Logo Margherita
Pagina iniziale
Rassegna stampa locale
Rassegna stampa nazionale
Approfondimenti

Da LA REPUBBLICA 9 gennaio 2002

L'aggressione politica al ruolo costituzionale dei giudici garanti della legalità anche nei confronti degli uomini al potere

La verità rovesciata

di Giuseppe D'Avanzo

Roberto Castelli, che molto si dà da fare per diventare il peggior ministro di Giustizia della storia della Repubblica, appare in tv alle sette di sera con un sorriso sghembo. Quasi non alza gli occhi dalla punta delle sue scarpe. C'è da pensare che si vergogni (avrebbe delle buone ragioni). Il Guardasigilli farfuglia qualcosa per giustificare il nuovo e lucido tentativo d'annichilire il processo Sme (imputati Silvio Berlusconi e Cesare Previti).
Dietro a tutto c'è l'interesse privatissimo del premier e la convinzione che i politici devono essere protetti dalla giustizia comune. Il ministro è consapevole che le sue ragioni sono deboli. Si aggrappa a una circolare di diciassette anni fa, come un naufrago a un legno. Ignora deliberatamente leggi e consuetudini.

Da qualche ora ha decretato che il giudice a latere del dibattimento, Guido Brambilla, deve "immediatamente" lasciare il tribunale e "prendere possesso" del nuovo incarico di giudice di sorveglianza. Se il giudice Brambilla fosse costretto a farlo "subito, ora", quel processo sarebbe morto. Andrebbe rianimato con un nuovo inizio: inutile, perché sarebbe questa volta definitivamente schiacciato non dalle mosse di Castelli e del governo, ma dalla prescrizione (il tempo è scaduto: il reato, anche se commesso, è prescritto).
"Lo imponeva la legge", balbetta l'imbarazzato Castelli. Mentre lo dice, i suoi occhi vagolano verso il basso. Il ministro sa che non sta proponendo agli italiani la verità. È consapevole che le sue ragioni sono deboli e discutibili. Si aggrappa a "una circolare" di 17 anni fa, come un naufrago a un legno. Ignora deliberatamente leggi, prassi, consuetudini, altre più recenti circolari (e anche il buon senso). Non gli pesa che quella decisione segnerà la fine di centinaia di altri processi e la scarcerazione di decine di mafiosi né si cura che con quella mossa ha annullato (potendo al contrario sanarli con la sola firma) centinaia di delibere di spesa, licenziamenti, nomine, trasferimenti di dirigenti, proroghe: atti che, invalidati, incaglieranno i già ansimanti ingranaggi della macchina giudiziaria.
Non è nemmeno il peggio quel che accade. Il peggio accadrà. Il ministro sa che, per la legge, per le circolari del Consiglio superiore della magistratura esistono strumenti tecnici per permettere al giudice Brambilla di restare dov'è fino alla conclusione del processo.
Ottenuto il consenso del presidente del Tribunale di sorveglianza (è qui il nuovo scranno di Brambilla), il presidente del Tribunale (è avvenuto, avviene, e in decine di casi) può chiedere alla presidenza della Corte d'Appello di Milano di "applicare" per almeno due anni, nei giorni di udienza, il giudice al vecchio scranno. E' questo che il dovere d'ufficio impone al presidente del Tribunale di Milano Vittorio Cardaci (non deve mandare a vuoto anni di lavoro, non lo fa per i Mario Rossi perché dovrebbe farlo per Silvio Berlusconi e Cesare Previti?).
Ecco allora quel che Vittorio Cardaci farà oggi. Chiederà l'"applicazione" del giudice, "rimosso" d'imperio dal ministro, al processo Sme. Il Consiglio superiore della magistratura approverà, ratificandola, la decisione. A questo punto, Roberto Castelli muoverà di nuovo le sue prerogative politiche e amministrative contro quel processo. Ricorrerà contro la decisione del Csm dinanzi al Tribunale amministrativo.
Le tecnicalità che seguiranno ora importano nulla perché quel che accade è fin troppo chiaro anche a chi non vede o sente: il governo non vuole che si celebrino i processi che vedono imputato il "cittadino Silvio Berlusconi" e il suo amico Cesare Previti e il ministro di Giustizia ritiene sorprendentemente di avere la disponibilità di quel processo, di poterne decidere l'estinzione o la nullità per via amministrativa.
Al fondo di questa aggressione al diritto fondamentale dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non c'è solo l'interesse privatissimo del presidente del Consiglio (anche se spesso assolto o salvato dalla prescrizione, non vuole correre il rischio di essere condannato per un reato comune come la corruzione in atti giudiziari). Quel che preoccupa (o dovrebbe preoccupare) è che accanto a quel privatissimo interesse del "cittadino Berlusconi", e nel solco di una cultura antigiuridicista e giacobina, c'è una pericolosa convinzione del presidente del Consiglio: gli uomini politici, legittimati dal voto popolare, devono essere protetti dalla giustizia comune, non possono essere soggetti a nessun altro potere dello Stato. Non all'"ordine" giudiziario, non a "funzionari dello Stato" privi di alcuna legittimazione. E' una convinzione che non riconosce alla magistratura la legittimità sancita dalla legge e dalla Costituzione.
"Noi vogliamo seguire le regole", dice il malaccorto Castelli. Nel labirinto di verità rovesciate, in cui Berlusconi e i suoi ventriloqui precipitano l'opinione pubblica, il ministro sembra smarrirsi perché ogni atto del processo che vede imputato Silvio Berlusconi, e il suo amico Cesare Previti, è stato, continua a essere una violazione delle regole. C'è stata la stagione della "slealtà". Sono seguite impudenti mosse legislative. Siamo oggi alla vigilia di un'aggressione dei fondamenti costituzionali della giurisdizione.
Quest'affare comincia così, con gli imputati che negano il processo.
Contrariamente a chi, uomo comune, ha la disavventura di entrare da imputato in un'aula di tribunale, si difendono dal processo e non nel processo. Nel catalogo della verità rovesciate d'uso comune nelle dichiarazioni dei ventriloqui della Casa delle Libertà, questo lo si definisce "diritto della difesa". Ma è davvero un diritto o un'arrogante pretesa? Nel rito accusatorio, il processo è pura operazione tecnica. Mentre nell'affare inquisitorio conta l'esito, comunque ottenuto, qui un esito vale l'altro, purché correttamente ottenuto. Questo modello ideologicamente neutro, scrive Franco Cordero, riconosce un solo valore: fair play. E infatti "giusto processo" corrisponde all'inglese fair trail, letteralmente "processo leale".
Un regola del gioco è leale perché vale per entrambi gli attori (accusa e difesa). Il gioco è leale, il processo è giusto, se entrambi gli agonisti rispettano quella regola. Il formalismo della giustizia non è un difetto, è un valore, è un punto di forza irrinunciabile di uno Stato di diritto (anche qui quante schiocchezze nel caleidoscopio delle verità rovesciate). Sono stati Berlusconi e Previti leali? Basta mettersi d'accordo sugli interessi protetti dalle garanzie formali.
Il buon senso e la legge ne individuano due. La necessità dell'accertamento dei fatti (chi ha fatto che cosa) e la verifica dell'ipotesi di colpevolezza avanzata dall'accusa (è vera o è falsa?). Secondo interesse protetto: il diritto di difesa dell'imputato. In un processo leale (giusto), "la difesa è una forza che resiste all'accusa e non che sfugge all'accusa". Tutte le garanzie del processo (imparzialità del giudice, il contradditorio, la pubblicità, l'habeas corpus, la non presunzione di colpevolezza, la motivazione dei provvedimenti, la durata ragionevole, il diritto all'appello in caso di condanna) devono proteggere il merito del processo (Berlusconi e Previti hanno corrotto i giudici di Roma?) e non gli imputati dall'accertamento dei fatti. Il lungo, tortuoso ostruzionismo organizzato dalla pattuglia degli avvocati-parlamentari di Silvio Berlusconi e Previti (rinvii per legittimo impedimento, nullità, inutilizzabilità, ricusazioni, legittima suspicione) non sono serviti a bloccare il processo. Era la prima "slealtà", grave per chi difende un processo leale, il "giusto processo", e gravissima per chi ha alti incarichi. Alla slealtà dei comportamenti processuali è seguita la malafede politica.
La maggioranza approva leggi (rogatorie, falso in bilancio) che hanno il trasparente obiettivo di mutare il segno della partita di Milano, cambiando le regole del gioco. Ma legislatori hanno troppo fretta o sanno poco di sintassi legislativa, offrono così spazi a interpretazioni fondate e legittime in diritto. Il processo continua e va avanti. Ecco allora l'ultima (per il momento) mossa di Castelli. Anche se il ministro farfuglia di regole, non siamo più in presenza né di una slealtà processuale, né dell'intricatissimo nodo del conflitto di interessi che stringe Berlusconi, ma dinanzi all'aggressione politica al primato della Costituzione, al ruolo dei giudici quali garanti della legalità contro i poteri forti.
È proprio di regole allora che bisogna da oggi discutere, della torsione di diritti fondamentali (la legge è uguale per tutti), della deformazione di un formalismo legalitario che può annunciare, se non si arresterà per tempo, una deriva autoritaria gonfia di un confuso sostanzialismo: se il popolo ci ha eletto e quindi giudicato, perché dobbiamo sottoporci al giudizio di una consorteria di burocrati, di una casta di funzionari che nessun popolo e nessun voto hanno mai benedetto?




Scriveteci a: margherita.alba@libero.it
Realizzazione del sito a cura di Luciano Rosso