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Da LA STAMPA 19 gennaio 2003

La democrazia italiana ha questo di singolare, oggi: le passioni sembrano più forti della politica, e della ragione.
Le maggioranze numeriche hanno un'arroganza del potere senza più vero rapporto col dominio e con il governo effettivo della cosa pubblica

Il trionfo delle passioni

di Barbara Spinelli

I magistrati che inaugurano l’anno giudiziario esibendo la Costituzione, in polemica con un potere politico giudicato sleale verso la Costituzione stessa. L’avvocato generale della Repubblica Carmelo Renato Calderone che denuncia l’affastellarsi di "leggi e leggine che non garantiscono nessuno", che incrimina il moltiplicarsi di "condoni fiscali il cui effetto è di raddoppiare i reati tributari", e che definisce la giustizia: un malato terminale. E contemporaneamente Gian Carlo Caselli che a Torino prende la parola per ricordare come le principali riforme del governo sembrino "pensate con prevalente se non esclusivo riferimento alla giustizia che preme agli imputati che possono o che contano".

Che se la prende con un malvezzo nazionale - la denigrazione metodica della magistratura - e che cita le parole del musicista Claudio Abbado invitando non solo i magistrati, ma l’intera élite della nazione a non rendersi "colpevole di omissione contro la democrazia". Non è l’unica manifestazione di cupa passionalità politica, quella che viene di questi tempi dalla magistratura. C’è lo stesso ardore negativo anche in parte della sinistra, e in sindacati importanti come la Cgil, e in personaggi carismatici come Sergio Cofferati. C’è la sensazione, sempre più diffusa, che il governo Berlusconi non sia compatibile con l’ordinata coesistenza dei corpi dello Stato, che sia inaffidabile come interlocutore dei rappresentanti della società civile, che si sia creato un fossato non colmabile tra maggioranza parlamentare che governa e quell’insieme di istituzioni, di corporazioni, di interessi, di rappresentanze sindacali, imprenditoriali, intellettuali, cui viene generalmente dato il nome di élite, o classe dirigente.

Da tempo ormai la maggioranza numerica è entrata in conflitto con quest’élite, soprattutto giudiziaria e sindacale. E’ come braccata, pur avendo nominalmente il potere. E’ ritenuta sostanzialmente illegittima, e non adatta a costituire quelle più vaste maggioranze necessarie per riformare le istituzioni e la Costituzione. Una parte cospicua delle élite tende addirittura a costituirsi in potere politico, a occupare territori e a presidiarli, in nome delle autonomie previste dalla carta costituzionale. Una strana democrazia sta così venendo alla luce, nel mezzo d’Europa. Una democrazia in cui c'è un centro appariscente, che fa la voce grossa ed è spesso anche arrogante, ma che di fatto non è percepito come centro autorevole, funzionante, distinguibile da uno sguardo attento: attorno a questo centro ruota una costellazione di interessi che somigliano molto ai feudi medievali, composti di vassalli riottosi e tuttavia sempre richiamati al loro dovere di vassallaggio, sistematicamente gelosi delle proprie prerogative e al tempo stesso come smarriti, disorientati dalla perdita del centro, dalla debolezza fatiscente dell’imperatore.

I vincitori delle ultime elezioni politiche ostentano sicurezza, di fronte al vuoto che si è creato nel cuore della politica. Sanno di essere più effimeri delle élite, perché da un momento all'altro il tribunale elettorale può rimandarli a casa e obbligarli a ridivenire minoranza, e per questo si armano contro i feudatari e i loro territori riservati, e fanno il possibile per politicizzare tutti i rappresentanti della società civile, tutte le istituzioni indipendenti, nella speranza di render effimere anche le élite. Oscuramente infatti le maggioranze numeriche sentono che le élite sono destinate a durare nel tempo, con la loro forza e anche le loro inerzie, mentre loro presto svaniranno. Questa capacità di durare delle élite tuttavia non è solo dovuta a speciali virtù di preveggenza del futuro e di costanza, di tenacia e di fedeltà all'idea di autonomia. I corpi che le compongono - magistrati o sindacalisti, capi delle imprese, intellettuali e giornalisti - sono convinti di possedere anche una superiore morale, che viene loro dall'estraneità alla politica di tutti i giorni e ai suoi contingenti oneri.

Per questo sono più spesso agitati dalla grande passione, che non dalla ragione e dai suoi vincoli. Per questo somigliano più a un movimento che a un partito, più a un clero dotato essenzialmente di potere spirituale che a un ceto politico che si fa carico del potere temporale. La democrazia italiana ha questo di singolare, oggi: le passioni sembrano più forti della politica, e della ragione. Le maggioranze numeriche hanno un’arroganza del potere senza più vero rapporto col dominio e con il governo effettivo della cosa pubblica. I partiti sono esposti ai verdetti elettorali e per questo sono sopravanzati dai movimenti, che il potere lo esercitano ma solo con le proprie passioni e non con la freddezza di chi ogni giorno si misura con la propria mortalità, e con la necessità dei compromessi. Per questo non sembra del tutto appropriato parlare di regime. Berlusconi ha conquistato con slogan semplificatori il potere, e adesso lo esercita con una sicurezza che non ammette repliche, che non sopporta critiche, che non tollera contrappesi funzionanti.

Ma non tollera contrappesi perché il suo stesso potere pur essendo gravoso è privo di gravità, è energicamente esibito ma fumoso se non impotente. E’ passato più di un anno dalla vittoria della Casa delle Libertà, e ancora la maggioranza numerica continua a suscitare apprensioni, allarmi, dinieghi categorici. Quando una parte della magistratura o quando Cofferati la giudicano inaffidabile, è perché il governo non ha la forza che pretende di possedere. Onnipresente, il governo Berlusconi finge cieche certezze ma è tutt’altro che potente: le sue leggi non si trasformano in leggi di tutti gli italiani, le sue offerte di dialogo non diventano un vincolo per le opposizioni, le stesse sue minacce non sono prese sul serio. Riformare un sistema così ambiguo (prepotente, ma senza potenza autentica) non è cosa semplice. Proprio perché dotate di un’autorità equivoca, e contestata, le maggioranze numeriche non possono esser solo frenate: occorre che esse acquisiscano la dose congrua di autorità e peso, prima di suscitare i propri contrappesi.

Né è sufficiente esaltare la superiorità della passione partecipativa sulla ragione dei politici, come tendono a fare i movimenti di protesta. Inconsapevolmente, essi percorrono un sentiero che già è stato imboccato più volte, sul finire della Prima Repubblica e prima, e che ha prodotto la singolare stabilità instabile che stiamo vivendo. Contrapporre alla peritura e inaffidabile maggioranza numerica la forza imperitura e moralmente superiore della società civile e delle sue avanguardie, giudiziarie o imprenditoriali o movimentiste che siano: l’esperimento è già stato tentato, nella prima metà degli Anni Novanta, e Berlusconi fu proprio questo. Fu il trionfo della passione e della società civile sul ceto politico classico e sui ragionamenti dei vecchi partiti, e la trasformazione di un’élite di fatto in maggioranza politica numerica. A ciò si aggiunga la speciale passione italiana per i governi deboli: un malvezzo, anche questo, di cui già ebbero a patire De Gasperi, Craxi, perfino Prodi.

La soluzione, probabilmente, è quella additata da Arturo Parisi in una serie di recenti interviste. La passione è essenziale per la democrazia - così egli dice - ma è la ragione a dover in fin dei conti governare gli impulsi. E la ragione esige che i poteri siano non solo frenati, ma che siano sufficientemente credibili e resistenti affinché abbia senso il controbilanciarli. Ben venga dunque la riforma delle istituzioni negoziata tra maggioranza e opposizione, perché solo un premier dotato di poteri consistenti susciterà i contrappesi e le garanzie dell'opposizione di cui la democrazia ha bisogno: "Riteniamo che si debba immaginare un sistema in cui poteri forti riequilibrano poteri forti. Un sistema istituzionale forte in una società forte". Parisi è il primo che ragiona attorno alle fragilità della democrazia prescindendo dall’attuale presidente del Consiglio.

Berlusconi ha fatto irruzione nella politica perché il potere centrale era debole, e perché anche i contrappesi di conseguenza lo erano. In un sistema di poteri robusti, nessun uomo con un conflitto d’interessi così vistoso si sarebbe potuto permettere di scalare i vertici dello Stato. E’ l’impotenza delle istituzioni che ha creato Berlusconi, e non è rendendole ancora più impotenti e deboli che si può costruire un futuro soddisfacente. "Noi non pensiamo al governo Berlusconi, ma al governo del paese e al governo della repubblica, cioè al sistema delle istituzioni nella sua interezza. Questo è un governo debole e prepotente, noi lavoriamo per governi forti ma delimitati dalla legge". Se la democrazia si riassumesse tutta nelle maggioranze numeriche, da tempo sarebbe probabilmente fallita come invenzione della politica. Essa esiste e funziona solo se una molteplicità di istituzioni egualmente autorevoli si riequilibrano, si rispettano nella loro autonomia, si frenano a vicenda.

Se il peso d'ogni potere è misurato dal contropotere che gli viene affiancato, e che modera la parte avversa pur assorbendo parte delle sue idee e delle sue passioni. La democrazia esiste se non si apre l’incolmabile fossato che a suo tempo denunciò Luigi Einaudi, fra maggioranza dei numeri e maggioranza dei migliori o delle élite (Maior et sanior pars, ossia della tolleranza e dell’adesione politica, 1945). Einaudi stesso, che fu tra gli estensori della nostra Costituzione, era convinto che la democrazia fosse ben più di una faccenda di numeri. Solo a una condizione essa può proteggersi dalla tentazione demagogica, ed evitare le colpe di omissione di cui parlano Abbado e Caselli: solo quando la società tutta intera "riconosce, accanto al principio del contare le teste, che è il fondamento del governo democratico, sostituito al principio di spaccarle, fondamento del governo tirannico, un altro principio: quello di pesarle".




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