Da LA STAMPA 16 novembre 2003
La guerra americana in Iraq ha finito col favorire un'alleanza mortifera fra terrorismo internazionale, fedeli di Saddam,
nazionalisti anti-Saddam, sciiti radicali temporaneamente associati ai sunniti
Terroristi e partigiani
di Barbara Spinelli
Dopo l’attacco alle due sinagoghe di Istanbul, dopo l’attacco
di mercoledì alla caserma italiana di Nassiriya, dopo l’attacco a Riad dell’8
novembre: ormai è chiaro che gli insorti iracheni e i terroristi globali si
muovono più o meno disordinatamente assieme, e hanno come obiettivo tre gruppi
di paesi: l’America in prima linea, presente militarmente in Iraq, e accanto
all’America Israele e l’Europa (i musulmani turchi sono assimilati agli
europei). Sono i kamikaze e le auto bomba a unificarli così, nella strage. Sono
loro a volere e a imporre quest’uniformità di sentimenti, di orrore:
un’uniformità che non distingue più una situazione dall’altra, che cancella le
caratteristiche e le responsabilità dei singoli conflitti, che non lascia più
spazio a chi vuol lavorare per la pace e ricominciare la politica, non solo in
Europa ma anche in America e anche in Israele. Non cedere al terrorismo
significa forse questo, oggi: rifiutare l’uniformità suicida imposta dal
terrorismo kamikaze, ogni volta che quest’uniformità cancella specifiche
geografie, specifiche storie, responsabilità. Significa continuare a pensare, a
dispetto di chi - suicidandosi terroristicamente - vorrebbe uccidere non solo il
proprio pensiero ma anche il nostro. Significa rimeditare una cosa per volta,
senza rinunciare a distinguere: la guerra contro il terrore e l’impossibilità di
debellarlo per sempre; la guerra americana in Iraq e i modi per concluderla
senza lasciar sfasciate troppe cose; la guerra di Israele e le prospettive d’un
accordo con la Palestina. Il ministro israeliano Sharon non ha torto, quando
parla a proposito dell’attentato in Turchia di una "minaccia terrorista
mondiale". Ma sfugge alle responsabilità nazionali, quando si limita a
internazionalizzare il fenomeno e a cercare risposte solo globali. Per
tentare di capire si può cominciare dall’Italia, così gravemente colpita. Se
davvero si vuol rendere omaggio al sacrificio dei carabinieri e dei soldati a
Nassiriya, occorrerà molto più di una solenne cerimonia funebre, e del dolore
collettivo che vi si esprimerà. Se è vero che il dolore apre la strada alla
sapienza, come da tempi immemorabili ci dicono i tragici greci, occorrerà anche
una rivoluzione delle parole, una meditazione sul loro senso effettivo, un
rapporto più stretto fra quel che si fa, quel che si sente, quel che si vede, e
quel che si dice. Questo rapporto è stato fin qui sregolato, se non inesistente.
E’ ancora labile, dopo l’eccidio di Nassiriya. Si cerca ancora rifugio in
eufemismi, che imbelliscono e deformano la verità della guerra che i coalizzati
combattono sotto guida americana. Si parla ancora di soldati di pace, per la
pace. Si parla di un drappello di kamikaze estranei al territorio iracheno,
nell’illusione di poter de-territorializzare quella che è una guerriglia locale
condotta con vari metodi, tra cui il terrorismo. Ci si nasconde dietro parole
imprecise, ed è proprio l’imprecisione che impedisce al dolore collettivo di
generare la sapienza di quel che veramente accade, di quel che ci aspetta, di
quel che è possibile fare, con le armi e la politica e la ragione. Il
principale errore lo compiamo quando globalizziamo tutto quello che facciamo sui
singoli teatri di guerra - Iraq e Afghanistan per i coalizzati, Palestina per
Israele - e quando globalizziamo anche tutto quel che fanno gli avversari (siano
essi resistenti o terroristi). La nostra lotta non è contro le varie forze di
resistenza e contro l'uso che esse fanno del terrore suicida, ma contro un
anonimo, indecifrabile terrorismo mondializzato: questo generalmente dicono i
dirigenti Usa e molti dirigenti europei o israeliani. E anche l'avversario viene
defraudato per questa via del suo territorio e immaginato come terrorista
globale: privo di patria, di confini, di sostegni locali.
De-territorializzare la guerra è un espediente che può consolare in un primo
momento, ma che rischia di divenire doppiamente micidiale. Micidiale è in primo
luogo l’arroganza, che è alla base di una volontà così persistente di ignorare
il tòpos, il luogo dove i soldati sono mandati: la terra irachena su cui si
combatte diventa il mondo, e perfino il nostro mondo. Il ministro della Difesa
Martino ha addirittura visto, in Iraq, il "nostro Ground Zero": come se
l’attacco bellico di Nassiriya fosse avvenuto in casa nostra, e non in casa
d’altri. Come se il mondo su cui interveniamo fosse ormai nostro: è quel che
succede nelle utopie, che per definizione son prive di tòpos. Ma micidiale è
anche la debolezza, che si dissimula dietro la presunta mondializzazione delle
minacce: trasfigurando l’avversario bellico in terrorista globale, negando
qualsiasi suo legame con il territorio e il tessuto dell’Iraq, apparirà meno
vistoso il fatto che sono gli americani e i coalizzati ad aver perso - se mai
l’hanno avuto - il controllo del territorio. Constatare l'esistenza d’un "male
mondiale" ha senso, perché tutti siamo implicati. Ma è anche una menzogna, che
singolarmente coniuga un'estrema volontà di potenza e un'estrema dimostrazione
di impotenza. Contro chi combattiamo, e per che cosa e per chi? Prima o poi
varrà la pena rispondere a queste domande, senza rifugiarsi in parole che
falsificano le concrete esperienze sul fronte. Contro chi combattiamo in Iraq:
sono terroristi, certo, perché i loro metodi lo sono. Colpiscono non solo gli
uomini in uniforme ma anche i civili, musulmani compresi. Ma sono terroristi che
si organizzano e vedono se stessi come partigiani, guerriglieri, ed è troppo
facile e astratto negar loro tale appellativo. Colin Powell li chiama insorti,
non terroristi. Non sono privi di legami con il territorio, solo pochi sono
adepti di Bin Laden, e per questo sono così pericolosi. La guerra americana in
Iraq voleva instaurare una democrazia-modello nel Golfo (son spariti gli accenni
alle armi di distruzione) e ha finito col favorire un'alleanza mortifera fra
terrorismo internazionale, fedeli di Saddam, nazionalisti anti-Saddam, sciiti
radicali temporaneamente associati ai sunniti. Conviene leggere l’inchiesta
pubblicata sul Guardian del 13 ottobre da Saki Chehab, libanese d'origine
palestinese, che ha contattato molti resistenti-terroristi: gli insorti non sono
tutti fedeli a Saddam, né sono subito liquidabili come emissari di Al Qaeda. La
maggior parte di essi sono nazionalisti, che non sopportano le truppe americane
e che spesso sono passati alla resistenza perché offesi dal modo di comportarsi,
irrispettoso, violento, dei soldati Usa. I fedeli di Saddam si mobilitano perché
hanno perso il potere, i nazionalisti perché vogliono indipendenza e sicurezza,
gli integralisti perché sognano un Islam politico: "Quel che più mi ha colpito -
scrive Chehab - è la forza del loro proposito unitario: liberare l'Iraq dagli
occupanti. Quelli che ho visto non erano residui del partito Baath. Essi
biasimavano anzi Saddam, per aver portato gli americani in Iraq. Assicuravano
addirittura che la cattura di Saddam avrebbe definitivamente rotto il legame tra
quest'ultimo e i movimenti di resistenza. Si definivano nazionalisti". La forza
di tali propositi è stata sottovalutata da Washington, che solo ora vorrebbe
cambiar rotta e anticipare al giugno 2004 il passaggio dei poteri a un governo
iracheno. I carabinieri italiani per parte loro lo sapevano: per questo e non
per ingenua cecità si erano insediati nel cuore di Nassiriya, sapendo che
compito prioritario degli occupanti era conquistare la fiducia d’un popolo fiero
della sua indipendenza, dunque suscettibile. Per questo tanti italiani sono
contrari a un ritiro, pur avversando la guerra: quel modo di esser presenti in
Iraq, per cui i carabinieri sono morti, deve servire da esempio e preparare
un'uscita non catastrofica dal conflitto. L’altra questione è: per cosa
combattiamo e per chi. E’ stato detto che combattiamo ormai in nome di un’unica
comunità, che va dagli Stati Uniti a Israele passando per l'Europa. E in effetti
questa comunità c'è: è stata creata dal terrorismo. Ma è una comunità di
responsabilità e di doveri, e non ancora di convinzioni. Il governo israeliano
non potrà evitare di far la sua parte, combattendo il terrorismo ma anche
capendo le sue origini e facendo le "dolorose concessioni" di cui ha parlato
Sharon: abbandonare territori e colonie è la più urgente delle concessioni e
indebolisce l’energia degli attentatori. Il governo Usa non potrà fare a meno di
meditare su una guerra che ha abbattuto Saddam ma fortificato il terrorismo. Una
guerra che forse poteva essere evitata con la forza dissuasiva dell'armata Usa
nel Golfo, se è vero quello che ha scritto James Risen sul New York Times del 5
novembre: Saddam era pronto a cedere su tutto, pur di evitare l'offensiva. Era
pronto a far entrare ispettori americani, a consegnare un uomo implicato nell'11
settembre, a convocare entro due anni elezioni libere controllate
internazionalmente. Forse era un bluff, ma nessuno può dire con certezza che lo
fosse.
Quanto all’Europa, essa sarà chiamata a escogitare una politica
più efficace di quella americana, se non vuole limitarsi a denunciare l’alleato
in difficoltà. Sul Corriere della Sera, Stefano Folli ha invocato una "comunità
sovrannazionale di valori" - tra Europa, Usa, Israele - che di fatto non esiste
ancora, se non nel mirino terrorista. Nelle comunità sovrannazionali ognuno
rinuncia a un pezzo consistente della propria sovranità, e questo non è accaduto
tra Usa Europa e Israele. Ognuno agisce unilateralmente, ed è solo il terrorismo
a unirci, non nell’azione dei governi ma nel dolore e nel patimento di quei
poveri carabinieri e turchi ed ebrei e arabi che abbiamo visto insanguinati a
Nassiriya, a Istanbul, a Riad. Il terrorista suicida non considera se stesso
come terrorista. Si considera un partigiano, reso forte dalla fusione tra
religione e nazionalismo. Avere un vocabolario meno semplificato può aiutare a
capire un po’ il mondo che abita lui, e che abitiamo
noi.
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