Pagina iniziale
Rassegna stampa locale
Rassegna stampa nazionale
Approfondimenti

Da LA STAMPA 18 gennaio 2004

L'America vuol creare in Iraq un protettorato imperiale, e le conseguenze di un mancato appuntamento con la democrazia ricadono su chi ha iniziato la guerra con la scusa di esportare la democrazia

Presidente apprendista stregone

di Barbara Spinelli

ABBATTERE i tiranni ed esportare la democrazia: alla fine, non avendo trovato le armi di distruzione di massa e non potendo certificare l'esistenza di un patto fra Saddam e i terroristi che avevano abbattuto le torri di New York, l'amministrazione americana è giunta a quest'ultima giustificazione della guerra iniziata nel 2003 in Iraq. Estendere l'uso della democrazia nei paesi petroliferi del Golfo e in Medio Oriente, far sì che i popoli governino se stessi senza l'oppressione d'un tiranno: di questa rivoluzione Bush vuol apparire ultimamente profeta, e garante. È una missione che muta i dettami stessi della dottrina sulle guerre preventive - dette anche "guerre di difesa anticipata" - e almeno in apparenza è piena di forte e buona volontà: almeno in apparenza, l'attenzione oggi si concentra tutta sulla costruzione di Stati democratici. La nuova vulgata della Casa Bianca è a parole semplicissima, e non sembra temere le accuse di incoerenza: in Iraq si è fatta una guerra giusta ma non autodifensiva, come pure fu detto in principio. Dai propositi difensivi si è passati d'un sol colpo a propositi rivoluzionari e offensivi. Non ci si è mobilitati per proteggere il proprio territorio da una minaccia imminente - tale fu la giustificazione iniziale - ma per mettere la democrazia al posto di regimi sanguinari ma non troppo rischiosi per l'attaccante (troppo pericolosa, la Corea del Nord è risparmiata).

A forza di passare disinvoltamente da una menzogna all'altra, tuttavia, c'è il pericolo di affezionarsi alle menzogne. Si evocano pericoli incombenti, per poi dire che no, i motivi della guerra erano da principio tutt'altri. Si scopre che esiste ormai un terrorismo globalizzato, e poi si colpisce un paese molto dispotico ma senza legami certi con l'11 settembre. Esattamente la stessa cosa rischia di accadere, ora, con l'esportazione della democrazia: anche questa promessa ha tutta l'aria di essere poco credibile, come poco credibili son risultate le ragioni belliche esposte in precedenza.

Anche i discorsi americani sulla democrazia in Iraq rischiano d'esser percepiti come impostura: tale è la loro sconnessione dalla realtà vissuta sul terreno dagli iracheni, tale il bisogno di uscire da una menzogna con un'altra menzogna. È quello che ha scritto recentemente Philip Bobbitt, ex consigliere di Clinton e autore di un’importante storia della guerra che s'intitola The Shield of Achilles - "Lo scudo di Achille" (New York 2002). In verità, scrive Bobbitt sull'Observer e nel suo libro, "gli Stati Uniti non sanno spiegare perché vogliono estendere le pratiche democratiche a tutti gli Stati". E non sanno spiegarlo perché dal loro punto di vista "è la forza a creare il diritto (might makes right), e non l'esistenza d'un ordine legale ben definito". Di qui l'incongruenza: forse quel che gli uomini di Bush dicono non corrisponde affatto a quel che vogliono. Dicono che vogliono la democrazia, ma senza approfondire alcunché. Si propongono di restituire la sovranità agli iracheni col metodo democratico, ma in fondo è precisamente questo che non desiderano.
Forse la Casa Bianca muterà posizione, forse riscoprirà il ruolo prezioso che l'Onu può esercitare nel controllo dei processi elettorali. Ma per il momento l'impotenza dell'amministrazione è vasta. È un'amministrazione che promette cose in cui evidentemente non crede: la democrazia, per lei, sembra essere più un modo di dire, che di fare. Bush si comporta, con la democrazia, come l'apprendista stregone di Goethe: il maestro d'incantesimi ordina a una scopa di fare quel che egli le chiede, ma ecco che la scopa fa di testa sua. Alla fine, disperato, lo stregone vorrebbe liquidare le forze che lui stesso aveva suscitato: "Signore, il pericolo è grande! Gli spiriti, chiamati per magia, ecco che non riesco a liberarmene!".

Proprio questo sta accadendo in Iraq, con gli sciiti e il loro ayatollah al-Sistani che sono più che mai decisi a prendere alla lettera le parole così sbadatamente ripetute da Bush. La democrazia? Sì, proprio quella vogliamo e non l'assemblea di cooptati che ci avete promesso nel piano di trasferimento dei poteri: questo il messaggio di al-Sistani. Vogliamo la stessa democrazia che avete voi: le elezioni al più presto, un'assemblea veramente rappresentativa che scriva la Costituzione, e non un'ennesima assemblea selezionata dagli americani. Stanco di non essere ascoltato, al-Sistani ha emesso una fatwah, un editto religioso che chiede la convocazione di elezioni libere. Poi ha dato forza alla fatwah organizzando una grande manifestazione di sciiti a Bassora, giovedì. In quest'occasione ha minacciato una seconda fatwah: se Washington continua a ignorare quel che accade in Iraq, l'editto si farà ancora più ostile. A tutti i fedeli sciiti, che pure avevano accolto positivamente le truppe Usa, si vieterà qualsiasi collaborazione con le forze d'occupazione. Gli sciiti sono sicuri di vincere le elezioni, perché rappresentano il 60 per cento della popolazione.
Naturalmente si possono capire le preoccupazioni statunitensi. Una vittoria dell'Islam sciita - nonostante l'esistenza nel suo seno di una corrente moderata, ostile alla fusione tra Stato e chiesa - non porterebbe necessariamente democrazia e Stato di diritto. La legge musulmana prenderebbe forse il sopravvento, il pluralismo non sarebbe garantito. Non è una preoccupazione da prendere sottogamba, perché in effetti la democrazia non è solo vittoria di maggioranze numeriche: è anche rispetto di leggi che non mutano a seconda dei governi, è rispetto di istituzioni neutrali e di costituzioni che tutelino le minoranze. E poi c'è un motivo strategico per temere le elezioni immediate richieste da al-Sistani: il trionfo sciita spaventerebbe i sunniti, che per la prima volta si troverebbero a non governare l'Iraq, e accentuerebbe, nei curdi, il desiderio di secessione. La guerra in tal caso non finirebbe ma ricomincerebbe più aleatoria di prima, coinvolgendo anche Turchia e Iran.

Se le preoccupazioni sono giustificate, però, non si può dire che l'occupante americano abbia lavorato a fondo per scongiurare i mali che paventa. Non ha usato prudenza e per un anno ha fatto il sordo, senza meditare risposte serie alla sfida degli sciiti. Non è solo nell'ultima settimana infatti che l'ayatollah al-Sistani (inizialmente il più moderato e meno teocratico degli sciiti) ha espresso la sua preferenza per elezioni libere e rapide. È dal mese di giugno che rivendica il diritto alle urne, e sempre Washington ha sminuito quel che diceva. Credeva di avere in pugno al-Sistani, credeva che con i soldi o l'abbattimento di Saddam avrebbe conquistato per sempre gli sciiti. Ha insomma avuto molti mesi per prepararsi, e ora si trova impreparata di fronte a una fatwah che può divenire antiamericana. Bush poteva anticipare le elezioni, o fare in modo che alcune regole sulla protezione delle minoranze venissero concordate prima di un voto. Poteva negoziare più lealmente con al-Sistani, evitando di trattarlo come un minorenne un po' riottoso, ma pur sempre minorenne. Poteva dare un ruolo davvero centrale all'Onu, visto che al-Sistani non parla più con Washington ma parla con Kofi Annan. Solo nelle ultime ore, Bush chiede aiuto alle Nazioni Unite, che tanto aveva vilipeso.

Dilemmi del genere, legati al nascere delle democrazie, non sono sorti con l'occupazione dell'Iraq. Washington e gli europei accettarono nel 1992 la sospensione di un democratico processo elettorale in Algeria, quando il Fronte Islamico di Salvezza vinse le elezioni. Probabilmente non sbagliarono, ma ben presto smisero di pensare a questa questione che restava pur sempre scabrosa per la democrazia: già allora fu la forza a creare il diritto, e non l'elaborazione di un nuovo ordine legale o di una nuova definizione delle democrazie.

Oggi inoltre non basta riferirsi all'Algeria del '91-'92. L'America vuol creare in Iraq un protettorato imperiale, e le conseguenze di un mancato appuntamento con la democrazia ricadono su chi ha iniziato la guerra con la scusa di esportare la democrazia. A differenza dei vecchi protettorati, tuttavia, quello odierno è un protettorato riluttante, e afflitto da grave incompetenza. Bush non vuole restare a lungo in Iraq, perché non è come occupante che vuol vincere le elezioni. Non vuol versare troppo denaro. Ma soprattutto c'è una cosa che lo distingue dai protettori coloniali d'un tempo: il Presidente sa assai poco, del paese che dice di voler civilizzare. Non ne conosce le tradizioni, il linguaggio, le suscettibilità. Non sa che un popolo che si pretende di liberare non lo si può a lungo ingannare. È Bobbitt stesso a dirlo, che pure approva le guerre di difesa preventiva: non ci si comporta "come quei piccoli imprenditori che hanno solo il mercato e la market-democracy in mente, e nessun senso delle leggi e delle istituzioni".




Scriveteci a: margherita.alba@libero.it
Realizzazione del sito a cura di Luciano Rosso