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DIBATTITO SULLA GUERRA IN AFGHANISTAN |
Da LA STAMPA 14 ottobre 2001 I terroristi si sentiranno incitati a infierire se non dovranno temere una punizione In cosa crede il pacifista? di Barbara Spinelli Dicono i manifestanti per la pace, alla vigilia del corteo che li condurrà oggi da Perugia a Assisi, che questa guerra contro il terrorismo di Bin Laden e il regime afghano non si deve fare. Che non si può rispondere alla violenza con la violenza, e che gli anglo-americani si lasciano ancora una volta trascinare dallo spirito di vendetta. I manifestanti sembrano possedere il dono della pietà, ma dimezzata. Della commozione, ma insidiosamente impassibile: quel che è accaduto l'11 settembre non ha disturbato fino in fondo abitudini mentali, certezze di ieri. L'irruzione del tremendo li ha commossi nell'intimo, li ha giustamente impauriti e spinti a fare critiche spesso opportune all'Occidente, ma non ha modificato consuetudini di pensiero, di azione. Questa è un'occasione per rimeditare quel che siamo e vogliamo - hanno detto a se stessi fin dal primo giorno - ma la rimeditazione promessa è purtroppo lungi dall'essere cominciata. Paradossalmente, sono i più convinti assertori di radicali conversioni - lo scrittore tedesco Botho Strauss parla di desiderio di metanoia, suscitato dall'evento delle Torri Gemelle - a cambiare meno opinione attorno a se stessi, al proprio agire, al mondo che li circonda. Il mondo continuano a guardarlo dall'alto, senza vedere i disastri che lo colpiscono, e questo dà loro uno strano ma benefico senso di onnipotenza, che inebria e al tempo stesso consola provvidenzialmente: se sfiliamo tutti assieme e diciamo slogan di pietà e non violenza allontaneremo un po’ da noi il pericolo, dunque anche la paura che ci incalza, dunque combatteremo anche le radici di tanta sofferenza. Se ci atteggiamo a Dei, da cui ogni cosa discende sulla base di una ferrea concatenazione di cause e effetti, nessun vero panico ci afferrerà. Siamo noi la causa del male, e siamo sempre noi a poterlo spegnere. Nel Candido di Voltaire è Pangloss che ragiona così: tutti gli eventi hanno cause che inevitabilmente producono certi effetti, dunque nulla può sorprenderci e mortalmente ferirci perché per ogni incidente c'è una ragione sufficiente. Tra la nostra colpa e la nostra contrizione si apre un ineffabile vuoto di eventi, di responsabilità, rappresentato da quegli aerei che si sfracellano sulle pareti delle Torri riducendo in cenere settemila uomini di varie razze che avevano immaginato, quella mattina, di andare normalmente in ufficio. Dal punto di vista del pacifista europeo tutto nasce effettivamente in Occidente, o meglio in America: tutti i mali che sono commessi, tutto il bene che si omette di fare. Sono le colpe accumulate dagli Stati Uniti che hanno suscitato l'odio dei gangster terroristi. Sono gli anglo-americani che iniziano questa guerra senza la quale il mondo sarebbe forse inquieto ma in pace. E siamo ancora una volta noi che abbiamo in mano le chiavi del presente, del futuro: è nel nostro potere di aprire le porte o di chiuderle brutalmente. Questo pensano i pacifisti di se stessi e di quella che immaginano essere ancor oggi l'iperpotenza americana: noi, in Occidente, sappiamo di essere non uomini ma Dio. Basta un nostro cenno, basta una nostra parola, e il mondo sarà o non sarà. Ciascuno di noi, nel ricco Occidente, incarna personalmente e collettivamente la Provvidenza. Ovvio che per questa via l'11 settembre diventi un non-evento, e che i criminali sprofondino nell'oblio. E quando non sprofondano nell'oblio sono capiti, surrettiziamente aureolati dalla fede che pretendono possedere. Il male, per molti pacifisti, comincia con la reazione statunitense e non con l'America colpita al cuore. In questo i pacifisti sono il contrario dei non violenti, che ignorano la dismisura delle potenze divinizzate o demonizzate e che concentrano ogni sforzo nella risposta a soprusi e tirannidi. Era non violenta l'India che lottava contro il colonialismo britannico, così come lo erano i dissidenti dell'Est e dell'Urss, durante la guerra fredda. Il loro rifiuto della violenza fu sempre una forma di resistenza, e se necessario di sacrificio. Il filosofo ceco Patocka era disarmato ma teorizzava al tempo stesso l'opposizione intrepida, di chi conduce la propria esistenza alla maniera di un soldato inviato sul fronte o incaricato di fare la sentinella. Havel era non violento e al tempo stesso si ergeva contro i pacifisti occidentali, accusandoli di aver lo sguardo fisso sui missili dell'Ovest e di non voler vedere missili e disastri umani prodotti dal comunismo sovietico. In India come in Europa orientale si trattava di abbattere il male, non di scendere a patti con esso e di evitare le contrapposizioni armate. L'equiparazione tra pacifismo e non violenza è un golpe verbale che offende gli eredi di Gandhi o di Sacharov, e che inganna chi - assalito da comprensibile paura - vorrebbe un linguaggio di verità, di autentica meditazione, e soprattutto di buon senso. Questo infatti cerca chi teme per il futuro della propria vita e della civiltà: non la parola che ci metta nel mezzo della verità ma la descrizione del male, di chi lo commette, dei modi non necessariamente univoci ma risoluti per combatterlo. Chi è veramente turbato dalle immagini dell'11 settembre non cerca le dispute fra maestri di pensiero attorno ai valori spirituali di questa o quella società, ma chiede chiarezza sulle responsabilità dell'atto, e sull'uso malavitoso che viene fatto di una religione, nella fattispecie musulmana. In cuor suo, sospetta assieme a Salman Rushdie che "questa furibonda e benpensante critica antiamericana" equivalga a "ricusare l'idea stessa della moralità, secondo la quale gli individui sono responsabili delle loro azioni". Il buon senso cui aspira il cittadino contrario alla violenza è, in altre parole, il rispetto del principio di non contraddizione. Se il signor X compie un crimine contro l'umanità, la colpa non può essere di Y, anche se questi commercia senza rispettare tutte le regole, ed è magari arrogante in politica estera, e colpisce una nazione più volte martoriata come l'Afghanistan. Nelle Torri e nel Pentagono non sono morti settemila colpevoli, e il male assoluto è opera di autori che non possono essere dissolti in un contesto: né un contesto storico, né il contesto della mondializzazione e dei suoi inconvenienti, che naturalmente urge raddrizzare ma che non sono misurabili con il crimine di Manhattan. Evocare i dialoghi tra San Francesco e il sultano d'Oriente, e mettere dunque sullo stesso piano Bin Laden e le figure storiche dell'Islam non è meno insultante per la religione musulmana delle parole spropositate che Oriana Fallaci ha pronunciato sull'inciviltà odierna della cultura di Maometto. Lo stesso San Francesco d'altronde, che Tiziano Terzani cita per difendere le tesi pacifiste, era giudicato da Machiavelli un grande cristiano, ma ignaro di necessità e libertà terrene: assieme a San Domenico, il Santo dava a "intendere come egli è male dir male del male", in modo che i capi disonesti della religione non fossero castigati da altri che da Dio: "E così quegli fanno il peggio che possono, perché non temono quella punizione che non veggono e non credono". Lo stesso fanno i pacifisti: anche per loro è "male dir male del male". E anche i terroristi si sentiranno incitati a infierire, se non dovranno temere una punizione che non veggono e non credono. La stessa polemica contro gli eventuali straripamenti della rappresaglia anglo-americana sarebbe ben altrimenti efficace, se il pacifismo non avesse chiuso gli occhi per anni - e non continuasse a chiuderli - sulla passata violenza di Milosevic contro i musulmani di Bosnia e del Kosovo o sulle efferatezze russe contro i musulmani ceceni. Efferatezze certificate dalle associazioni umanitarie, nella malaugurata indifferenza di no-global e pacifisti. Putin ha decretato il bombardamento sistematico delle popolazioni civili, la deportazione di centinaia di migliaia di ceceni, le torture di donne bambini e anziani inermi, e ha dato a ciò il nome di lotta anti-terrorista. Quel che è avvenuto ieri a Kabul - un quartiere residenziale bombardato per errore dalla marina Usa - è grave ma è poco rispetto a Grozny rasa al suolo e ai Lager dove i civili ceceni vengono seviziati, violentati, barattati, uccisi. Nessun pacifista ha mai protestato contro l'ingranaggio della guerra caucasica, né ha alzato la voce contro le immani crudeltà del regime talebano o del terrore algerino. Colpevoli sono sempre e solo gli americani: gli stessi grazie ai quali migliaia di musulmani in Bosnia e Kosovo hanno potuto tornare nei villaggi da cui erano stati deportati. L'11 settembre è sicuramente un'occasione per rimeditare la nostra civiltà, e i modi non solo per difenderla ma per migliorarla. È un'occasione per l'America che si scopre vulnerabile, non più isola immunizzata e non più superpotenza. È un'occasione per l'Europa, ammutolita e impotente di fronte alle Twin Towers come lo è stata nei Balcani: è straordinario che solo l'Inghilterra, la più antieuropea dell'Unione, parli oggi il linguaggio churchilliano della resistenza al male. In questi giorni siamo in pericolo noi, ed è in pericolo l'Europa come comunità di destino. Prendere le distanze dall'America per ritrovarsi sudditi della Russia e delle sue guerre di annientamento è una strada possibile, ma letale. Il fondamentalista crede che noi non crediamo in niente, ha scritto Salman Rushdie. Non sarebbe male che i nemici della violenza smentissero, nello spazio civile che è l'Europa, quel che gli ideologi del nuovo totalitarismo pensano di noi e delle nostre decadenze. Realizzazione del sito a cura di Luciano Rosso |