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Da LA STAMPA 12 gennaio 2003

I dittatori che per il momento non sono sotto tiro rialzano la testa contrariamente alla dottrina bellica del Presidente Usa

Il rilancio dei dittatori

di Barbara Spinelli

PER la nuova dottrina militare che l’amministrazione Bush presentò al mondo nel settembre del 2002, questi sono giorni perturbanti. La violenza internazionale doveva esser combattuta prima ancora del suo palese manifestarsi - tale era il significato della cosiddetta guerra preventiva - e l’offensiva contro l’Iraq avrebbe inaugurato un’epoca del tutto nuova: un’epoca più severa con alcuni Stati tiranni, meno fiduciosa nella possibilità di dissuaderli pacificamente, senza più fede nella dottrina della deterrenza che aveva caratterizzato la guerra fredda e che presupponeva un avversario minaccioso ma non irrazionale.

Ma ecco che il corso storico prende un’altra via, che non era imprevedibile ma che Bush non aveva saputo intuire, dopo l’11 settembre. Lungi dall’essere pacificato, il pianeta s’infiamma ancor più, a cominciare dall’Asia e dal suo punto più malato: la Corea del Nord che si è appena dichiarata potenza nucleare, profittando dell’assillo iracheno che occupa le menti strategiche americane. Lungi dall’essere dissuasi, come il Presidente Usa pretendeva nel momento in cui espose la sua dottrina bellica, i dittatori che per il momento non sono sotto tiro rialzano la testa, i coreani del Nord si esibiscono colmi di risentimento sui teleschermi mondiali, i loro emuli sono pronti a moltiplicarsi. La prevenzione armata di Bush doveva metterli in guardia, fermare i loro piani di riarmo, contenerli. E’ riuscita a ottenere l’esatto contrario, rendendo ancor più fervida la fantasia di chi vuol gettare l’Occidente nel panico, e magari nella morte. L’instabilità nel mondo arabo-musulmano è un’opportunità promettente secondo gli uomini di Bush, dal momento che lo status quo non ha finora prodotto né pace né democrazia in Medio Oriente.

Ma l’instabilità mondiale è un’arma a doppio taglio, come dimostra il caso coreano. A questi risultati e contraddizioni sta conducendo la dottrina sulle guerre preventive, così com’è propagandata e non ancora realizzata. In ogni caso, tale sembra essere la conclusione cui giunge chi vuol ricattare militarmente americani ed europei, prendendo spunto dalle peripezie di Saddam: per non essere a loro volta aggrediti, meglio per i despoti presenti e futuri anticipare i tempi e fabbricare subito l’arma ultima, la sola che può fermare gli americani. Chi fin da ora si dota di almeno due ordigni nucleari, sarà sicuro di non dover subire punizioni da Washington. Il primo ordigno serve per eventualmente attaccare, il secondo per minacciare di morte sicura chiunque oserà la rappresaglia. E’ l’equazione su cui si fonda l’equilibrio del terrore, che Bush credeva di aver sepolto. Le sue teorie belliche paiono screditate o comunque lesionate, prima ancora di essere attivate: in qualche modo hanno resuscitato il terrore di ieri, ma senza più equilibrio. Infatti ora la Casa Bianca deve tornare su alcuni suoi passi, il suo procedere diventa confuso, la sua disponibilità al dialogo con la Corea del Nord si fa d’un tratto palese: più l’avversario è pericoloso, più è ritenuto evidentemente razionale.

La vecchia dissuasione rientra dalla finestra dopo esser stata cacciata dalla porta, ma non c’è più trattato internazionale in grado di disciplinarla. Nel Golfo, Bush ha già mandato molte migliaia di soldati, ma il senso della sua guerra contro l’Iraq va sfrangiandosi, da quando i tiranni di Pyongyang hanno fatto apparizione sugli schermi delle nostre televisioni: nessun alleato pare disposto ad accompagnarlo incondizionatamente, se non son fornite le prove - che tuttora mancano - sull’effettiva pericolosità di Saddam, sui suoi legami con Al Qaeda, sull’eccezionalità del pericolo stesso. Perfino in America c’è chi dice che la Corea del Nord è infinitamente più pericolosa e urgente dell’Iraq: l’ex segretario di Stato Warren Christopher lo ha ricordato con parole gravi, nei giorni scorsi. In Asia sta nascendo un paese pronto a divenire il supermercato delle armi nucleari, batteriologiche, chimiche, aperto a tutti i terroristi e alle mafie che si presentino come acquirenti: la Casa Bianca non starà sbagliandosi di guerra? Ma con la Corea del Nord Bush vuol trattare, e quale che sia il disegno è l’impressione che conta, in strategia. L’impressione è che Pyongyang metta più paura di Baghdad, e che grazie a ciò si assicuri impunità, dichiarazioni concilianti, perfino favori.

Per un’America che presume di incarnare il nuovo impero romano, il colpo è inaspettatamente duro. Si parte in guerra contro il paese meno pericoloso, pretendendo che il pericolo più grande sia davvero lì; e si risparmia il regime che veramente minaccia l’ordine mondiale, come chi si limita a fischiettare nel buio, di notte, per fugare predatori o assassini. Questa non è precisamente politica: è un atteggiarsi, un agitarsi dettato dalla paura. Terrorista o canaglia che sia, l’avversario coreano - o il futuro imitatore dell’avversario nordcoreano - non può uscirne che riconfortato. L’America di Bush sa forse pre-venire, con le sue armi e i suoi soldati. Non ha saputo pre-vedere con l’intelligenza, il mondo che ha davanti. Difficile dire quale sia il dittatore più terribile: se Saddam Hussein con il suo totalitario partito Baas, oppure Kim Jong Il con il suo non meno totalitario apparato comunista. Il primo ha liquidato gli oppositori, gasato con armi chimiche interi villaggi curdi nel 1988. Il secondo ha eliminato qualsiasi dissidente, e condannato un popolo a scavare la terra e a nutrirsi di erba cotta nell’acqua. Ma la Corea del Nord ha dalla propria parte non solo la bomba, bensì potenti alleati: la Cina soprattutto, e la Russia. Due paesi con cui Washington conversa amichevolmente, e che sono giudicati essenziali alleati nella lotta globale contro il terrorismo. Due paesi che Bush ha già defalcato dall’Asse del male, perché così ordinano le regole della convenienza e dell’equilibrio nucleare.

Saddam Hussein non sta attualmente sterminando popoli, come Putin in Cecenia. Non è padrone potenziale dell’Asia, come la Cina cui potrebbe esser affidato il contenimento della Corea del Nord. Il rais rappresenta un pericolo per la regione, ma per il momento e fino a prova contraria non è in grado di ricattare il mondo: e tuttavia, viene paradossalmente descritto come più letale di chi il mondo lo minaccia sul serio, e ora. Chi il mondo lo minaccia sul serio può addirittura sperare di diventarci amico: queste sembrano essere le conseguenze perverse della dottrina militare preventiva, grazie alla quale Bush si riprometteva di migliorare il mondo sia pure alla fine di una guerra molto lunga. Forse questo è già il secolo asiatico, come alcuni sostengono. Forse è dalla Cina che dipendono oggi le nostre forniture petrolifere, la nostra stessa sicurezza: Pechino ci proteggerebbe dalla Corea del Nord, e in cambio Washington collaborerebbe nel Golfo con il regime russo e cinese. Questo mondo instabile e violento non è tuttavia solo un problema statunitense, come spesso mostrano di credere gli europei. Non è il male americano che piaga l’Europa, e non è dunque contro l’America che l’Europa si costruirà.

La minaccia viene dal disordine del mondo e dai suoi dittatori, viene dal terrorismo contro il quale sarà necessario inventare una politica, un perfezionato ordinamento giuridico mondiale, un operare più efficace delle organizzazioni internazionali, delle polizie, delle magistrature transnazionali. Proprio in queste ore, i servizi britannici parlano di imminenti aggressioni chimiche o batteriologiche contro un paese europeo: l’America non è l’unico bersaglio dei terroristi globali. E’ contro queste possibili avversità che l’Europa sarà chiamata a mobilitarsi. Forse ha ragione chi sostiene che la guerra contro l’Iraq non è necessaria: è il caso di John Mearsheimer e Stephen Walt, secondo i quali Saddam è più razionale e dissuadibile di quanto dica Washington (Foreign Policy, gennaio 2003). Ma la pace cui gli europei dicono di aspirare non può ridursi semplicemente a un’assenza di guerre in Iraq. La pace va pensata, costruita, organizzata con la stessa tenacia intransigente con cui si organizzano le guerre. Anche per essa si pagano prezzi.

Le risposte dell’amministrazione Bush possono esser sbagliate, ma le sue domande sono anche le nostre: come creare un equilibrio fra diritto all’ingerenza, diritti dell’uomo, e dissuasione. Come indurre i tiranni all’autodisciplina, al rispetto di alcune leggi internazionali di controllo degli armamenti. Come fare in modo che l’Onu tratti i problemi piuttosto che evitarli, e faccia rispettare le sue risoluzioni sistematicamente violate. Anche l’Unione europea sarà forte e unita solo a queste condizioni: che affronti insidie e burrasche senza proporsi ogni volta di aggirarle, nascondendosi dietro l’America. Che smetta di "denunciare in privato quel che poi accetta in pubblico" (è l’accusa, giustissima, che ci rivolge Robert Malley, collaboratore di Clinton nei negoziati medio-orientali). Che si prepari a esser presente in quanto tale nel direttorio del Consiglio di sicurezza Onu, e non più affidandosi solo alle voci discordanti di Francia e Inghilterra. Che impari a fabbricare la pace, e non a declamarla o rivendicarla soltanto.




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