Da LA STAMPA 23 febbraio 2003
La pace che inscatola Saddam non è guerra ma non è neppure conciliazione, appeasement: gli strateghi le danno il nome di contenimento. La guerra fredda si è nutrita di simile filosofia, e non ha dato risultati malvagi
I costi della pace
di Barbara Spinelli
CHI vuole seriamente la pace e non si limita a sognare gli
effimeri splendori del neutralismo è di fronte a una difficile scelta, in questi
giorni. Deve mostrare una volontà molto più ferrea di chi si accinge a preparare
guerre. Deve lavorare molto di più, deve mettersi letteralmente a sgobbare con
la mente e l’azione, e deve armarsi di un’immaginazione infinitamente più grande
di chi vuol regolare presto la questione irachena e sradicare la malattia con la
forbice svelta di un’armata, senza troppo attardarsi in defatiganti imprese.
Deve calcolare dentro di sé tutti i costi della pace, che sono minori di quelli
pagati per una guerra ma sono pur sempre costi, pesanti. Se l’Europa volesse
avere un peso, nella crisi del Golfo, e se volesse davvero tener conto della
domanda di pace dei suoi cittadini, il suo compito dovrebbe oggi essere questo:
pensare un’alternativa alla guerra che sia efficace, enumerare le condizioni
perché il risultato che Washington vuol ottenere con le armi sia conseguito con
mezzi pacifici, spiegare a se stessa e alle proprie popolazioni che la pace è
molto diversa e più ardua, da pensare e da fare, che la semplice
non-guerra.
La pace non è qualcosa che ci si limita a vivere
passivamente, come rifiuto dei conflitti armati. Non basta desiderarla con
calore mite, per averla, perché questa è pace complice del sopruso. Occorre
apparecchiarla, costruirla con fatica, con pazienza determinata. Occorre pagare
prezzi, consentire a sacrifici, se si vuole fare in modo che essa appaia - alla
fine - più remunerativa della soluzione militare. Costruire la pace lì dove
non esistono né giustizia né libertà significa rifiutare lo status quo, e darsi
da fare in vista di una trasformazione non cruenta e però radicale dei regimi
che perturbano zone strategiche del mondo. Il vero pacifista non può prescindere
dalla natura totalitaria del regime di Saddam Hussein, dalle efferatezze che
esso ha commesso e commette, e dal luogo geografico in cui la sua dittatura è
annidata (il Golfo Persico: principale fonte di rifornimento delle nostre
economie). Non può neppure ignorare l’aiuto esplicito che Saddam fornisce alle
famiglie dei terroristi kamikaze in Palestina, anche se non vi sono prove di un
legame fra Baghdad e Al Qaeda. Lo status quo di Saddam è stato una polveriera,
lungo molti anni.
Un milione di morti nella guerra con l’Iran, seimila
curdi gasati nella sola città di Halabja a Nord dell’Iraq, il Kuwait annesso nel
‘90: la tirannide irachena ha mostrato di essere un pericolo per il mondo, non
solo a causa del petrolio. E’ per smontare simile status quo che
l’amministrazione Usa ha disposto intorno al paese un esercito di circa
duecentomila uomini, ed è pronta ora a sferrare l’attacco. Per fermarla,
conviene guardare in faccia questa polveriera, riconoscerne la minaccia, e
pensare in maniera non passiva le alternative alla guerra. Occorre anche
essere sinceri sino in fondo con se stessi: se oggi una gran parte di paesi
europei e milioni di manifestanti giudicano sufficienti le ispezioni, è perché
l’armada americana è stata dispiegata intorno all'Iraq come forza di pressione e
dissuasione. Senza l’armada, Saddam non avrebbe concesso nulla, e gli stessi
europei lo hanno ammesso nella dichiarazione del 17 febbraio: "Riconosciamo che
l'unità e la fermezza della comunità internazionale come espresso nell’adozione
unanime della risoluzione 1441, e lo schieramento militare, sono stati
essenziali per ottenere il ritorno degli ispettori. Questi fattori resteranno
essenziali per raggiungere la piena cooperazione che cerchiamo".
Ai costi
della pace il pacifista pensa di rado, ma in cuor suo lo sa bene: se la sua
battaglia non è ipocrita, se non è fondata sulla rassegnazione di fatto
all’opzione bellica, la sua missione consiste nel mobilitare la fantasia e
immaginare i modi in cui Saddam può essere ingabbiato pacificamente, ma pur
sempre ingabbiato. Se la guerra è l’ultima ratio, occorre render fertili e
operanti tutte le ragioni che vengono prima dello scontro bellico. E’ il metodo
su cui insistono alcuni avversari della guerra, soprattutto negli Stati Uniti.
Il filosofo Michael Walzer lo ha esposto con grande lucidità, in un articolo su
La Repubblica del 19 febbraio.
Ha fatto capire che la guerra è evitabile
solo se Saddam è messo nell’impossibilità permanente di nuocere: con un embargo
più selettivo e tale da non penalizzare le popolazioni; con il controllo
accresciuto delle zone che già oggi sono vietate al sorvolo iracheno, a Nord e a
Sud dell’Iraq; con incarichi più coercitivi affidati agli ispettori. E non per
ultimo: con il mantenimento attorno all’Iraq di un’armata che le nazioni libere,
unitariamente, usino come pacifica arma di dissuasione. E’ la strategia proposta
da un’autorevole istituzione americana, la Carnegie Endowment for International
Peace: nel documento presentato dall'istituto in gennaio (Iraq: What Next?) si
propone di "rinchiudere" il regime Saddam in una "scatola di ferro", fatta di
minacce armate credibili e predisposta da un fronte occidentale compatto. La
pace che inscatola Saddam non è guerra ma non è neppure conciliazione,
appeasement: gli strateghi le danno il nome di contenimento. La guerra fredda si
è nutrita di simile filosofia, e non ha dato risultati malvagi.
Gli
estensori del rapporto lo dicono a chiare lettere: mettere Saddam in gabbia è
immensamente costoso, dal punto di vista non solo finanziario ma anche umano.
Per tenere un’armata all’erta, ai confini con l’Iraq, bisogna convincere i
soldati, e le loro famiglie che in America li aspettano. Bisogna persuadere i
governi arabi circostanti, facendo loro capire che lo spiegamento di forze è
preferibile all’uso della forza. Bisogna costruire nel Golfo un apparato simile
a quello schierato nella guerra fredda, quando si trattava di contenere l’Urss.
In fondo, Bush vuole con tanta intensità la guerra perché spinto dalla fretta, e
perché incapace della tenacia che ebbero i suoi predecessori nella politica di
contenimento. Dal suo punto di vista, la pace è da rifiutare perché assai più
dispendiosa e lenta di una guerra sbrigativa e apparentemente
risolutiva.
Un’altra condizione necessaria per ottenere con armi
pacifiche quel che Bush vuole ottenere con la guerra è l’unità del fronte
occidentale, che americani ed europei riuscirono a coltivare nella guerra fredda
e che oggi non sanno, per colpa anche statunitense, ricostituire. Non solo gli
europei ma anche gli americani dovrebbero ricordare che mai la guerra fredda
sarebbe stata vinta, se l’Occidente fosse stato diviso. E anche oggi è così: se
l’armada nel Golfo fosse euro-americana, o se l'Unione europea fosse presente
nel Golfo con proprie truppe dissuasive, il prezzo da pagare per una pace giusta
sarebbe ripartito meglio e dunque risulterebbe meno oneroso. Gli europei non se
la sono sentita di partecipare al dispiegamento delle forze, ed è una scelta che
si può capire: non c’era mediazione possibile, tra il loro metodo di pressione e
quello statunitense, tra il loro legalismo e la tendenza Usa all'illegalità, tra
il loro investimento su istituzioni multinazionali come l’Onu e l'orrore che
esse suscitano nelle nuove destre americane. Non era possibile neppure un
compromesso sul Medio Oriente, perché Washington sa premere su tutti tranne su
Israele. Ma oggi gli europei sono costretti a ammettere l’utilità dell’armata
Usa, e questo rende ancor più grave la loro assenza non solo politica ma anche
militare.
Si è parlato molto nelle scorse settimane del tradimento dei
governi Est-europei. Ma lo sguardo che essi portano sull’Iraq dovrebbe far
riflettere l’Unione. Essi sanno cosa significa avere vent’anni sotto una
dittatura, conoscono i tranelli di una pace che si accontenta dello status quo,
e hanno un ricordo più recente di quella che è stata la seconda Liberazione in
Europa, nell’89. Hanno alle spalle una lunga resistenza al dispotismo, e
comprendono più prontamente i desideri dell’opposizione irachena, o dei curdi e
sciiti che hanno patito massacri ad opera di Saddam. Anche questi ultimi sperano
che cada un Muro, a Baghdad, e la loro speranza non vale meno di quella dei
tedeschi orientali, dei polacchi, dei cechi. Dire all'Europa dell’Est che ha
"mancato un’occasione, quella di tacere", è un insulto che Chirac ha lanciato a
decenni di lotta europea per la libertà, e complica i tentativi di creare
un’unità politica del continente.
Già negli Anni Ottanta il pacifista
ignorava i dissidenti, quando si batteva contro la dissuasione armata. Adesso
rischia di ignorare il dissidente iracheno, che giudica freddamente cinico il
pacifismo che noi chiamiamo caloroso e mite, e che chiede una pace fondata su
libertà e giustizia. La stessa pace di cui godiamo noi: una pace che è costata
lavorii incessanti e sacrifici, e che proprio per questo ha avuto la forza di
abbattere senz’armi i muri della vergogna.
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