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LA STAMPA 9 ottobre 2001

L'eremita del terrore

di Barbara Spinelli

È ora di guardare in faccia il male che l’America e l’Occidente hanno deciso di combattere. Ha il volto ieratico e terribilmente convinto di Bin Laden, parla della morte con la disinvoltura di un martire, è seduto sulla nuda terra e vive come antichi eremiti che sprezzano le cose di questo mondo e non hanno bisogno di nulla: milioni di telespettatori l’hanno visto domenica sera accamparsi sugli schermi, e aveva il volto della nemesi feroce ma tranquilla, colma di risentimento ma sovrana.

Il nuovo terrorista globale è sereno, distaccato, mentre annuncia la punizione divina che sotto la sua guida si abbatterà immancabilmente sulla nostra civiltà, sulle esistenze di ciascuno. E proprio qui è la radice della singolare forza emanante dall’immagine vista in televisione: nell’ideologia di morte che permea il suo conciso messaggio al mondo. La guerra mondiale dichiarata dal terrorista è inedita ma le democrazie liberali hanno già ascoltato parole simili. Tutti i totalitari hanno sognato l’annientamento del mondo moderno, tenacemente aborrito: per provare la morte di Dio o la sua esistenza, a seconda delle convinzioni messianiche. Hanno sognato di disfare le civiltà fondate sul diritto, sul rispetto della vita e dell’altro.

Nell’ottobre 1936, in piena guerra civile spagnola, il generale franchista Millàn Astray aveva anticipato i moderni integralisti, nel corso di una conferenza sulla razza all’università di Salamanca "Abbasso l’intelligenza! Viva la morte!". Era stato applaudito da entusiasti commilitoni e un uomo soltanto si ribellò. Il filosofo Miguel de Unamuno, rettore dell’università, si dichiarò inorridito dallo slogan e denunciò il "grido necrofilo". Era un grido contro natura e tuttavia possedeva una straordinaria forza: la forza bruta della necrofilia. Viva la muerte torna a essere motivo ricorrente, nell’odierno nichilismo terrorista e nelle sue guerre contro la cultura d’occidente. Eppure bisogna guardare in faccia l’eremita del terrore, e tentare di capire il linguaggio che adopera, la comunicazione che predilige, la coreografia che compone per mettersi in risalto.

E’ il linguaggio della massima semplificazione, che sempre anima l’apocalittico manicheismo religioso. Da una parte le forze del male, la terra fabbricata e manipolata dall’uomo che opera in nome del malvagio demiurgo che è Satana. Dall’altra la piccola schiera di eletti, stranieri in questo mondo: che vivono in rapporto diretto con Dio, che ne sono un scintillante frammento e che dalla disperazione escono tramite il crimine.

Da una parte George Bush, che si rivolge al mondo avendo come scenario la vita quotidiana di una cittadina americana. Dall’altra Bin Laden che sceglie come sfondo le grigie gole e la roccia delle montagne desertiche. Non c’è un filo d’erba, una traccia di vita. Unica visibile: la parete pietrosa di una terra senza storia, senza nome, e davanti alla pietra il cavaliere delle grotte, la kalashnikov al fianco sinistro e alcuni aiutanti accovacciati per terra come lui. Precisamente questo Bin Laden vuole essere: l’estraneità assoluta, alla civilizzazione che manipola la natura e fabbrica città.

Il portavoce di tutti i poveri, i derelitti del mondo. Immane è la licenza, che il capo terrorista si arroga e che nessuno gli ha concesso. I poveri autentici non hanno nulla in comune con lui, né hanno nulla da guadagnare dalle sue distruzioni. Bin Laden si offende, servendosene per affermare la sua granitica volontà di morte. L’unica concessione che fa al mondo urbano della comunicazione e dello scambio è il microfono e il vistoso orologio da polso che esibisce di fronte alle telecamere di
Al Jazeera, la rete araba situata nel Qatar. Il microfono lo tiene in mano come se scottasse, impugnandolo con sprezzante ritrosia. Dopo averlo adoperato lo poggia subito per terra, quasi volesse disfarsi anche di quest’ultimo orpello terreno. L’orologio, il microfono: tanto basta per chi pretende di esser padrone del tempo e del verbo.

Bin Laden si presenta come uomo del tutto liberato da servitù terrestri: non conosce regno della necessità ma solo della libertà. E soprattutto usa un pronome magico, che da sempre trascina le folle: il pronome Noi, contrapposto a un Loro esecrato. Noi siamo la massa di oppressi, noi le vittime delle ipocrisie di ricchi infedeli. Anche quando parla della propria "nazione", il capo terrorista presta un’unità inesistente a una vasta e eterogenea umanità. In effetti si propone di abbattere uno Stato - quello saudita - ma per riuscire l’operazione si rifà all’Umma, alla "nazione-casa" dell’Islam. Il "noi" che pronuncia include un miliardo circa di uomini.

Un altro ingrediente dell’ideologia di morte è il senso di umiliazione da cui discendono i veleni del risentimento, dell’odio. Umiliazione della gente comune, perché Bin Laden non parla di questo o quello Stato. Umiliazione di un gran numero di popoli, che la potenza americana avrebbe fin qui negletto, sfruttato, o ingiustamente punito. Il terrorista globale ne fa anche l’elenco: è la popolazione civile irachena colpita dalle sanzioni; sono i fratelli della Palestina e del Libano maltrattati dal governo israeliano; sono i civili morti nella guerra del Golfo e i giapponesi sacrificati a Hiroshima.

L’accusa ricorrente è quella di ipocrisia. L’Occidente si indigna per i morti nelle Twin Towers, ma dov’è lo sdegno, quando i morti abitano lontano e o sono causati dal loro intervenzionismo? A simili proposizioni non basta rispondere con le armi o gli aiuti umanitari, anche se è giusto rispondere con le une e gli altri in contemporanea. E’ l’uso della parole giusta che l’Occidente dovrà ritrovare, se vuole vincere questa battaglia che è anche per la riconquista delle menti, della calma interiore.

Quella di Bin Laden è un’operazione di propaganda classica, e ad essa converrà rispondere con una propaganda egualmente intensa, concisa. Giacché gli interlocutori del terrorista globale non sono solo popoli lontani e non è solo l’Islam. Sono i milioni di immigrati che abitano le periferie cittadine d’occidente, e sono i rappresentanti della nostra stessa civiltà: i più impauriti, o i non violenti, o i pacifisti.

Non bisogna dimenticare che Toni Negri ha approvato l’attentato dell’11 settembre, dispiacendosi che come bersaglio fossero state selezionate le due Torri anziché il Pentagono e la Casa Bianca. E ha parlato di una "guerra fra i talibani del petrolio e i talibani del dollaro" (intervista a Le Monde, 4-10-2001). La propaganda nichilista che si trincera dietro la sofferenza dei derelitti dice sempre una parte di verità, e anche per questo occorre rispondere con argomenti stringenti, in modo da non lasciare a Bin Laden il monopolio della serenità di coscienza e della rivolta contro le ingiustizie. Lo si può fare in vari modi, ma due cose potrebbero esser dette con nettezza. Primo: l’attentato contro le Torri e il Pentagono non ha nulla a che vedere con le guerre cui fa accenno Bin Laden, o con le sofferenze causate da quelle guerre.

Gli si è dato il nome di nuova guerra perché la sua natura è radicalmente diversa da un’azione bellica tradizionale. Esso nasce dalla volontà di distruggere una civiltà e un modo di essere cittadino, non questo o quel governo. E’ la fredda decisione di trasformare due grattaceli in una gigantesca a camera a gas, dove gli uomini periscono fino a non esser più riconosciuti e finiscono in fumo di morte. È l’irruzione di Auschwitz nel cuore di Manhattan, e la morte di settemila civili non è un danno collaterale ma l’obiettivo stesso dell’operazione militare.

Secondo punto: Bin Laden parla dell’umiliazione inflitta all’Islam in occasione della guerra contro l’Iraq o l’Afghanistan ma non ha una sola parola per i musulmani della Bosnia e del Kosovo che l’Occidente ha soccorso, né per i musulmani che il regime russo sta sterminando in Cecenia. Le sue accuse sono dunque stranamente mutile, e questo rivela quanto la sua difesa dell’Islam sia invece un tradimento. Il suo nemico esistenziale è l’America - un’America che non è responsabile dell’ecatombe di musulmani nei Balcani o nel Caucaso, né del milione di morti della guerra iracheno-iraniana - e Bin Laden stesso diventa maestro di malafede e ipocrisia. Lo diventerà ancora di più, e sarà più facilmente smascherato, se l’Occidente non dimenticherà anch’esso la sorte dei musulmani minacciati di morte e deportazioni.

Tutto questo non significa dunque che l’Occidente possa stare a guardare, con la mente e i discorsi. Dovrà trovare le parole giuste, e tentare di convincere i popoli derelitti, le sinistre impaurite, gli immigrati delle periferie urbane. Dovrà dimostrare che esiste una differenza di sostanza fra la sua controffensiva e una guerra terrorista che sistematicamente si prefigge la diffusione del panico fra i civili. Dovrà aiutare i popoli a ricostruirsi, all’indomani di offensive e controffensive. Dopo la guerra contro Hitler, questa fu la grandezza della politica americana. Toccò allora ricostruire economicamente l’Europa, insegnare di nuovo ai suoi popoli l’Abc della democrazia, tornare a scommettere sull’intelligenza e il ravvedimento di nazioni colpevoli di grandi delitti. Solo a queste condizioni è possibile vincere la tranquilla sicurezza del guerriero delle caverne, che sorseggia tè meditando la morte di Dio e dell’umanità.




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