nome di atto di guerra significa già mettersi sul piano del
terrorista, e rendere più agevole il suo operare attribuendogli lo statuto di
belligerante. Significa ingaggiare una guerra infinita e seriale: senza limiti
di tempo, di spazio. Un crimine, invece, lo si fronteggia in altri modi: con
armi poliziesche, con l’uso accurato e capillare dei servizi segreti di
investigazione, con l'infiltrazione delle cellule terroriste. Lo si fronteggia
anche con la prevenzione, ed è a questo punto che interviene l’opportunità di
conquistare i cuori e le menti delle popolazioni musulmane, con politiche
commerciali più generose e con aiuti allo sviluppo. Aver trasformato il
terrorista in combattente partigiano è uno dei più grandi errori delle potenze
implicate nelle guerre in Afghanistan e Iraq. In ambedue i paesi la strategia fa
oggi acqua. In Afghanistan, i talebani e Al Qaeda hanno ripreso il controllo di
zone decisive, nel sud del paese e ai confini con il Pakistan; solo a Kabul il
governo Karzai esercita il monopolio della violenza. Nelle Filippine le forze
terroriste di Abu Sayyaf e i 15.000 combattenti del Moro Islamic Liberation
Front hanno mantenuto intatte le proprie forze. In Iraq sta creandosi quella
stessa situazione che secondo la dottrina Bush è terreno fertile per il
terrorismo: Saddam è stato fortunatamente abbattuto, ma lo Stato iracheno è
ridotto in cenere. È un "failed state", come dicono in America gli esperti di
terrorismo, e nemmeno a Baghdad è in grado di esercitare il monopolio della
violenza legale.
Le democrazie hanno una cosa che le rende superiori,
solitamente, ed è l’attitudine a correggere i propri errori quando questi si
fanno più numerosi del previsto, a rettificare la rotta se necessario. Stupisce
che Bush e Blair non abbiano tentato questa strada, a Londra: che apparentemente
non l’abbiano neppure esaminata. Che non abbiano meditato, assieme e
pubblicamente, sulle trappole in cui possono cadere, sulle sconfitte che
rischiano di attirare su se stessi. Quando i servizi segreti d’una nazione
alleata dicono che la guerra per conquistare le menti e i cuori delle
popolazioni musulmane "sta per esser perduta" converrebbe arrestarsi un attimo,
pensare in profondità, smettere di recitare sempre di nuovo le stesse frasi
sulla guerra che deve continuare, immutata. Spinto forse da Blair, Bush comincia
a vedere l'utilità della cooperazione multilaterale, ma nel frattempo non poche
leggi e strumenti del diritto internazionale sono stati danneggiati, dunque
screditati: dall'Onu alla Croce rossa, dalle convenzioni sui prigionieri di
guerra a quelle sulle organizzazioni umanitarie. E nulla di nuovo si scorge sui
fronti che per l’evoluzione dell'Islam sono cruciali: pacificazione dei rapporti
tra Israele e Palestina, trattamento giusto dei detenuti catturati in
Afghanistan e rinchiusi a Guantánamo, distinzione chiara fra quel che è
terrorismo internazionale e quel che è guerriglia locale in Iraq e
Afghanistan. In Iraq non sono state trovate le armi di distruzione di massa,
non è stato scoperto un legame fra Saddam Hussein e Al Qaeda, non è stato
instaurato l’imperio della legge, e ancora non è in vista uno Stato
rappresentativo che raccolga i consensi della popolazione. Alla fine del tunnel,
per ora, non c’è che il dolore di chi è stato colpito a morte: carabinieri e
soldati italiani; civili iracheni e turchi; cristiani, ebrei e musulmani. Chi
soffre non vuole illudersi, ed è probabile non creda nel discorso che Bush ha
fatto mercoledì a Londra sulla Storia che ineluttabilmente porterà al trionfo
delle democrazie nell’insieme del mondo musulmano e del globo terrestre. Il
dolore che viene interpretato e adoperato per confermare la giustezza di una
linea storica provvidenziale conduce a disastri non meno grandi, quando la
manipolazione è fatta dalle democrazie anziché da dittature totalitarie.
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