Da LA STAMPA 9 febbraio 2003
Il sovrano si arroga diritti eccezionali per far fronte a circostanze eccezionali, e di conseguenza non riconosce autorità superiori
Il leviatano americano
di Barbara Spinelli
NON è cosa facile, per lo storico del presente, capire i motivi
che spingono l’attuale amministrazione americana a spostare su territorio
iracheno la guerra antiterrorista iniziata subito dopo l’11 settembre 2001. Per
alcuni è l’attentato stesso contro le Due Torri, a spiegare l’accanimento degli
Stati Uniti: profondamente turbata, la psiche nazionale non tollererebbe
l’inedita vulnerabilità dell’America.
Per altri la molla è da ricercare
nel petrolio, e la guerra contro l’Iraq non sarebbe che l’anello di una lunga
collana di eventi, iniziati nel 1973 con l’aumento dei prezzi decretato dai
paesi arabi del Golfo: è da allora, infatti, che il controllo politico di questa
zona del mondo occupa le menti degli strateghi occidentali e provoca conflitti
di vario genere, militari e non. Per altri ancora, infine, la guerra contro
l’Iraq è parte di una più vasta offensiva americana, che non ha soltanto il
petrolio al suo centro e che punta a rivoluzionare l’idea stessa su cui si è
fondata la diplomazia occidentale nella seconda metà del
Novecento.
L’obiettivo della potenza americana non sarebbe più la
stabilità che caratterizzò gli anni della guerra fredda, ma la destabilizzazione
creativa dei regimi come delle dittature. Non sarebbe lo status quo e la
distensione, bensì il confronto bellico e il sovvertimento di quella che viene
percepita come quiete, ed è invece sterile immobilità. Obiettivo finale sarebbe
la democratizzazione degli Stati arabi, e dell’influenza che essi esercitano
sull’Islam mondiale.
Altre guerre in un passato recente vennero condotte
per proteggere popoli perseguitati e in fuga, per evitare occupazioni illegali
di nazioni vicine, per disarmare campi di addestramento terrorista: tale fu il
caso del Kosovo, dell’invasione irachena del Kuwait, dell’offensiva contro i
talebani in Afghanistan. Questa, se si combatterà, sarà una guerra per creare
qualcosa di assolutamente nuovo nella storia araba contemporanea: una
democrazia.
E’ probabile che una parte di questo ragionamento sia
sensata, ed è un peccato che le nazioni europee perdano tanto tempo a dividersi
attorno ad antiamericanismo e filoamericanismo, invece di formulare proprie idee
e suggerimenti sulle malattie che Washington pretende di curare. Il mondo
arabo-musulmano ha in effetti proprio bisogno di questo, se vuole decollare
economicamente e divenire responsabile del proprio destino.
Ha bisogno
di una vera e propria sovversione dello status quo, intesa come sconvolgimento
di abitudini, di inattività mentali, di false certezze storiche, di ingannevoli
narrazioni mitologiche nazionali o pseudo-religiose. La stabilità delle
monarchie arabe è un macroscopico inganno, che ha finito col produrre
disuguaglianze, persecuzioni, infine terrorismo. Lo status quo non ha generato
né pace né ricostruzioni ma sclerosi, regressioni, e quello che Bernard Lewis
chiama il suicidio dell’Islam.
E’ quello che sostengono molti arabi
illuminati, soprattutto dopo l’attentato dell’11 settembre, e in primo luogo gli
intellettuali e studiosi che hanno redatto il rapporto dell’Onu sullo "Sviluppo
umano degli arabi", il 2 luglio dell’anno scorso. Nel rapporto si dice a chiare
lettere quello che molti paesi occidentali pensano, senza osare dirlo. La
democrazia è quel che manca agli arabi, perché lo sviluppo economico e umano
possa aver luogo.
Le libertà civili, i diritti politici, l’educazione e
l’emancipazione della donna, la pluralità dei mezzi di informazione: sono queste
le armi che restituiranno loro una autentica dignità, e non l’arma del petrolio
brandita come offesa antioccidentale e espressione di risentimento. Perfino
sulla questione mediorientale il rapporto redatto dagli arabi è severo, e
coraggiosamente autocritico: l’illecita occupazione israeliana dei territori
palestinesi e l’interminabile conflitto in Medio Oriente costituiscono
impedimenti gravi, ma non possono continuare a essere "usati come scusa dalle
classi dirigenti locali".
Non possono divenire pretesto per l’inerzia
arabo-musulmana, è scritto nel testo dell’Onu. Sull’ultimo numero di Foreign
Affairs, l’arabista Fouad Ajami si sofferma su questa inerzia, per ricordare
come la sofferenza subita dalla Palestina sia stata adoperata per occultare
altre sofferenze, inflitte dagli stessi Stati arabi che difendono la causa
palestinese: la sofferenza degli sciiti nell’Iraq meridionale, quella dei
cristiani nella guerra del Sudan, quella dei curdi infine, i cui villaggi sono
stati gasati da Saddam alla fine degli Anni Ottanta (5000 morti nella sola città
di Halabjia, in gran parte civili).
Ma la democrazia come vero obiettivo
bellico ha i suoi costi, che la superpotenza americana non potrà a lungo
ignorare. Una guerra condotta in nome del diritto di ingerenza non può fare a
meno di un forte senso della legge, ed è precisamente questo senso che sembra
oggi mancare ai governanti statunitensi. L’intera dottrina sulla guerra
preventiva è fondata in realtà su un vuoto di leggi, di diritto: come nel
Leviatano di Thomas Hobbes, non sono la verità o la giustizia a generare la
legge ma l’autorità solitaria del sovrano.
Auctoritas, non veritas facit
legem: messo alle strette, il sovrano si arroga diritti eccezionali per far
fronte a circostanze eccezionali, e di conseguenza non riconosce autorità
superiori alla propria, né di natura nazionale né multilaterale. In fondo non
riconosce neppure l’autorità di principi autoimposti, e questo conflitto tra
democrazia e politica estera costituisce, negli Stati Uniti, una novità oscura.
E’ questo che rende inquietante il fatto che l’amministrazione Bush si
sottoponga con difficoltà al parere dell’Onu, e non nutra che disprezzo per le
opinioni - giudicate troppo legaliste - di molti paesi europei: l’impressione è
che l’America faccia resistenza non solo alle Nazioni Unite, ma ai principi
fondanti della sua stessa storia. Il legalismo degli europei è trattato con
disistima, con impazienza difficilmente condivisibili.
Le obiezioni
della Germania democratica sono state addirittura messe sullo stesso piano delle
obiezioni mosse da Libia e Cuba, nella testimonianza resa al Congresso dal
segretario alla Difesa Rumsfeld. Il Leviatano americano non ascolta ragioni, non
si piega al diritto, non riconosce leggi superiori alla propria autorità. Nel
momento in cui pretende di favorire la nascita di una democrazia si prende con
la forza il diritto che ritiene necessario, e non si preoccupa neppure di fare
le debite distinzioni tra paesi fidati e non, tra Stati di diritto e dittature.
Una guerra per la democrazia araba condotta in questa maniera può anche
miracolosamente riuscire, ma grandissimo è il rischio che produca disastri
ancora più pericolosi, antiamericanismi ancora più esasperati, antisemitismi
ancor più diffusi. Può darsi che i curdi e gli sciiti iracheni recuperino col
tempo la loro dignità, che in Iraq si insedi un regime più favorevole
all’Occidente, che nel Golfo si spunti l’abitudine a considerare il petrolio
come arma strategica, ma la democrazia riscoperta in terra araba sarà gravemente
mutilata.
Le sue radici non saranno nell’accettazione della legge e del
diritto internazionale, ma nella sovranità assoluta degli Stati più forti e nel
loro rifiuto di assoggettarsi a superiori regole di condotta. E paradossalmente,
l’esempio dello Stato senza-legge sarà dato dall’America stessa, che tanto sta
adoperandosi per debellare la superbia degli Stati fuori-legge, detti anche
canaglia. L’11 settembre non è stato solo un atto di guerra contro gli Stati
Uniti. E’ stato anche la tappa di un’estesa guerra civile, che sta avvenendo
dentro il mondo arabo-musulmano.
In questa guerra civile il governo
americano ha deciso di intromettersi, non senza ragioni. Ma c’è il pericolo che
perdano la vittoria che vogliono e che potrebbero ottenere. Anche Bin Laden
scommette tutto sulla destabilizzazione delle monarchie del Golfo, a cominciare
dall’Arabia Saudita. Anche Bin Laden vuole sovvertire lo status quo, le leggi
dell’Onu, il concetto stesso di stabilità internazionale.
Quel che
occorrerà evitare, è che le democrazie liberali somiglino al loro principale
avversario, in questa lotta dentro l’Islam arabo e per l’anima dell’Islam arabo.
Ci distingue da essi una cosa essenziale - la coscienza della legge, il senso
del diritto, la limitazione regolata delle sovranità assolute - e solo
salvaguardando questa preziosa differenza eviteremo la loro rovina e anche la
nostra.
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