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Da LA STAMPA 18 maggio 2003

Credendo di poter aggiustare il mondo con le sole proprie forze e con le sole armi, i governanti Usa hanno creato le basi per una vertiginosa caduta di potere reale: di potere politico, quello che si esercita nel lungo periodo

La nascita di cento Bin Laden

di Barbara Spinelli

UN mondo sempre più pericoloso e sempre meno frequentabile: per il momento sembra esser questo il risultato della guerra che il terrore ha dichiarato nel 2001 all’America, e della controffensiva scatenata da Bush prima in Afghanistan e poi in Iraq. Un regime dittatoriale è caduto grazie al suo intervento, e per gli iracheni questi sono giorni di liberazione: ogni giorno si scoprono nuove prove delle atrocità di Saddam, si riesumano corpi di uomini martoriati, gettati in fosse comuni. Due insurrezioni sciite, una nel ‘91 e una nel ‘99, furono represse nel sangue dal regime Baath, e ora la verità può venire alla luce. Ogni liberazione locale è una liberazione anche per le democrazie, nel mondo globalizzato che viviamo.

Ma la guerra del Golfo non era stata fatta per questo: Bush la presentò come una tappa della guerra contro il terrorismo, la seconda dopo l’operazione in Afghanistan, e il terrorismo non solo è di ritorno ma si acutizza. E’ esploso di nuovo a Riad, lunedì 12 maggio, provocando 34 morti. Venerdì notte ha colpito a Casablanca, in Marocco: sette esplosioni, almeno 41 morti. Fra i bersagli: cittadini israeliani, spagnoli, ma soprattutto marocchini musulmani. Forse non sono che gli ultimi spasimi d’un drago in agonia; forse nel lungo termine esso sarà sconfitto. Ma nel lungo termine chissà chi sarà ancora vivo.

Non solo: una parte sempre più vasta del mondo sta divenendo inaccessibile alle popolazioni occidentali, a seguito della guerra nel Golfo e di un terrorismo che prescinde da tale guerra, ma che ad essa ostentatamente intende far riferimento. Sono impraticabili Arabia Saudita e Medio Oriente. Sono vietati ai voli britannici sei paesi d’Africa orientale, con punte di pericolosità massima in Kenya, Sudan, Somalia. In Asia si fanno malsicure Malesia, Indonesia. Le cosiddette piazze arabe e musulmane non hanno ancora appreso la buona lezione della guerra nel Golfo, e insistono a sprofondare nei sottosuoli del terrore. In Medio Oriente la pace non arriva, e Sharon crede di poter profittare della vittoria Usa per non fare concessioni ad Abu Mazen, il successore di Arafat che più esplicitamente avversa l’Intifada. Dalla guerra dovevano nascere un Medio Oriente e un Islam ridisegnato, ma il nuovo disegno non si vede.

Il paragone con Hitler o il fascismo giapponese, spesso invocato da Washington, non funziona come si credeva. Una cosa era Saddam Hussein, altra è la minaccia terrorista, che Bush aveva frettolosamente connesso al cambio di regime in Iraq. Saddam costituiva una minaccia locale, mentre il terrore era ed è una minaccia globale: una trappola per tutti i cittadini del pianeta, che è congegnata di conseguenza. Funziona come una cupola mondiale, senza territori fissi. Per batterla occorre un fronte congegnato anch’esso globalmente, e non sono solo gli europei a esser impreparati: neanche l’America di Bush lo è. Non è riuscita a creare alcun fronte comune di resistenza, né tra occidentali né con gli arabi moderati, negando anzi l’utilità stessa d’un ampio fronte. Non ha voluto servirsi di organismi multilaterali come l’Onu e la Nato, e si è inimicata paesi pur sempre preziosi come la Francia. Dice il politologo Pierre Hassner che Bush ha perso il primo turno (quello della preparazione-propaganda bellica all’Onu, dove fu Chirac ad avere la meglio), per poi vincere nella guerra vera e propria. Ma adesso è il terzo turno che conta, e ancora non si sa se la Casa Bianca supererà la prova. Il terzo turno è quello della politica - Hassner parla della partita di spareggio, del necessario e decisivo compromesso tra visione unilaterale e multilaterale - ed è in questa fase che ci troviamo: una fase in cui la vittoria americana è messa in forse dalla riapparizione del terrore.

Il fatto è che i dirigenti Usa non sembrano esser capaci di far politica, oggi: né con l’Europa, né con l’Asia, né con l’Africa, né col Medio Oriente, né con la Russia (il terrorismo ceceno s’inasprisce man mano che s’allontana l’indipendenza della repubblica caucasica, e che quest’ultima perde la speranza negli Stati Uniti). Washington sa fare bene le guerre, questo sì - ha uno spirito di missione assente in Europa, dispone di strumenti che agli europei mancano - ma è come se sapesse fare solo questo. In Iraq è andata senza idee sul dopo: sulla forza di curdi e sunniti, sul massimalismo della maggioranza sciita. E ha sottovalutato gli effetti disastrosi di questa sua insufficienza.
L’insufficienza consiste nella concentrazione di tutte le energie sullo sforzo militare, e nella parallela drastica diminuzione di influenza politica globale e di legittimità. Credendo di poter aggiustare il mondo con le sole proprie forze e con le sole armi, i governanti Usa hanno creato le basi per una vertiginosa caduta di potere reale: di potere politico, quello che si esercita nel lungo periodo. La legittimità stessa della loro guerra è a tutt’oggi latitante: Bush partì per trovare in Iraq lo smoking gun - la canna di pistola fumante rappresentata dalle armi di distruzione di massa - e per ora le armi non ci sono, sempre che non siano state saccheggiate. Ha trovato le fosse comuni, che sono un ritrovamento essenziale. Ma la legittimità egli la voleva conquistare sul fronte delle armi irachene, e su quel fronte ha guadagnato poco e perso molto.

Ne consegue un’autentica abulia politica dell'amministrazione Usa, un difetto di volontà e azione che subentra non appena le armi sono abbandonate, non appena tocca ricostruire le nazioni e insediarvi l’imperio della legge. E’ vero, il terrorismo è nato prima della guerra in Iraq e sin da principio significò due cose: l’inizio di un’offensiva contro l’Occidente, e il coinvolgimento di quest’ultimo nella grande guerra civile mondiale dentro l’Islam, tra moderati e radicali. In questa guerra civile gli americani hanno deciso di immergersi militarmente, ma non hanno ancora deciso come condurla politicamente, nel momento in cui a pagarne per primo il prezzo è l’Islam filo-occidentale, in Arabia Saudita e Marocco.

Ottenere risultati nelle ricostruzioni postbelliche è certo un’impresa difficile e lenta, ma nella battaglia per la persuasione delle menti arabo-musulmane è cruciale, e maledettamente urgente. Non è una battaglia vinta, per ora. L’Afghanistan è stato dimenticato, una volta presa Kabul: 24 province su 34 sfuggono al potere centrale, e i talebani stanno tornando. In Iraq il caso non è molto diverso: solo che qui è la capitale a sfuggire al controllo, e Washington è costretta a cambiare i governatori man mano che si scopre senza ricette. Tutta la salvezza doveva venire dal governatore Jay Garner: ora deve venire, ma non è spiegato come, da Paul Bremer.

Un’altra cosa vera che viene detta è che la guerra in Iraq non doveva servire a concludere quella antiterrorista, ben più lunga e complicata. Ma l’amministrazione a Washington non fa ragionamenti coerenti in materia, e chi vuol seguire la sua guida non sa quel che la guida pensi. Pochi giorni prima dell’attentato a Riad, Bush aveva annunciato: "Al Qaeda è in fuga". E ancora: "Quel gruppo di terroristi che ha attaccato il nostro paese è lentamente ma sicuramente decimato. Esso non costituisce ormai più un problema". Negli stessi termini si è espresso Cofer Black, capo dell’antiterrorismo al Dipartimento di Stato: "La sfida che avevano di fronte i terroristi era la seguente: o rimettersi in piedi o mettersi a tacere. La guerra nel Golfo è per loro un fallimento, da questo punto di vista".

Riad e Casablanca non sono solo la continuazione della primigenia guerra terrorista. Sono una sconfessione di certezze americane ben radicate. Il terrorismo non è stato decimato, ma si fa più capillare. Molti esponenti del clero musulmano che avevano condannato Bin Laden e l’11 settembre hanno cambiato idea, e consigliano ora il jihàd contro Usa e Israele. Al Qaeda era presente in circa 30 paesi, prima della guerra irachena: ora è presente in 40, secondo un rapporto Onu. Anche l’Istituto di studi strategici a Londra è preoccupato: "Al Qaeda non è meno insidiosa e pericolosa di quanto lo fosse prima dell’11 settembre". Non era distante dal vero il presidente egiziano Mubarak quando predisse, il 31 marzo, che "quando questa guerra sarà finita, se mai lo sarà, avremo come orribile conseguenza non un Bin Laden, ma cento Bin Laden".

Dice Massud Barzani, leader dei curdi in Iraq, che a causa dell’incapacità americana di ricostruire l’Iraq e di favorire la nascita rapida d’un governo iracheno legittimo, "la stupenda vittoria che abbiamo ottenuto finirà in un pantano". E’ un pantano in cui rischia di finire l’America stessa, proprio quando appare più potente e vittoriosa. Colpita al cuore l’11 settembre 2001, ha reagito mostrando tutta la forza del suo braccio armato. Ma aveva solo questo, mentre possedeva sempre meno influenza politica e legittimità. E’ un gigante debole, quello che vuole governare il mondo: questo è uno dei principali rischi del suo agire unilaterale.




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