Da LA REPUBBLICA del 16 dicembre 2003
Il no del Quirinale a questa falsa riforma delle tv è un coltello piantato nella carne viva del regime videocratico
Sfidare il Quirinale tentazione del Cavaliere
di Massimo Giannini
"NON la firmo", aveva detto a metà luglio subito dopo
l'approvazione della Gasparri al Senato, in prima lettura. "Non la firmo", aveva
ripetuto ai primi di settembre, quando il Polo aveva annunciato la blindatura
della riforma delle tv alla Camera. A dispetto delle convinzioni dichiarate del
presidente del Consiglio e delle pressioni occulte della sua maggioranza, Carlo
Azeglio Ciampi ha mantenuto fino in fondo la sua "promessa". Non l'ha fatto per
fare un "dispetto politico" al Cavaliere. Non l'ha fatto per dare una "lezione"
al centrodestra, o per elargire una "donazione" al centrosinistra. Il capo dello
Stato considera la nuova legge "non in linea con la giurisprudenza
costituzionale" e inadeguata a garantire il "rispetto del pluralismo
dell'informazione". Per questo chiede al Parlamento "una nuova deliberazione"
sul riassetto del sistema radiotelevisivo.
Ciampi agisce nel pieno
esercizio dei poteri che gli attribuisce l'articolo 74 della Costituzione. E
soprattutto in perfetta coerenza con il messaggio formale, finora l'unico del
suo settennato, che trasmise alle Camere il 23 luglio 2002. "La garanzia del
pluralismo e dell'imparzialità à dell'informazione costituisce strumento
essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta... Il principio
fondamentale del pluralismo è sancito dalla Costituzione e dalle norme
dell'Unione Europea... E' necessaria l'emanazione di una legge di sistema intesa
a regolare l'intera materia delle informazioni, delle radio-telediffusioni,
dell'editoria di giornali e periodici...". Questo scrisse il capo dello Stato,
in quel messaggio. La sua decisione di ieri conferma che la Gasparri non
realizza questi obiettivi. Nelle cinque cartelle di motivazione, il Quirinale
ricalca l'impronta già tracciata a luglio di un anno fa. Richiama la sentenza
466 del 20 novembre 2002, con la quale la Consulta ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale della legge 249 del 1997. La Corte evidenziava un ulteriore
impoverimento del pluralismo: "Dalla previsione di 12 reti nazionali (di cui 9
private) si è passati a 11 reti (8 private), e ciò non garantisce l'attuazione
del principio del pluralismo informativo esterno". Stabiliva che il regime
transitorio (quello che ha permesso a Berlusconi di possedere tre reti private
in tutti questi anni) "non può eccedere il termine del 31 dicembre 2003". Entro
questa data, Mediaset deve vendere Rete4, o trasferirla su satellite. L'articolo
25 della Gasparri non ha risolto questo problema. Il rinvio all'attivazione
definitiva del digitale terrestre, indefinito nei tempi e incerto nella
copertura effettiva, ha di fatto trasformato il 31 dicembre 2003 non nel termine
finale di una fase provvisoria ormai illegittima (come esige la pronuncia della
Consulta), ma nell'ennesimo punto di partenza per l'avvio di una nuova fase
transitoria.
Questo nodo, tutto sommato, sarebbe facilmente risolvibile
per il governo. Una via d'uscita l'ha già indicata nei mesi scorsi Sabino
Cassese, costituzionalista stimato dal Colle. Basta integrare l'articolo 25
della legge con un nuovo termine finale, certo e cogente, per il passaggio al
sistema digitale. Questo consentirebbe al gruppo Mediaset di evitare la vendita
di Rete4. Ma Ciampi non si limita a un rilievo formale. Cita anche le altre
sentenze-cardine della Consulta sul pluralismo. Le più importanti sono due. La
826 del 1988, che poneva come imperativo la necessità di garantire "il massimo
di pluralismo esterno, onde soddisfare, attraverso una pluralità di voci
concorrenti, il diritto del cittadino all'informazione", E poi la 420 del 1994,
che sottolineava la necessità di "un'idonea disciplina che prevenga la
formazione di posizioni dominanti".
Con questi principi costituzionali,
Ciampi smonta il perno centrale sul quale si regge l'impianto normativo studiato
da Berlusconi: l'articolo 15, che istituisce e disciplina il Sic, il Sistema
integrato delle comunicazioni. Questa norma stabilisce che uno stesso
concessionario "non può essere titolare di autorizzazioni che consentano di
diffondere più del 20% dei programmi televisivi", né può avere ricavi superiori
al 20%, calcolati secondo le "risorse complessive del Settore integrato delle
comunicazioni".
Il "Sic" è un parametro volutamente vago e
inafferrabile, al quale è impossibile ancorare paletti contro i monopoli.
Abbraccia i ricavi del servizio radiotelevisivo e le telepromozioni, le
televendite e le sponsorizzazioni. Al Senato Franco Debenedetti ha azzardato
un'ipotesi quantitativa: agli attuali valori di mercato, il "Sic" varrebbe
intorno ai 23 miliardi 387 milioni di euro. Uno sproposito, che rende
irraggiungibile per chiunque il tetto antitrust del 20% fissato dalla Gasparri.
Il capo dello Stato lo dice in altre parole: "Il Sistema integrato... potrebbe
consentire, a causa delle sue dimensioni, a chi detenga il 20%, di disporre di
strumenti di comunicazione in misura tale da dar luogo alla formazione di
posizioni dominanti". Ma la sostanza della "censura" non cambia. Semmai risulta
addirittura rafforzata. A sorpresa, il Colle respinge anche le norme sulla
raccolta pubblicitaria che la nuova legge sbilancia nettamente a favore delle tv
e a svantaggio della carta stampata. >
Chi immaginava un rinvio
"soft" è rimasto deluso. Quasi quanto chi, con troppa fretta e poco rispetto per
l'autonomia della più alta carica dello Stato, si era azzardato a profetizzare
una sicura promulgazione. Le "censure" del Colle sono pesanti. Tracciano un
solco profondo su un provvedimento che, a questo punto, andrà ripensato alla
radice. Stupisce l'improntitudine di certe anime belle della maggioranza, come i
forzisti Bondi e Cicchitto, quando affermano che "la Gasparri conserva il suo
valore e la sua giustezza". Non è così, e non lo è mai stato. Ciampi lo ha
ripetuto per mesi, lanciando anche sommessi segnali alla maggioranza.
Quando il 23 luglio, dalle colonne di questo giornale, avvertimmo che
Ciampi non avrebbe firmato, in assenza di correzioni radicali al testo, la
reazione del premier e degli organi d'informazione di casa Berlusconi (dal
Foglio al Giornale), fu sdegnata e irridente. Ai primi di agosto il Cavaliere
annunciò all'opinione pubblica: "Ho parlato con il Quirinale della Gasparri, e
il presidente mi ha garantito che non ci sono problemi". Non era vero,
ovviamente. Ma nei rapporti tra il Colle e Palazzo Chigi, quello strappo ha
sancito un punto di non ritorno. Da quel momento in poi Ciampi si è chiuso in un
silenzio assoluto. Ha cambiato strategia. Ha rinunciato alla "moral suasion",
all'intervento discreto volto a suggerire modifiche e a correggere le leggi in
corso d'opera, che aveva usato invece sulle rogatorie e sulla Cirami. Ha
lasciato lavorare governo e Parlamento, riservandosi la scelta finale.
Nel frattempo, ha subito e sopportato pressioni di ogni sorta. Quelle
dei girotondi, che lo imploravano di non firmare, e lo sognavano
(impropriamente) non più arbitro ma giocatore schierato nella metà campo del
centrosinistra. Ma soprattutto quelle della maggioranza e dei suoi giornali:
solo una settimana fa ancora il Foglio, con un editoriale di Giuliano Ferrara,
lo avvertiva (minacciosamente) che un eventuale rifiuto di firmare la riforma
televisiva avrebbe aperto una gravissima "crisi istituzionale" per il Paese e un
rischiosissimo scontro politico con il centrodestra. Ciampi ha resistito. Ha
ascoltato solo la sua coscienza.
Il rifiuto presidenziale di promulgare
una legge non è di per sé un "atto sedizioso", come avrebbe detto Guido Carli.
Dal punto di vista "tecnico", appartiene alla fisiologia della dialettica tra le
istituzioni e riflette le esigenze di bilanciamento tra i poteri. Da Luigi
Einaudi ad oggi, le leggi rinviate al Parlamento sono state 55. Solo Ciampi ne
ha già respinte 5. Ma dal punto di vista politico, il Cavaliere dice l'ennesima,
colossale bugia quando afferma che lo specifico rinvio della Gasparri non
rappresenta un "vulnus" per il suo governo. Questa legge è stata costruita per
consolidare il suo potere mediatico (rafforzando il suo monopolio nelle tv e
nella pubblicità) e per rendere permanente il suo conflitto di interessi
("condonando" la sua posizione dominante con Rete4). Questa legge valorizza il
"core business" dell'impero del premier. Olia gli ingranaggi della formidabile
"macchina del consenso" berlusconiana. Questa legge non piaceva affatto agli
alleati moderati del Cavaliere: Fini e Follini avevano confessato di averla
difesa per puro spirito di coalizione, e di averla votata con il metodo
Andreotti, cioè "turandosi il naso". Ora quella legge andrà riscritta.
Ciampi l'ha colpita al cuore con una scelta coraggiosa. Ma non faticosa
per chi, come lui, si sforza di rimanere "il presidente di tutti". Il garante
dei valori costituzionali e della buona qualità della nostra democrazia. Ma
tutto questo, per Berlusconi, è incomprensibile. La cultura delle regole non gli
appartiene. Per questo, ieri, ha nuovamente calpestato le prerogative del
Quirinale, anticipando la notizia della bocciatura della riforma tv. Per questo,
adesso, lo descrivono ferito e furente, pronto a minacciare una nuova forzatura
del galateo politico-istituzionale: "La Gasparri la rivoteremo, non so se
uguale...". E' cos> ì che la fisiologia di un atto istituzionale, il rinvio
di una legge alle Camere, sfocia nella patologia di un conflitto politico. Il
Cavaliere comprende l'ovvia necessità di adeguarsi alle indicazioni del Colle.
Ma le vive come un affronto personale, perché mai come in questa occasione, per
lui, sono personali gli interessi in gioco. Il no del Quirinale a questa
falsa riforma delle tv è un coltello piantato nella carne viva del regime
videocratico perseguito dall'uomo di Arcore.
Per questo, il premier si
lascia sedurre dalla tentazione di reagire con una ulteriore spallata al
sistema. Senza valutare gli effetti destabilizzanti che una sfida del genere può
avere sulla sua stessa maggioranza. Senza ponderare i danni incalcolabili che
può produrre sui già logorati equilibri istituzionali del Paese. Dobbiamo
ringraziare Ciampi, se questi equilibri ancora reggono agli urti del
berlusconismo. E soprattutto se continueranno a reggere fino al termine della
legislatura.
|