Da LA STAMPA 11 maggio 2003
Come in Afghanistan o in Iraq, nel nostro Paese siamo al grado zero della cultura politica
L'ABC della democrazia
di Barbara Spinelli
COMINCIANO a fare una certa impressione, i terremoti che il
presidente Ciampi provoca ormai sistematicamente con gli appelli contenuti nei
suoi discorsi o nelle sue risposte ai giornalisti. Sono appelli a principi
fondamentali del convivere civile, che in una democrazia sviluppata vanno
generalmente da sé. I Capi di Stato o i monarchi li evocano di tanto in tanto
perché così ordinano la tradizione, l’etichetta, e il prestigio connesso alla
natura morale del loro magistero. In alcuni momenti difficili questi appelli si
fanno più intensi, ma i momenti sono scelti con sobria sapienza e senso del
risparmio verbale.
Invece in Italia è oggi tutto diverso: ogni giorno,
ogni ora il Capo dello Stato è chiamato a recitare il decalogo che fonda la
democrazia, come se si trovasse di fronte a edifici in rovina. Deve ricordare a
tutti che "in democrazia è indispensabile il rispetto reciproco", che "la
collaborazione non esclude ma richiede un dibattito forte e schietto", che
stampa e televisione devono essere libere di criticare, che i giudici
obbediscono solo alla legge. E ancora: che le contrapposizioni sono lecite ma
non devono superare il limite del rispetto dovuto alle "opinioni altrui: anche
le opinioni diverse, profondamente diverse dalle nostre". Che le opposizioni e
minoranze devono avere un ruolo riconosciuto, e uno statuto. Queste cose, in una
democrazia sviluppata, fanno parte degli esordi: sono lo strato primitivo della
sua geologia. Sono spiegate nelle sue scuole elementari, nei suoi giardini di
infanzia. Non si rompe il giocattolo del vicino perché è più bello. Non si sputa
né sul compagno né sulla maestra né sul bidello. Non si ruba e non si traduce
l’invidia in odio. Imparate una volta, queste regole diventano leggi che si
conoscono a memoria. Ciampi non ha dunque torto, quando al giornalista
accalorato replica: "Ma quale terremoto? Io cerco solo di portare un po’ di
tranquillità".
Eppure ogni volta è scossa tellurica, quando il Presidente
evoca le norme imprescindibili della disputa politica, e prima o poi verrà il
momento di domandarsi perché. Perché questa singolare sensazione di trovarsi in
un paese dove tutto ogni volta deve ricominciare da zero, come nelle nazioni
appena uscite da guerre, carestie o dispotismi. Un paese che non vive nella sua
tangibile realtà e nella sua storia effettiva, ma nel "come se". Come se
fosse una dittatura, come se la Costituzione dovesse essere redatta per
la prima volta dopo decenni di regime, come se le sue istituzioni
giacessero, a pezzi, sotto bombardamenti. Di questi tempi abbiamo sentito
parlare spesso di paesi simili: sono paesi come l’Iraq o la Russia, nei quali
occorre ricostruire non solo la nazione e lo Stato ma la rule of law,
l’imperio della legge. Nel linguaggio degli specialisti quest’opera di
civilizzazione si chiama nation-building, riedificazione della nazione:
in Italia siamo ancora a questo livello. Stiamo facendo nation-building,
non diversamente dall’Iraq, e come il Presidente Karzai in Afghanistan Ciampi
deve intervenire ogni giorno, per mettere pace tra i clan ed evitare che la
società politica torni alla guerra permanente che caratterizza il primevo stato
di natura.
Tra le varie ragioni di questo primitivismo politico, e del
suo abnorme dilatarsi odierno, vorremmo citarne solo due. Primo: l’assenza o la
carenza di un controllo sociale che selezioni e vagli in modo continuo i
comportamenti: nel mondo delle istituzioni come in quello economico e
scientifico. Un homo novus della politica come Berlusconi ha potuto compiere la
sua ascesa senza che fossero prima vagliati la sua correttezza, il suo passato
di cittadino e imprenditore, la sua effettiva indipendenza. Il processo contro
la presunta sua corruzione dei giudici, risalente ai tempi in cui non era un
politico ma un privato cittadino, avrebbe dovuto svolgersi prima che accedesse
alle massime cariche dello Stato e non dopo, come si è unanimemente accettato
che avvenisse. Lo stesso si può dire per l’esame critico del conflitto
d’interessi.
Mancato all’inizio, il controllo sociale occorre adesso
esercitarlo in vivo. L’intero ceto politico - e non solo il Quirinale - è
chiamato a riportare ordine nel rapporto fra legge e cosa pubblica: sono
chiamati gli oppositori ma anche gli alleati riformisti di Berlusconi, la
stampa, la televisione. Altrimenti si accetta che la democrazia venga corrotta
da dentro, sia riportata al grado zero, e si avalla la norma secondo cui un uomo
privato può usarla piuttosto che servirla, una volta abbattute le prime barriere
del controllo sociale e ottenuta l’acclamazione delle urne.
Quando
Berlusconi si scaglia contro i giudici e li definisce golpisti e criminali, o
quando accusa la stampa di tendergli "agguati", egli fa propria una concezione
della democrazia che non conviene a nessuno, neppure a lui: se consiste solo nel
verdetto degli elettori - verdetto che prevale su ogni altra cosa, compresi
tribunali e imperio della legge - la democrazia può divenire facilmente
dittatura della maggioranza. Qualsiasi controllo è inviso, tra due scadenze
elettorali, se mette in causa quel primitivo verdetto di cui non si vuol vedere
l’insufficienza. In particolare, sono invisi i controlli che più impauriscono i
governi autoritari: la magistratura e l’informazione. La giustizia e il
pluralismo d’opinione non sono più valori esterni al potere contingente, che
perdurano anche quando i governi cambiano: sono oggetti di rissa politica,
dunque sono valori mutevoli, sporadici, e mercanteggiabili.
La seconda
ragione è la tendenza, vigorosa in Italia, alla smemoratezza politica. Qui si
dimentica, ogni mattina, quel che si è detto la sera prima. Qui il logos
comincia ogni giorno da capo, senza rapporto con la realtà e la storia ma con un
rapporto tanto più forte con le convenienze del momento. Anche questo è
caratteristico del nation-building successivo alle guerre o alle
tirannidi.
Nei giorni scorsi, ad esempio, si è parlato molto di immunità
per le cariche dello Stato o i parlamentari. Si è parlato dei danni inferti da
Mani Pulite negli anni Novanta, degli eccessi di una parte della magistratura e
dell’uso che la sinistra ha fatto di Tangentopoli. Si è parlato assai di meno di
come la destra formatasi attorno a Berlusconi preparò oltre dieci anni fa il
terreno per la rivoluzione giudiziaria italiana, di come la Lega e Alleanza
Nazionale si trovarono allora ad attaccare, con virulenza estrema, chiunque
criticasse il pool di Milano o consigliasse il ritorno alla protezione
immunitaria delle cariche dello Stato.
C’è qualcosa di indecente, in
quest’oblio sistematico di sé e di quel che si è detto pochi mesi o anni prima.
Qualcosa che corrompe le menti di un’intera classe dirigente (politici e
imprenditori, giornalisti e studiosi). Qui in Italia non si riscrivono solo la
storia e le colpe passate. Qui si riscrive sfacciatamente la storia nel momento
stesso in cui essa si fa. I moderati di destra, le persone indipendenti nel
governo e nel parlamento non possono a lungo mortificarsi, in questo degrado del
senso della verità. Se vogliono avere attorno a sé cittadini non primitivi,
dovranno ritrovare un loro rapporto civile con la giustizia, la storia e la
stessa verità.
Il male che affligge l’Italia non è solo la corruzione
sanzionabile nelle aule giudiziarie. E’ la corruzione dei cervelli, è il guasto
arrecato alla facoltà di ragionare, giudicare, ricordare. Magistrati e
giornalisti non osano più parlare a chiare lettere, e lasciano questo compito ai
giornali stranieri. All’Economist che giudica Berlusconi inadatto a
guidare la presidenza dell’Unione Europa. Alla Frankfurter Allgemeine,
che paragona la paura suscitata nei nostri governanti da magistratura e stampa
alla paura provata dai dittatori. La corruzione dell’intelligenza e la
primitivizzazione della politica conducono a guasti che sono poi difficili da
sanare: al tumulto disordinato, o a un’obbedienza cieca verso il capo che
svaluta la virtù stessa dell’obbedire e servire. I tedeschi danno a questa falsa
docilità il nome di vorauseilende Gehorsamkeit: l’obbedienza che si
affretta a precedere l’immaginato ordine del capo. La nostra televisione
pubblica già si affretta - più ancora di quella posseduta in prima persona da
Berlusconi - offrendo impropriamente la propria arena a imputati politici alle
prese con la giustizia ordinaria: a Previti prima e a Berlusconi poi,
rispettivamente a Porta a Porta e a Excalibur.
La
democrazia è in pericolo quando l’autocensura interviene prima ancora della
censura. Quando è costretta ad accordarsi intorno a leggi dell’immunità che si
rivelano necessarie per proteggere molto più le maggioranze che le minoranze.
Quando le maggioranze fingono di essere opposizioni, e i regimi si difendono
dall’accusa di prepotenza lamentandosi di essere essi stessi vittime di un
regime. Tutti noi - cittadini e giornalisti, politici e magistrati italiani -
siamo a questo grado zero della cultura politica. Ed è difficile non provare una
certa vergogna, quando Ciampi ci ricorda l’abbiccì della civiltà e ci tratta, di
fatto, non già come adulti ma come scolari di un ineducabile, screanzato,
vociferante giardino d’infanzia.
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