Da LA STAMPA 16 febbraio 2003
La paura cattiva consigliera per i pacifisti radicali e per i demagoghi che disertano la politica di costruzione della pace
Apprendisti stregoni
di Barbara Spinelli
PER i democratici che avevano costruito le proprie fortune sul
populismo, e che ancor ieri sembravano nuotare in un mare a loro amico, questi
sono giorni duri da traversare. L’opinione pubblica era a loro fianco,
patrimonio immoto e incontrovertibile. I sondaggi erano il loro principale
alimento, e nulla veniva fatto o detto che contraddicesse il decisivo verdetto
delle indagini d’opinione. La loro forza era il demos, il popolo in nome del
quale il populista si allena a parlare. Ma ecco che d’un tratto il demos non è
più dalla loro parte: questa guerra che si sta preparando ad opera di uomini
come Bush, come Blair, o come Aznar e Berlusconi, l’opinione pubblica non la
vuole. Non ne capisce il motivo, la finalità: in quasi seicento città del mondo
è sceso in piazza per dire il suo no alla mobilitazione bellica contro il regime
di Baghdad. Tra i manifestanti ci sono naturalmente anche i pacifisti classici,
che non vedono il pericolo quando cresce e che giudicano più minacciosa
l’America di Bush che l’Iraq di Saddam Hussein. Ci sono i complici del crimine,
che fingono d’aver scordato i villaggi curdi gasati da Saddam nell’88 o che
ignorano il bisogno di libertà dell’opposizione irachena. E ci sono gli
impauriti, che davanti ai dittatori sono avvezzi a piegarsi.
Ma non c’è
solo questo, nel riluttante diniego che esprimono le popolazioni dei paesi
liberi. C’è una più fondamentale diffidenza, nei confronti di politici che
lanciano guerre con crescente facilità, senza spiegarle fino in fondo. Che hanno
trasformato la guerra stessa in una delle tante opzioni della politica, e anzi
nell’opzione ideale quando la ben più lenta e ingrata lotta al terrorismo non
consegue risultati immediati. E c’è infine un timore più assennato di quel che
sembra: il timore che i politici non sappiano far altro che questo, in
definitiva, e cioè governare e decidere diffondendo la più micidiale delle
passioni, che consiste appunto nella paura.
E’ strano quello che sta
succedendo: i governanti che vogliono la guerra usano la paura come arma di
persuasione, e con la paura si sono abituati a fare politica. Altra via faticano
a trovarla anche quando la cercano, e per questo finiscono spesso prigionieri di
formule che non sanno bene come modificare. Per difendere le proprie scelte
belliche, ogni volta dipingono scenari di catastrofe. Bush annuncia che ci
saranno attentati ben più spaventosi dell’11 settembre, e immagina di ricreare
l’euforia solidale dell’autunno 2001. Blair descrive un’Inghilterra in stato
d’assedio. Berlusconi, quando parla dell’Iraq, predice l’imminenza di vasti
delitti terroristici sul territorio italiano. E’ così che i demagoghi
democratici hanno perso le vittorie sondaggiste di cui andavano tanto fieri:
dipingendo un mondo ancor più nero, il giorno che scoppierà la guerra.
E’
così che hanno giocato con la paura per esserne poi sommersi, alla stregua di
tanti apprendisti stregoni alle prese con il demone che spensieratamente avevano
suscitato. Come nella poesia di Goethe, il mostro finisce infatti per rivoltarsi
contro chi l’aveva invocato: "Signore, la sciagura è grande! Quelli che avevo
invocato per magia, gli spiriti, ora non riesco più a liberarmene". D’un tratto
sembrano attori senza più pubblico né voce, gli statisti che s’accampano sugli
schermi televisivi e invitano i soldati a salpare. Ripetono minacce e slogan in
una sorta di deserto, paiono uomini-replicanti attrezzati per dire sempre gli
stessi luoghi comuni. Una vignetta sull’Herald Tribune riassume bene la
situazione. Colin Powell, a corto di argomenti forti e di prove sul legame tra
Baghdad e l’11 settembre, si rivolge a Saddam con una serie di frasi fatte cui i
sosia del dittatore replicano: "Il peggio è ormai sicuro. Ogni volta, alla
vigilia di un attacco militare, è con una pioggia di stereotipi che ci
bombardano".
Il regno dello stereotipo è solido - lo dice l’etimologia,
stereo se ciò che è saldo, rigido - ma è al tempo stesso vuoto, immobile,
impermeabile alle esperienze. Lo stereotipo è un’opinione rigidamente
precostituita, e non a caso il populista se ne impossessa d’istinto. Proprio
perché non ha proprie idee robuste, egli è abituato a adottare le opinioni
altrui - dei sondaggi, o di una potenza più forte - e quando viene il momento
cruciale non sa argomentare con le voci dissenzienti o con i sondaggi mutati.
All’inizio ascolta tutti, passivamente. Alla fine non ascolta più nessuno,
perché il popolo lo voleva docile e non lo sopporta quando si mette a
discutere.
Eppure è proprio questo che abbiamo visto in televisione,
venerdì, quando Hans Blix e El Baradei hanno presentato il loro rapporto al
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Abbiamo assistito in diretta a uno
straordinario dibattito fra sedici governi che in rappresentanza del mondo hanno
discusso questioni essenziali: come combattere il terrorismo, dopo il trauma
dell’11 settembre; come far fronte a un nemico che non ha volto, che abita non
tanto città come Baghdad ma di preferenza le libere città dell’Occidente. E come
vincere la battaglia contro il pericolo di Saddam: se subito con le armi, o
progressivamente con la politica del contenimento, delle ispezioni
coercitive.
I politici che hanno fin qui vissuto di sondaggi hanno
mostrato di non essere all’altezza di simili contraddittori: Bush si è rifiutato
di seguire il dibattito alla televisione, e ha ripetuto i suoi stereotipi senza
tener conto che l’Onu non è solo un "club di vane discussioni". Sembrava lontano
mille miglia da Powell, che a New York si sforzava di ascoltare, di capire, di
convincere: lo stereotipo l’aveva inghiottito. Sembrava l’esatto corrispettivo
del manifestante pacifista. Lo slogan di quest’ultimo, riduttivo come tutti i
cliché, è: "No alla guerra senza se e senza ma". Lui gli faceva eco con un altro
cliché: "No alla coercizione pacifica e alle pressioni dissuasive, senza se e
senza ma".
Se lo stereotipo regna così sicuro di sé ci devono essere
ragioni cogenti, su cui conviene indagare. La lotta al terrorismo è appena
cominciata, e dopo la prima controffensiva in Afghanistan non è riuscita ancora
a raggiungere i suoi scopi: cellule terroristiche si moltiplicano nelle
democrazie liberali, Bin Laden non è catturato, i suoi proclami continuano a
aizzare gli estremisti arabi. E’ il terreno ideale, per la fossilizzazione delle
strategie. Incapace di condurre con calma una strenua lotta poliziesca contro il
terrore, una parte dell'Occidente ricorre all’arma della guerra: perché nelle
guerre il nemico è più visibile, perché le vittorie sono subito palpabili,
perché la dissuasione è più difficile.
Dicono che solo la vecchia Europa
mette in discussione queste strategie, perché dominata dalla paura e perché non
si cura dei paesi più esposti al terrorismo che sono l’America e Israele. Ma non
tutta l’opinione europea è alimentata da atteggiamenti di viltà, o
dall’antiamericanismo. Molti sono contro la guerra perché non vedono la sua
utilità, e chiedono ai politici di fare molta più politica e molto meno
psicologia prima di affidarsi ai generali. E’ la posizione al Consiglio di
sicurezza di Dominique de Villepin, ministro degli Esteri francese: la guerra
non va esclusa, ma forse si può vincerla contro Baghdad prima di doverla fare.
Forse si può vincerla senza distruggere preliminarmente l’Unione europea e le
Nazioni Unite, l’Alleanza atlantica e il legame con l’America che nessun governo
europeo vuol spezzare.
Questo sostiene Ciampi, nella lettera inviata
ieri a Berlusconi: l’Italia, paese fondatore della Comunità, non può condividere
l’opinione di chi ritiene fallita la Nato come scelta di civiltà, se solo
l’Europa prova a pensare strategie alternative e a cercare un’unità intorno a
tali strategie. Forse ci si può sbarazzare di Saddam con una guerra fredda,
senza gettare nel terrore il popolo d’America e quello d’Israele. La paura è
cattiva consigliera in tutte le circostanze: sia nelle mani dei pacifisti
radicali, sia in quelle dei demagoghi che manipolano le passioni umane per
meglio disertare lo spazio della politica, del dibattito e della lenta
costruzione della pace. Prima o poi la paura sommerge gli uni e gli altri, come
gli spettri che si ribellano allo stregone troppo convinto di poterli
governare.
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