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Da LA STAMPA 22 dicembre 2002

Sulla guerra all'Iraq a Bush mancano visione globale, ragioni comprensibili, senso della legge e limpidezza nei propositi

Petrolio, il vero nome della guerra

di Barbara Spinelli

Nel descrivere gli esordi della seconda guerra punica e dell’espansionismo imperiale di Roma antica, lo storico Polibio distingue con meticolosa precisione i tre momenti che precedono le conflagrazioni militari e le conquiste di nuovi territori. Il primo è il momento delle cause veritiere, che non sono mai palesi nell’immediato ma che il comandante-stratega deve saper conoscere e anche difendere in anticipo: esso comporta una vasta operazione mentale, destinata a fare chiarezza "sul perché, sul come, e sul fine ultimo" delle operazioni programmate per sottomettere "tutte le parti del mondo abitato alla dinastia di Roma". Il secondo momento è quello del pretesto: è in questa fase che vengono usati gli argomenti, veri o falsi, che giustificano la guerra. Il terzo momento è l’inizio del conflitto: l’arché, l’ultimo anello prima del passaggio all’azione.

Nella guerra che potrebbe scoppiare contro l’Iraq di Saddam, sono chiari solo il secondo e il terzo momento, mentre il primo - il più importante - resta avvolto da mistero. Sappiamo che l’attacco terroristico contro l’America, l’11 settembre 2001, costituisce il pretesto. Sappiamo che le menzogne contenute nel rapporto iracheno sulle armi di distruzione di massa - dodicimila pagine di omissioni - sono congegnate in maniera tale da prefigurare l’ultimo anello del passaggio all’azione bellica. Quel che non sappiamo è per cosa combattiamo, con quale preparazione mentale, sulla base di quale cognizione dei rischi, dei costi, delle eventuali opportunità. In questo l’amministrazione statunitense è assai dissimile dall’impero romano cui viene spesso paragonata.

Le manca la visione globale, ed è assente la parola che sia comprensibile alla maggior parte del mondo abitato. Le mancano il senso della legge, la limpidezza dei propositi. Saddam Hussein mente nelle sue dodicimila pagine: è quello che pensano non solo gli esperti americani ma anche i francesi, anche Hans Blix capo degli ispettori Onu, e naturalmente i rappresentanti dell’opposizione irachena all’estero. Ma l’amministrazione Bush non è meno nebulosa e mistificatrice, nei suoi piani di guerra. Ancora non ha fatto una distinzione fra cause vere e pretesti, ancora non ha spiegato al proprio popolo e al mondo come mai l’Iraq è più pericoloso, dal punto di vista terroristico, di quanto lo siano la Corea del Nord o l’Arabia Saudita o il Pakistan. Se l’obiettivo contro cui si combatte è il terrorismo, non è detto che la guerra contro l’Iraq sia la cosa più urgente: molti autorevoli commentatori, tra cui Madeleine Albright, sostengono che l’operazione contro Al Qaeda sarà gravemente intralciata dall’attenzione esclusiva, e forse ossessiva, che si concentra sull’Iraq.

Nel corso della guerra, inoltre, potrebbe instaurarsi un caos nel teatro bellico, e i gruppi terroristi - che si sono efficacemente riorganizzati dopo la campagna in Afghanistan, che stanno addirittura riaprendo scuole coraniche di guerra ai confini tra Afghanistan e Pakistan - potrebbero profittarne per trafugare armi chimiche o biologiche. Se l’obiettivo è l’antiamericanismo che si espande nel mondo musulmano e arabo, l'offensiva anti-irachena è intempestiva e manca di fiato lungo, di tenace attitudine a pazientare per meglio vincere. Perfino un antipacifista come Michael Ledeen, in America, è di questo parere: molto più urgente e proficua per le democrazie è oggi la caduta del regime teocratico iraniano. Qui avremo, se si saprà agire con lungimiranza, il vero Ottantanove dell’Islam radicale, equivalente a quello che fu il crollo del Muro per il comunismo. Ed è questa caduta che l’Occidente deve prioritariamente accelerare, secondo Ledeen: non con guerre parziali, periferiche, ma con un esplicito appoggio a chi in questi giorni sta gridando, a Teheran, "morte ai tiranni".

Ma secondo molti osservatori il motivo più vero - la causa non detta, troppo raramente esplorata - non è forse il terrorismo, e non sono neppure le armi di distruzione di massa: armi che parecchi dittatori possiedono, e che Saddam ha posseduto per anni senza che l’America protestasse. Armi che ha perfino usato con il consenso di Washington, contro l’Iran e i curdi. La guerra sarebbe chiamata preventiva anziché punitiva o difensiva perché si tratterebbe di mettere fin da ora le mani sul petrolio iracheno, e di influenzare in anticipo, da una posizione strategicamente forte, quel che per l’intero Occidente è essenziale: gli esiti dell’imminente battaglia di successione politica in Arabia Saudita (su questa tesi si soffermano Shibley Telhami e Fiona Hill, nella rivista Foreign Affairs). Il petrolio a basso prezzo è la prospettiva che maggiormente sembra stregare le democrazie in questo inizio secolo, e che può anche muoverle, oggi, a fare le guerre. Possedere l’Iraq significa acquisire autentica autonomia, e non dipendere più da nessuno né strategicamente né politicamente.

Perfino i ricatti di Putin potrebbero stemperarsi, il giorno in cui l’Occidente dovesse entrare in possesso delle principali fonti petrolifere nel Golfo. Non saremmo spinti a tacere sulla Cecenia, pur di avere il gas e il petrolio promesso dal Cremlino. Potremmo dire e fare quel che vorremo, il giorno che le pance piene saranno assicurate. Adesso si fanno le guerre ma domani potremo ritirarci in splendide, isolate supremazie. Avremo creato un precedente esiziale - l’appetito di una materia prima soddisfatta con le armi piuttosto che con la politica, la logica del tutto è permesso in nome delle necessità economiche - ma questo non sembra turbare gli strateghi di Washington: il domani è lontano, e comunque non saremo noi a viverlo. Se la vera causa della guerra fosse il petrolio, tuttavia, sarebbe il caso che l'Occidente e l’America lo dicessero con maggiore sincerità.

O che provassero a esaminare anche quest’ipotesi, senza troppi infingimenti. Una discussione più proficua si potrebbe aprire, sull’opportunità di lanciare guerre per il possesso di singole risorse vitali. Invece pudicamente e ipocritamente si tace, sul greggio poco costoso e sulla fame che abbiamo di esso. "Coprite quel seno, che non vorrei vedere...", così si rivolge l’impostore bigotto alla servetta Dorina, nel Tartufo di Molière. Non molto diverso è il modo in cui l’amministrazione Usa si rivolge all’Iraq: "Nascondete quel volgare petrolio, che vogliamo far finta di non vedere...". Dire la verità sul petrolio e sulla causa reale della guerra comporterebbe una lunga e accurata preparazione mentale - la preparazione di cui parla Polibio - sia da parte dell’America, sia da parte degli arabi moderati di cui l'Occidente ha bisogno e che Washington cerca così difficilmente di convincere. L’America e l’Europa dovrebbero spiegare a se stesse come mai, in trent’anni di lievitazione dei prezzi petroliferi, ancora non si è riusciti a trovare un modo, una politica, che ci consenta di non puntare esclusivamente sul petrolio a buon prezzo.

Dovrebbero spiegare come mai non sono state sviluppate energie alternative, e come mai le affluenti democrazie non hanno potuto apprendere a essere meno dispendiose con l’energia. Perché la preparazione sia efficace, infine, occorre rimeditare sui passati errori dell’Occidente, che quasi sempre ha scommesso, nella regione, su regimi sbagliati o pericolosi: ha scommesso sullo Scià di Persia senza intuire l’imminenza di una rivoluzione, ha appoggiato per anni l’Iraq di Saddam contro l’Iran, ha costantemente sostenuto l’Arabia Saudita nonostante l'aiuto che Riad ha fornito e fornisce al terrorismo. E se l’economia e il greggio sono così importanti, resta ancora da capire come mai l’esercito sia l’unica soluzione e perché si continui a trascurare non solo la politica ma anche l’organizzazione del commercio: un commercio più aperto, meno protezionista, che faciliti l’uscita dell’Islam e dei paesi arabi dal sottosviluppo e dalla monocoltura petrolifera. Se la causa della guerra è il petrolio, allora anche il mondo arabo-musulmano deve cominciare a prepararsi mentalmente per una battaglia di lungo periodo.

Una battaglia che è già cominciata, che è condotta da uomini che invocano a viva voce un Islam protestante, e che dall’Iran si estenderà prima o poi a altri paesi musulmani. Una guerra che dovrà aiutare arabi e musulmani a prender congedo dall’uso politico, anti-occidentale, pseudo-religioso, del petrolio. Di petrolio è dunque il caso di parlare, ma per liberarsi piano piano dalla sua natura ossessiva, surrettiziamente invadente. In questa guerra civile dentro l’Islam, l’Occidente avrà un suo messaggio da trasmettere, ma solo quando avrà superato esso stesso, assieme all’Islam, l’incubo petrolifero che occupa tutte le sue veglie e i suoi sonni. Conquistare l’Iraq e instaurarvi un protettorato è forse la soluzione dei nostri problemi energetici immediati.

Ma non necessariamente dell’antiamericanismo, e del terrorismo, e della democrazia futura nel mondo musulmano che - irato, risentito - ci sta di fronte. Le stesse opposizioni irachene, favorevoli a un intervento, si sono pronunciate a Londra contro qualsiasi protettorato. E’ assai più utile puntare con il massimo di energia sulla liberalizzazione politica dell’Iran, e sulla pace giusta che tanto tarda a venire in Medio Oriente. E’ assai più necessario occuparsi già oggi del focolai di tensione che stanno alimentando il nuovo terrorismo, ed evitare che la Cecenia diventi il nostro secondo Afghanistan: una terra dove le guerre russe stanno creando con le proprie mani, per la seconda volta in vent’anni, con una guerra di sterminio, i Bin Laden e le scuole talebaniche di domani.




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