Al Qaeda ha portato l'11 settembre in Europa con un duro attacco alla democrazia dell'occidente
ADESSO che la peste è arrivata tra noi, con
Al Qaeda che ha portato l'11 settembre in
Europa, trasformando un continente in bersaglio, c'è una seconda domanda che
tutti ci facciamo, dopo esserci chiesti per giorni chi è stato. È una domanda
da fine secolo disorientato, più che da inizio di un nuovo millennio: nel mondo
in cui stiamo entrando, noi chi siamo, i vincitori
tecnologici ed economici o le vittime sacrificali designate? E nello stesso
tempo, chi sono e contro cosa combattono coloro che ci
attaccano? Perché siamo diventati loro nemici noi,
l'Occidente che ha vinto, i Paesi liberi, i vecchi Stati di diritto liberali? Che cosa ci lega alla parte oscura del mondo e rovescia la
nostra civiltà in qualcosa da annientare?
A questa unica domanda siamo impreparati, come se il
Novecento ci avesse lasciati esausti. Faticosamente, proprio qui in Europa
siamo fuorusciti dalle ideologie che hanno messo a ferro e fuoco il continente
minacciando il mondo, con la convinzione di aver compiuto la storia, affermando
un modello universale, l'unico superstite dopo lo scontro con i totalitarismi.
Gli Stati democratici hanno vinto quella sfida, attraverso una guerra mondiale
e un lunghissimo dopoguerra e abbiamo pensato, alla fine, che avesse vinto la cultura della democrazia.
Che dunque si aprisse un periodo di tregua ideologica, con il
sistema complessivo chiamato a governare crisi, lotte e antagonismi interni al
modello culturale democratico, ma non costretto a difendersi da una
contestazione e una minaccia di quel modello. Invece,
com'è naturale la storia non era compiuta e l'11 settembre l'ha in ogni caso
riaperta, sfigurandola.
Ho sempre considerato, da quel giorno a
oggi, l'attacco alle Torri come un attentato non solo all'America ma alla
democrazia, in questo senso all'Occidente intero, qualcosa che ci interpellava
direttamente e ci obbligava a uscire dalla facile compassione a distanza del
"siamo tutti americani" per assumere la responsabilità di una condivisione,
in quanto "siamo tutti occidentali": e oggi capiamo perché.
La riflessione avviata allora è stata presto travolta dallo
spartiacque prepolitico, naturalmente emotivo,
rapidamente e nuovamente ideologico tra guerra e pace. Sono rimasti
sommersi e travolti, come gusci vuoti, alcuni concetti nati l'11 settembre e
lasciati senza risposta, finché la strage spagnola ce li ripropone
intatti, e soprattutto urgenti.
Ciò che sta accadendo nei nostri anni, infatti, ci dice che il secolo si apre -
se vogliamo dare un nome alla fase - con qualcosa che non avevamo previsto e
che cambia l'intero paradigma costruito dopo la caduta del Muro: l'attacco alla
democrazia. La cultura politico-istituzionale superstite
del Novecento, che credevamo pacificamente egemone, è sfidata dopo aver vinto,
e noi vediamo che il vecchio secolo non riesce a chiudersi, non riconosce il
saldo; o che il nuovo non accetta il suo lascito più importante e
riconoscibile.
Questo è il segno più evidente di ciò che sta accadendo, anzi qui sta il suo
deposito di senso, di significato, per noi che non siamo le vittime
direttamente designate questa volta per il massacro. E proprio qui sta quel
sentimento di condivisione che l'11 settembre aveva innescato,
che la guerra ha represso, e che oggi è la forma della nostra più vera
inquietudine, l'anticipo di come cambierà la nostra vita.
Lo ha scritto venerdì Sandro Viola, ci ha avvertiti:
prima ancora di sapere chi è stato, e dovunque sia successo, per qualsiasi
ragione, di fronte al terrorismo ci è ormai impedito "quando suona la
campana di pensare che essa suoni per altri e non per noi". Questo vale
naturalmente per Al Qaeda e
la sua minaccia per definizione globale, ma non è diverso ormai per gli altri
terrorismi, anche quelli nazionali.
La campana di cui parla Viola, ha suonato in Spagna per tutta l'Europa fin da
primo giorno, quando non si sapeva chi avesse firmato la strage. Nulla ormai,
neppure la comprovata autonomia dei diversi terrorismi, può impedirci di fare
sequenza dopo le due Torri con quella data vera d'inizio secolo che è l'11 settembre. Perché partendo da oggi per tornare a quel
giorno ci è più facile capire come si tratti di
episodi distinti, probabilmente separati, certamente lontani da quello che però
per noi è e deve essere un unico problema: l'attacco alla democrazia.
Ho detto che questa percezione oggi è più facile, dopo Madrid. In realtà è semplicemente inevitabile, non dipende da noi. La nostra
inquietudine nasce da un rovesciamento concettuale di
certezza, la democrazia è trasformata in nemico da abbattere. Basta
fermarsi a riflettere, ognuno di noi, per capire che la portata globale della strage di Madrid non è dovuta al numero enorme
di vittime (che di per sé segna un salto organizzativo e strategico in Europa)
ma al coinvolgimento di sistema, alla sensazione di far parte dello stesso
mondo scelto a bersaglio da un altro mondo che non consideravamo nemico, ma ci
sta braccando, negando valore - ecco la scoperta inaudita - ad ognuno dei
nostri valori più alti.
Questo coinvolgimento ci dice che muoiono gli uomini, si colpiscono gli Stati,
ma la sfida è alla democrazia, un sistema di regole e di diritti che a noi
sembrava risolto nella sua capacità di garantire la convivenza, che era comunque il portato delle nostre storie, addirittura il
superamento dei nostri errori, e faticosamente si era imposto.
La condivisione nasce dalla minaccia a questa costruzione politico-istituzionale-sociale che è insieme il
risultato di lotte e conquiste, e un sistema condiviso di garanzie. Che oggi è il vero sistema di credenze dell'Occidente, la
vera religione secolarizzata. Così si spiega come il coinvolgimento abbia funzionato ormai anche quando nelle prime ore si
pensava all'Eta.
Lo specifico spagnolo conta, naturalmente: ma quando un'altra volta dopo l'11
settembre una democrazia occidentale viene squassata
da un attacco frontale del terrorismo che la contesta nei fondamentali, noi ci
sentiamo per forza di cose coinvolti come destinatari della stessa minaccia.
C'è il timore della vulnerabilità complessiva del nostro sistema, c'è lo
stupore - soprattutto - per la scoperta improvvisa del relativismo di un valore
assoluto come la democrazia, così relativa da poter essere trasformata per
qualcuno in insegna con cui si marchia quella parte del mondo dove bisogna
portare la morte.
Non eravamo preparati, mentre compivamo la nostra storia. Vale, almeno per
metà, il vecchio precetto di Huntington: noi
occidentali abbiamo il vizio di considerare universali dei valori che i non
occidentali considerano invece semplicemente occidentali. E
questo limite dell'universalismo democratico, questo ecumenismo impossibile
della benevola egemonia superstite, vale anche qui in casa nostra, all'interno
dell'Occidente, come dimostrano i terrorismi indigeni.
Ma nello stesso tempo è vero qualcos'altro che Huntington
non aveva previsto: l'attacco ad un Paese democratico
universalizza la minaccia, rende la democrazia sistema o addirittura civiltà
comune, ci fa capire che siamo cittadini di singoli Stati, di un'Europa che non
riesce a compiersi, ma soprattutto di un'unica cultura democratica da
difendere.
Perché ritorna, a questo punto, uno dei concetti centrali
emersi dopo l'attacco alle Torri. Quando è
minacciata, la democrazia si deve difendere. Sia per non cedere il passo alla
barbarie, sia per proteggere i suoi cittadini che agli Stati democratici hanno
conferito il monopolio della forza in cambio di garanzie. A mio parere la
democrazia deve difendersi e difendere i suoi valori con ogni mezzo, anche con
il mezzo estremo e per le democrazie innaturale della guerra: e se necessario
per evitare conseguenze peggiori, persino con la contraddizione della guerra
preventiva, quando non esistano altri strumenti di
protezione.
Ma ecco il punto: per non cedere alla barbarie, la democrazia deve difendersi
restando se stessa, e dunque mai abdicando quei principi di diritto o di salvaguardia dei diritti, di rispetto delle regole e delle
istituzioni che la caratterizzano e la distinguono da altri sistemi.
La risposta politico-militare in Afghanistan all'11
settembre ha seguito questo percorso. La guerra in Iraq no.
Per questo era sbagliata, anche se ha battuto il dittatore. Mancava la
motivazione diretta della lotta al terrorismo, della risposta ad Al Qaeda, della distruzione
delle armi speciali, che non c'erano. In questo modo la democrazia ha
indebolito se stessa, si è mostrata ideologica, e non ha saputo difendersi.
Le democrazie hanno il dovere, anche nella loro risposta di difesa, di misurare
i mezzi ai fini, e anche i risultati alle motivazioni. Non possono - non devono
- costruire una giustificazione artificiale ad azioni che non si giustificano
in sé.
Ma c'è qualcosa di peggio, che non è stato denunciato abbastanza, ed è una
sorta di tradimento dei principi democratici, basati sulla fiducia tra gli
elettori e gli eletti, che sta alla base della delega
rappresentativa: le democrazie non possono - come invece è accaduto a
Washington - chiedere ai cittadini di sostenere le scelte più difficili dei
governi mistificando i dati di conoscenza, perché non è accettabile una
costruzione del consenso sulla base della menzogna, o di una verità forzata e
obbligata, come è sembrato per due interi giorni a Madrid quando il governo
parlava solo di Eta.
C'è ancora un passaggio da compiere. Se le democrazie e il loro popolo si
sentono "sistema" davanti ad una strage come quella spagnola, di
fronte a una sequenza che va dalle Torri di New York
ai treni di Madrid, devono ricordare che quel sistema esiste nella realtà, e si
chiama Occidente. È qui il deposito dei nostri valori, che non a caso viene minacciato e attaccato. Mai come oggi, quando la
Spagna è colpita dopo l'America, si dovrebbe capire - non fosse altro per
necessità - che l'Occidente è l'insieme di Europa e
Stati Uniti, ha bisogno delle due culture, che i terroristi vedono congiunte.
Come Al Qaeda è sempre più il preambolo comune dei
terrorismi tra loro distinti, che sfidano la democrazia occidentale vedendola
come una cosa sola, così la democrazia è il carattere fondamentale delle due
civiltà politiche, quella europea e quella americana. Se è così, gli Stati Uniti non possono procedere da soli
come hanno fatto per arrivare in Iraq, dividendo l'Europa per usare i singoli
Stati invece dell'insieme, interpretando l'Occidente come un sistema di delega
per la loro sovranità egemone: anche se fare i conti con l'Europa significa
fare i conti con il diritto internazionale, con la politica e non solo con la
forza, con gli organismi di garanzia e il loro sigillo di legalità.
Dall'altra parte l'Europa che oggi è il teatro dell'attacco deve sapere che se
il bersaglio è la democrazia occidentale nel suo insieme, non si può
dimenticare l'America, non si può fare da soli. La strage di Madrid, in
particolare da quando sappiamo che Al Qaeda è
l'assassino, ci dice prima di tutto che l'11 settembre non è finito, quella
vicenda non è chiusa, non può riguardare la sola America, anzi politicamente ci interpella perché aspetta una risposta, anche da noi.
Da tutti noi. E il movimento pacifista, per primo, proprio
perché ha messo in campo un valore universale come la pace mobilitando
coscienze e generazioni, ha il dovere di assumere la condanna del terrorismo
come priorità, facendo pesare la sua forza e i suoi ideali contro le bombe.
Può essere scomodo dirlo, ma è inevitabile: parlare solo di pace, oggi, non
basta più, perché la difesa della democrazia è il primo problema.
C'è dunque bisogno di più Europa, per difendere la democrazia minacciata, e c'è
bisogno di Occidente, nella libera alleanza (culturale
e politica, ben più che militare) con gli Stati Uniti. Questa è l'unica
risposta possibile alla strage di Madrid. E può essere
data nello stesso tempo in cui si giudica un grave errore la guerra in Iraq e
con la stessa convinzione con cui ci si batte per la sconfitta di George Bush alle elezioni
americane di novembre: senza alcun imbarazzo per l'opinione pubblica
democratica dei nostri Paesi, per le forze di sinistra, perché la democrazia si
difenda a testa alta rendendola anche più giusta e credibile, sapendo che deve
sempre legittimare se stessa.