Da LA STAMPA 13 gennaio 2002
Cosa sta dietro la presa di possesso della Farnesina e il tentativo di
impossessarsi politicamente della giustizia da parte di Berlusconi
"Homo novus" e valori antichi
di Barbara Spinelli
Non è la prima volta nella storia che l’Italia, con i suoi
tumulti e sussulti, sperimenta disordini e malattie che non sono ancora
condivisi dal resto del continente, ma che prefigurano disagi che il continente
potrebbe presto conoscere. La vasta crisi della diplomazia nazionale, il
perturbamento che affligge con crescente intensità la giustizia: in ambedue i
casi siamo di fronte a un marasma di istituzioni che sono cruciali per la vita
politica, ma che d’un tratto sembrano aver perduto la forza, la capacità di
auto-riformarsi, la lunghezza di respiro che consente ai grandi corpi dello
Stato di camminare con le proprie gambe. Le conseguenze sono palesi. Le
istituzioni così barcollanti diventano preda di una nuova élite governante che
non tollera la loro autonomia e i loro poteri, e che si prepara a
destrutturarle: facendo tabula rasa di vecchie tradizioni, ridimensionando
abitudini all'indipendenza di pensiero e giudizio. L’inizio del 2002 non è
avvenuto solo all'insegna dell’euro, in Italia. E’ avvenuto all'insegna di due
gesti significativi di Berlusconi, che riguardano l’Europa futura e che di fatto
mirano a restringere il suo campo d’azione. A impedire che sull'euro si
costruisca qualcosa di più politico: un’entità istituzionale votata a decidere
la politica continentale; un’area giudiziaria capace di far fronte alla
congiunzione globale fra terrorismo e mafie finanziarie; una diplomazia che
prepari questo passaggio delicato della sovranità.
Il primo gesto è stato
la presa di possesso della Farnesina: un ministero che Renato Ruggiero aveva
sottratto alle consorterie romane dei governanti, e aveva cautelativamente
ancorato a un’Europa percepita come garante non solo del progresso, ma della
missione stessa del servizio diplomatico, che è di "rappresentare la Repubblica"
in senso lato, secondo una norma del 1967. Il secondo gesto è il tentativo di
impossessarsi politicamente della giustizia: rallentandone il corso con cavilli
giuridici, rendendo vieppiù difficili i processi dei governanti nazionali,
impedendo anche qui un'autonomia che l'Europa esige e intende proteggere. "La
giustizia sono io!" - "La diplomazia italiana sono io!": ecco come Berlusconi
reagisce all’idea di edificare, accanto all’euro, una giustizia europea e una
politica estera su scala continentale. Rivelatore il commento di Berlusconi alla
relazione del procuratore generale Favara: auspicando rapporti più normali "tra
poteri dello Stato e ordine giudiziario", venerdì in tv, ha implicitamente
negato che la giustizia sia essa stessa un potere dello Stato.
Il caso
italiano costituisce un’anomalia, nell'Unione. Ecco un homo novus della politica
- per metà imprenditore per metà statista - che avendo problemi sempre più acuti
con la giustizia ha deciso di rivoluzionare istituzioni con radici antiche nello
Stato nazione, e di profittare della loro attuale debolezza per dirigerne i
pensieri, le consuetudini, le opere. Tutto questo lo chiama: nuova arte di
governo, in un mondo divenuto totalmente instabile e nella cornice di uno Stato
che perde porzioni sempre più ampie di sovranità, e le cui principali
istituzioni (non solo Banca centrale e Economia, ma anche Esteri e Giustizia)
operano ormai su due palcoscenici in contemporanea, nazionale e
sovrannazionale.
In realtà non siamo di fronte all’elaborazione di una
nuova arte di governo. Siamo di fronte a uno scomposto sforzo di dominare eventi
che solo parzialmente è anomalo e che precorre sviluppi futuri. A seguito
dell’euro e dell’11 settembre l’Europa è a un bivio: esistere politicamente e
strategicamente oppure perire. La reazione istintiva del politico che voglia
fare carriera - e in questo Berlusconi è precursore - è di correre ai ripari in
due modi: accentrando le restanti sovranità nazionali in una sola mano, e
fingendo che non esista (per la moneta ma anche per la giustizia e la
diplomazia) una nuova doppia legittimità da conquistare, nazionale ed europea.
Di fronte a quella che viene vissuta come caotica irruzione dell’ignoto, il
politico dice a se stesso, sulla falsariga di Cocteau: "Visto che questi misteri
ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori". L’arte del governo
esige nuove culture, nuove separazioni di potere tra corpi dello Stato.
Nell’impossibilità di apprenderle ci si consola chiamando arte quella che è una
manifestazione di imperizia. L’imperizia non è solo di Berlusconi. Tutta una
classe dirigente è obbligata a pensare l’imprevisto universo disordinato che
abitiamo. Tutto un establishment, e in particolare gli uomini e alleati che
circondano e consigliano Berlusconi, sono chiamati a pensare la difficile
combinazione tra rivoluzione delle istituzioni presenti e salvaguardia di quel
che del mondo di ieri ha valore duraturo: la separazione plurisecolare tra
potere politico e giudiziario, l’autonomia di giudizio e l'iniziativa
propedeutica del diplomatico classico. E’ un peccato che la riforma avvenga
sotto la guida di un uomo indebolito dal processo per corruzione di giudici che
lo vede imputato accanto a Cesare Previti. Ma la riforma-rivoluzione deve
avvenire comunque, e non meno importante è un entourage pronto a condurre
l'operazione, quale che sia il verdetto dei giudici sull'affare Sme. La
riforma-rivoluzione non è un capriccio del presidente del Consiglio. La
metamorfosi è l'orizzonte di tutti gli europei, e il modo in cui verrà
fronteggiata in Italia non è senza peso per le esperienze che faranno i paesi
fondatori come per quelle in cui dovranno sobbarcarsi - disciplinando sovranità
appena riconquistate - i candidati dell'Europa centro orientale.
E’ una
sfida che i critici di Berlusconi spesso non vedono: all’interno della sinistra,
della magistratura, della diplomazia classica. Quel che essi constatano,
infatti, è solo una parte della malattia: le mosse difensive di un premier
assediato da un processo che potrebbe concludersi presto con verdetti di
condanna, e che obbliga Berlusconi a ardue scelte: mettersi a disposizione della
giustizia oppure sottrarvisi, riconoscere l'attendibilità delle sentenze oppure
disconoscerle. Quel che non vedono è la mossa disperata di uno statista che
controbatte al costituirsi di una sovranità europea accentrando i poteri sulla
propria persona, e illudendosi che per questa via sia possibile ottenere la
quadratura del cerchio: la piena partecipazione all'impresa europea e la
contemporanea, contraddittoria salvaguardia delle prerogative nazionali; una
diplomazia sovrannazionale e la metamorfosi della Farnesina in un pool di agenti
di commercio che si limitano a promuovere il made in Italy; l’istituzione di uno
spazio giuridico europeo che accrescerà l’autonomia delle inchieste e la
necessaria riforma di un potere - quello dei magistrati - che solo la politica
può compiere.
In ambedue i settori infatti - Giustizia e Esteri -
Berlusconi disvela difettosità e arcaismi tutt’altro che immaginari. E’ vero che
la giustizia è lenta e a volte politicizzata: che urge quindi riformarla, che la
difesa è sovente mal garantita, che converrà separare la magistratura inquirente
da quella giudicante. E’ vero che la diplomazia è antiquata, che simula la
sopravvivenza di sovrani che non hanno più il peso di ieri, che spesso non sa
che fare e non sa fare. E’ la risposta del premier che dovrebbe creare
malessere, non le sue questioni: una risposta rivoluzionaria, quasi di sapore
marxista, che nella giustizia come nella diplomazia vorrebbe spazzare via
tradizioni, valori accumulati lungo secoli. Che in nome del Nuovo Mondo vorrebbe
ricominciare da zero, ignorando quel che di prezioso è contenuto nell’antico.
Quando le sinistre denunciano la regressione del premier e la manomissione della
Farnesina unitamente all'uscita dell’Italia dall’Europa; quando il
vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Verde fa
capire che l’unico metodo per salvare la giustizia è di eliminare Berlusconi
alle legislative; quando il procuratore capo di Milano Borrelli invita a
"resistere come sulla linea del Piave": vuol dire che siamo alle prese con
dichiarazioni di impotenza. Con le proprie forze, tra un’elezione e l'altra e
una guerra e l’altra, nessun organo intermedio è suscettibile di riformarsi
espellendo le cellule corrotte. Come direbbe Tocqueville: quel che incombe
minaccioso è un deserto (e una diserzione) di quei poteri intermedi detti anche
particolari potenti. Sono poteri particolari di varia natura - giuridica,
diplomatica, giornalistica - che lungi dallo scomparire, diventano ancor più
necessari in una democrazia sempre più diretta, caratterizzata dal dominio delle
maggioranze.
Da questo punto di vista le iniziative monopolizzatrici di
Berlusconi sono una nemesi, successiva a omissioni e cecità dei predecessori
nelle classi dirigenti. Renato Ruggiero ha tentato in extremis
un’europeizzazione e una professionalizzazione della Farnesina, ma la sua
vocazione europea ha intimorito la maggioranza e il lavoro è incompiuto. Sono
omissioni che ora si pagano, ma che potevano e dovevano esser corrette prima e
che possono ancor oggi esser corrette. Le istituzioni nazionali non hanno saputo
preservare i valori antichi, adattandoli tempestivamente a un Occidente mutato.
Hanno creduto che l’euro costituisse un completamento dell'unità europea, che la
storia fosse finita, e che quindi non restasse più nulla di diverso da fare,
nella giustizia, nella politica o nella strategia. Hanno pensato che
l’economismo dominasse ormai tutto, e non hanno pensato che sarebbe venuto il
momento - denunciato da Antonio Padoa Schioppa su questo giornale - in cui
economisti e imprenditori avrebbero perso interesse all’Europa, e avrebbero
addirittura intralciato l’estensione della sua unione alle istituzioni politiche
e alla giustizia.
In queste condizioni era difficilmente evitabile che
facesse apparizione l’homo novus. L’homo novus che non restaura affatto l’antico
ma inaugura una modernità patologica, in cui il politico è sostituito
dall'imprenditore, il diplomatico classico e lo stratega dal businessman, il
magistrato dalla longa manus del ministero della Giustizia, il servitore dello
Stato dall’amico-complice del sovrano dimezzato ma pur sempre
governante.
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