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Da LA STAMPA 10 febbraio 2002

Washington e i diritti violati a Guantanamo

La maledizione della vittoria

di Barbara Spinelli

Alla fine di ogni guerra ci sono momenti in cui la maledizione sembra incombere non tanto sui vinti, quanto sui vincitori. Questo accade anche nelle guerre che in origine furono necessarie, giuste, comunque ineludibili. Sono i vincitori a portare il fardello di una responsabilità particolarmente pesante: quella di onorare il buon esito del combattimento ma al tempo stesso di risparmiare i vinti, come ricordava Virgilio alla Roma di Augusto: "Queste saranno le tue arti: imporre le norme alla pace, risparmiare i sottomessi, debellare i superbi".

Sono i vincitori a dover compiere la maggiore fatica, che è quella di limitare se stessi. Il peccato di dismisura li incalza assai più di quanto incalzi il vinto, ed è il motivo per cui il risultato veritiero d’un conflitto si misura ben dopo lo scontro armato, nel tempo di pace. E’ quello che sperimentano gli Stati Uniti, al termine della battaglia afghana e alla vigilia dei futuri, ancora incerti combattimenti contro il terrorismo. Per la maniera in cui stanno gestendo il successo militare, e trattando gli sconfitti che hanno preso prigionieri, rischiano di perdere la vittoria che hanno conseguito, almeno nella prima fase del conflitto.

Per quasi tre mesi George W. Bush ha tergiversato, prima di riconoscere che il diritto internazionale contiene leggi che anche il vincitore, e soprattutto il vincitore democratico, deve rispettare. Ha mostrato disprezzo per la Convenzione di Ginevra, che regola i diritti dei prigionieri di guerra e dunque i doveri della potenza trionfatrice. Ha trascurato la costituzione americana, che non contempla tribunali speciali dipendenti dal potere esecutivo. Le decisioni presidenziali non erano del tutto astruse, perché il moderno combattente terrorista non può esser considerato un militare classico, e neppure un partigiano che combatte - vestito da civile - per la liberazione di un territorio circoscritto.

E’ un combattente fuori-legge, è vero, ma proprio per questo l'Occidente liberale ha deciso di sgominarlo. Ha deciso di contrastarlo in nome del rule of law, dello stato di diritto, e suo obiettivo è dunque di riportarlo nel nostro ambito, che è quello dove regna appunto la legge e non l'arbitrio. Giovedì Bush è corso ai ripari, accettando infine che un certo numero di detenuti (i talebani al servizio di Kabul, non ancora i combattenti di Al Qaeda) siano trattati come prigionieri di guerra. Ma parte del danno era stato già fatto, e la leadership Usa deve risalire una difficile china. Già erano circolate nel mondo le immagini che ritraggono i prigionieri vestiti di arancione nelle gabbie della carcere di Guantánamo a Cuba: raggomitolati e umiliati in gabbie come fossero animali da zoo, non uomini.

Già si sapeva quello che Bush pensa del diritto internazionale: che va sospeso, in situazioni di emergenza, così come va sospeso l'antico costume dell’habeas corpus. Che esistono crimini a tal punto efferati - come l'attentato dell’11 settembre - da non lasciar più spazio al regno della legge, al giusto processo, ai diritti-doveri garantiti dalle costituzioni democratiche. Un primo sospetto già si era avuto quando venne sedata la sommossa dei prigionieri a Mazar-e Sharif: tra i cadaveri, erano visibili quelli di combattenti massacrati malgrado avessero le mani legate.

Le immagini di Guantánamo Bay hanno accentuato quell’iniziale oltraggio ai diritti umani. E’ così avvenuto che d’un sol colpo, la potenza guida dell’Occidente rischiasse la più acuta delle sconfitte, e la più ominosa in vista degli scontri a venire: non quella sofferta sul teatro bellico, ma quella subita nella battaglia delle idee, delle convinzioni, della civiltà giuridica. D’un sol colpo non si sapeva più il perché della vasta coalizione militare contro il terrore, né la natura di una guerra che vede America ed Europa schierate a fianco di paesi come la Russia, la Cina, l’Arabia Saudita: paesi che solo in apparenza condividono gli obiettivi delle potenze occidentali, e che in realtà profittano del conflitto così come le dittature fascistoidi profittavano, in guerra fredda, della vasta coalizione formatasi per fronteggiare l’impero sovietico.

Da un giorno all'altro l’egemonia culturale sulla guerra antiterrorista cambiava campo, e di conseguenza fisionomia. Non erano i paesi con tradizioni giuridiche liberali a determinare il corso degli eventi, ma le nazioni che queste tradizioni mostravano di disonorarle. Il modello bellico non era più l’offensiva occidentale contro la violazione dei diritti in Bosnia o Kosovo, ma la guerra che Putin conduce in Cecenia o che i dirigenti cinesi o uzbeki conducono contro i dissidenti musulmani. Una guerra che non ha come bersaglio il terrorismo, ma interi popoli.

Una guerra che trascura il diritto internazionale, e ogni legge di guerra, e la Convenzione di Ginevra che impone di trattare con umanità prigionieri o miliziani, distinguendo i militari dai civili. E’ il rischio che America e Occidente corrono ancor oggi, a conclusione del contrattacco in Afghanistan e alla vigilia di altri combattimenti, militari e non. La minaccia terrorista è stata percepita in maniera appropriata - come una minaccia globale, come un'offensiva che la violenza integralista lancia non tanto per conquistare territori ma per piegare le menti, non tanto a partire da un territorio ma a partire dal mondo - ma poi questa nozione globale del diritto violato è stata persa per strada.

D’improvviso, la nozione che valeva per l'insulto dell’11 settembre non valeva più per l'Occidente. D’improvviso, si dimenticava che gli occhi del mondo intero sono aperti non soltanto sul terrorismo, ma sui nostri metodi per difenderci da esso. In origine si era risposto militarmente in nome di una civiltà giuridica, ma appena tornati a casa si indossava la stessa veste illiberale, lo stesso costume fuori-legge, degli Stati-canaglia che ci si era accinti a sconfiggere. Un’epoca sembrava chiudersi miseramente: l’epoca che aveva inaugurato nuove guerre umanitarie, intraprese in nome dei diritti della persona durante i conflitti razziali nei Balcani o a Timor Est.

Per una decina d’anni si era scommesso su quello che Kant chiama il diritto cosmopolitico. Si era toccato con mano la verità cruciale che il filosofo aveva già nel Settecento rivelato: "La violazione del diritto in un solo punto della terra è avvertita in tutti i punti". Questa verità oggi si attenua sino a svanire, non nelle coscienze dei popoli ma nei loro governanti. Si attenua in primo luogo negli Stati Uniti, e con effetti deleteri perché la difesa dei diritti ha bisogno ancor oggi di loro, anche se può esistere senza di loro. Perché gli europei sono più attenti agli errori, ma per agire necessitano sempre dell’oltre Atlantico.

La legittimità di quest'ultimo è stata lesa dal massacro di Mazar-e Sharif o da Guantánamo Bay, dalle discussioni sulla liceità della tortura o dal rifiuto di trattare allo stesso modo detenuti connazionali e stranieri. È come se i dirigenti Usa non vedessero le responsabilità mondiali che hanno, pur comportandosi imperialmente; come se non intuissero la natura della guerra in cui hanno deciso di impegnarsi accampando i diritti d’una civiltà. Come se non avessero studiato il nemico e le sue ostilità. Quel che si perde per strada, per le democrazie liberali, è la credibilità di una civilizzazione, e dei combattimenti in cui essa s'ingaggia.

Se si parte in battaglia per erodere i principi stessi delle nostre costituzioni democratiche e per affossare ogni progetto di diritto umanitario internazionale, qual è il fine autentico del nostro combattere? E perché si combatte, quando si mima il nemico che ci si ripromette di debellare o riportare a ragione? Il declino delle guerre umanitarie nuoce grandemente alle campagne per i diritti dell'uomo. Li rende obsoleti, li esclude durevolmente dalle relazioni internazionali. Conferisce forza sproporzionata a chi più gravemente li offende: nelle guerre in Cecenia o in Cina, nella politica in Uzbekistan, Arabia Saudita o Sudan.

Ma soprattutto, ignora l’essenza degli scontri odierni fra Occidente liberale e bellicismo antioccidentale. Scontri che non si riducono al conflitto fra due schieramenti - Occidente contro Islam, Nord contro Sud - e neppure a uno scontro puramente economico fra poveri e ricchi. L’Occidente è implicato in una seconda guerra, non meno cruenta anche se meno visibile: una vera e propria guerra civile planetaria, che uomini come Bin Laden combattono usando l'Occidente ma per una loro battaglia di potere dentro la comunità globale musulmana, dentro l’Arabia Saudita, l’Asia centrale, il Medio Oriente, il Sud-Est asiatico.

Gli occhi che osservano con soddisfazione i dibattiti americani sulla tortura, o che constatano il disprezzo di Bush per le convenzioni internazionali, accumulano punti in un regolamento dei conti non solo globale ma anche locale, che ha come posta in gioco il potere prima ancora della distribuzione delle ricchezze. Le immagini di Guantánamo o di Mazar-e Sharif non recano danno a Bin Laden. Recano nocumento a chi nel mondo non-occidentale vuol resistere alle sue guerre, ai suoi crimini, al suo uso della ricchezza, alle sue false ideologie emancipatorie.

La stessa guerra occidentale esce a pezzi, da simili prove. Orfana di obiettivi chiari e di chiari vocabolari, essa si confonde e confonde le menti. Il popolo americano continua a far quadrato attorno a Bush, e alle sue parole contro l’Asse del male. Ma dietro questi trionfalismi domestici c'è un Presidente smarrito, che ostenta crudeltà verso i prigionieri di Guantánamo per occultare una guerra che non sa più bene come spiegare, come fare, neppure come chiamare.

E’ una guerra, ma i combattenti catturati non sono prigionieri di guerra bensì criminali, come se il conflitto non fosse che un'operazione di polizia. E’ un’operazione di polizia mondiale, e però gli Usa hanno fortemente voluto denominarla guerra. A forza di contraddirsi e ingarbugliarsi, l’Occidente rischia di perdere molto più di quel che guadagni: di perdere non solo la vittoria, ma se stesso. Di condurci tutti non al diritto cosmopolitico, ma allo stato di natura descritto da Hobbes: lo stato che precede ogni contratto sociale, e che riserva agli abitanti della terra una "vita solitaria, povera, malvagia, brutale, e corta".




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