Da LA REPUBBLICA 21 agosto 2003
Le esplosioni di martedì a Bagdad e a Gerusalemme hanno fatto vacillare l'intera politica mediorientale di George W. Bush
Un terremoto per l'America
di Bernardo Valli
LE MICIDIALI esplosioni di martedì, a Bagdad e a Gerusalemme,
hanno fatto vacillare l'intera politica mediorientale di George W. Bush. Come
per un edificio scosso dal terremoto, bisogna adesso verificare la gravità dei
danni alle fondamenta. Nulla consente di pensare che vi sia stata un'intesa tra
gli autori delle stragi avvenute a poche ore di distanza. Ma un nesso tra i due
fatti esiste. Ci sembra evidente.
Le organizzazioni palestinesi che
hanno subito rivendicato l'attentato di Gerusalemme, avevano accettato il 29
giugno la tregua indispensabile per avviare la road map (il piano per promuovere
un processo di pace) anche perché intimorite, intimidite dal dispiegamento di
forze americane nella regione. La rapidità con cui era avvenuta in primavera
l'occupazione dell'Iraq aveva prodotto un forte effetto nel mondo arabo.
Egiziani e sauditi erano intervenuti con determinazione per convincere i
responsabili di Hamas e della Jihad islamica a cessare o perlomeno a sospendere
le azioni terroristiche. La volontà della Casa Bianca, che tra l'altro auspicava
con forza, anzi prometteva uno Stato palestinese, pareva irresistibile. Ed era
anche eccezionalmente costruttiva. Infine Bush, dopo essersene a lungo
disinteressato, si impegnava nel tentativo di riaccendere un dialogo tra
israeliani e palestinesi. Un successo l'avrebbe favorito nei rapporti con i
regimi arabi; e gli avrebbe dato lustro in patria e nel mondo. Il programma era
in verità sostanzioso: la democrazia in Iraq e la pace in Terra Santa.
A
cambiare profondamente l'atmosfera è stata la plateale incapacità americana di
imporsi nell'Iraq liberato dal regime di Saddam. L'incantesimo della forza si è
spezzato. L'emergere di una guerriglia nel paese occupato, perlomeno nelle
regioni centrali, attorno a Bagdad, hanno creato l'impressione che la guerra non
sia affatto finita. E quindi che Saddam non sia stato sconfitto del tutto,
poiché continua ad animare una resistenza armata, che fa ogni giorno almeno un
morto tra i soldati della coalizione. La vulnerabilità e l'inefficienza della
superpotenza, che non riesce a garantire né la sicurezza né l'acqua né
l'elettricità alle popolazioni che vuole "civilizzare", non hanno certo
contribuito alla credibilità della politica mediorientale di Bush. La bomba
di Gerusalemme e quella di Bagdad sono scoppiate quasi simultaneamente non
perché collegate da un complotto ma per un elevato grado di sensibilità, per
simpatia, come accade proprio per gli ordigni esplosivi.
La debolezza
americana in Iraq è sentita anche in Palestina. I capi dei movimenti
integralisti vedono che Bush è ben lontano dalla vittoria annunciata. Se non
riesce a dominare la situazione irachena, non può sovrintendere quella
mediorientale nel suo insieme. Il conflitto dunque continua. E con esso può
continuare il terrorismo, criminale opzione dei disperati.
La crisi
irachena alimenta la crisi israelo-palestinese. E viceversa. L'avvio di un reale
processo di pace, con la nascita di uno Stato palestinese all'orizzonte, doveva
spegnere, disinnescare il terrorismo. Se questo riprende, stimolato (per
simpatia) da quel che accade in Iraq, il processo di pace si spegne. Bush non
potrebbe esibire questo successo. La bomba di Gerusalemme ha già
irrimediabilmente inceppato il meccanismo.
Fedele al suo ruolo di
interlocutore affidabile per americani e israeliani, Abu Mazen, il primo
ministro palestinese, ha subito interrotto i rapporti con i movimenti
integralisti appena è stata rivendicata la strage di Gerusalemme.
E ha
anche ordinato l'arresto dei responsabili. Ma dall'Autorità palestinese si sono
subito alzate voci dissenzienti. Perché dividerci e rischiare una guerra civile?
Non è quello che vuole Sharon? Non sono in pochi a pensare che la posizione
di Abu Mazen, il cui seguito tra i palestinesi è quasi inesistente, sia in
queste ore molto precaria. Se il suo ordine di perseguire i colpevoli
dell'attentato non venisse eseguito, egli risulterebbe un primo ministro
inutile. Senza potere e senza consensi. Inutile per Bush e per Sharon che
l'hanno voluto. Inutile per Arafat, al quale è stato imposto. Ma con lui
sparirebbe un uomo prezioso per il processo di pace, del quale è diventato il
fragile simbolo palestinese.
Il fallimento della road map imposta dagli
americani (ma progettata anche dagli europei e dalle Nazioni Unite) non
migliorerebbe certo i rapporti tra Bush e i regimi arabi, per i quali la pace in
Palestina sarebbe di grande aiuto: servirebbe a giustificare la dipendenza o
l'alleanza con gli Usa, che l'antiamericanismo popolare, da Casablanca a Bagdad,
sopporta a stento. Anche quando sono una reazione ad angherie subite, le
azioni terroristiche sono scellerate. Si possono raccontare, spiegare, come
qualsiasi altra manifestazione umana, ma non giustificare. Mai accettare.
Quelle compiute a Bagdad e a Gerusalemme sono state particolarmente
nefaste. Non solo per le numerose vittime innocenti. Politicamente sono state
disastrose. È vero che con l'ultima risoluzione, adottata dal Consiglio di
sicurezza cinque giorni fa, è stato compiuto un altro passo avanti nella
progressiva legittimazione dell'intervento americano (dopo la risoluzione 1483,
che ha affidato la gestione dell'Iraq alla coalizione dominata dagli Stati
Uniti). Trasformando in una vera e propria missione ufficiale in Iraq quello che
era un semplice ufficio di rappresentanza, l'Onu ha infatti riconosciuto
ulteriormente le autorità d'occupazione e le loro appendici irachene. È per
questo che è stata fatta saltare la sua sede? Può darsi.
È tuttavia
altrettanto vero che l'Onu, creandosi via via uno spazio in quel paese, appariva
come l'unica sia pur vaga alternativa all'occupazione nuda e cruda americana.
Vale a dire la sola possibilità di arrivare a una presenza multilaterale, di
molti paesi, sotto la bandiera delle Nazioni Unite.
Dopo la strage di
Bagdad non ci saranno volontari per partecipare a un'operazione del genere
(auspicata anche negli Stati Uniti dal senatore John Kerry, candidato alle
primarie democratiche per l'elezione presidenziale). In quanto alla strage di
Bagdad, essa rischia di affondare una delle rare iniziative positive di Bush: il
tentativo di avviare un processo di pace tra palestinesi e israeliani.
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