Da LA STAMPA 8 febbraio 2004
Bush, Blair e le armi di Saddam
Se il potere è senza responsabilità
di Barbara Spinelli
Doveva essere, la guerra contro l’Iraq iniziata nel marzo 2003
e tuttora inconclusa, la grande rivincita della politica. Alla politica spettava
l’ultima parola, la politica aveva il primato su ogni organismo ausiliare:
servizi segreti o diplomazia, esperti-tecnocrati o forze militari. Era finita
l'era dell’equilibrio tra forza e prudenza, tra paura e autocontrollo, che aveva
contrassegnato gli anni della guerra fredda, del contenimento dell’avversario
senza spargimento di sangue, della dissuasione nucleare intesa come strumento
per rendere la pace impossibile, ma la guerra improbabile. Quello che Thomas
Hobbes chiama il Leviatano, il mostro freddo incarnato dallo Stato che
monopolizza la violenza per addomesticare la negatività del mondo e trasformarla
in beneficio per la società, doveva prendere il sopravvento e contraddistinguere
l'inizio del nuovo secolo: un inizio cruento, inaugurato l’11 settembre 2001
dall’assalto dei terroristi suicidi alle torri di New York.
Quel che sta
svolgendosi invece di fronte ai nostri occhi, nelle ultime settimane, è il
frantumarsi del politico, è la sua visibile, drammatica perdita di
autorevolezza, di credibilità, di autonomia, di centralità. Credendo di salvare
la propria reputazione e la propria innocenza, è quel che stanno ottenendo
George W. Bush e Tony Blair, da quando hanno dovuto riconoscere che il motivo
addotto per la guerra era falso (le armi indicate come pericolo imminente per
l’umanità non si sono trovate) e da quando hanno deciso di scaricare tutte le
responsabilità non già sul potere politico ma sui servizi segreti, e sulla
sopravvalutazione del pericolo da essi agevolata.
Le commissioni
convocate da Bush e Blair devono appunto indagare su questo: non le
responsabilità dei politici, ma le esclusive colpe dei servizi. Non a caso
questi ultimi portano il nome di intelligence: a ben vedere è di loro
competenza, l’intelligenza delle cose e perfino la lezione da trarne. I poveri
politici sembrano estranei a simili facoltà intellettive, e quasi si direbbe che
vogliano apparir tali: dotati d’un destino che li fa vivere nell’oscurità
innocente della non-imputabilità, dell’irresponsabilità, e della stoltezza. Ecco
come la politica cade a pezzi, incapace di star dritta da sola e di darsi una
norma (questo vuol dire auto-nomia). Cercando nei servizi i soli responsabili, e
sgravando lo statista d’ogni colpa, il primato politico che si voleva accentuare
viene non solo screditato, ma negato.
Quelli che vediamo sfilare davanti
alle telecamere pretendono di esser chiamati responsabili ma in realtà
somigliano a qualcos’altro: forse dovremmo chiamarli i Nostri Irresponsabili
Politici, uomini che non hanno l’egemonia sui servizi o su altri organi
ausiliari ma che ammettono addirittura di esserne prigionieri. Nel suo libro
sulla Politica Perduta, Marco Revelli spiega quel che accade, quando la politica
si frantuma in tal modo: il potere che usava ammaestrare la forza
monopolizzandola si decompone, e "si rovescia nel proprio opposto: in una
potente macchina di produzione del disordine e insicurezza. In un apparato
destinato a riprodurre su scala allargata esattamente quel negativo -
l’insicurezza - per ridurre il quale era stato progettato e costruito" (La
Politica Perduta, Einaudi 2003).
Il Leviatano politico doveva proteggere
la società dallo stato di natura, dall’uomo che diventa lupo per l’uomo. Oggi
rischiamo di veder la nascita d’un potere vastissimo, ma alleggerito da
responsabilità. Un potere enorme ma vacuo, onnipresente ma futile, non
imputabile e perciò sgravato, privo d’ogni gravitas. Sotto il suo regno
inefficace torna proprio quello stato di natura cui il sovrano, secondo Hobbes,
doveva metter termine: uno stato in cui "la vita trascorre solitaria, povera,
abbrutita e breve". Un sovrano così svuotato non fornisce quel che promette: non
dà più sicurezza ma fornisce più paura, più nemici, al punto d’alimentarsi egli
stesso della paura e dell’odio che pretendeva fronteggiare.
Questo
primato assunto dai servizi tuttavia è una verità claudicante, e assai
controversa. In realtà sono in molti, impiegati nei servizi americani e inglesi
o veterani dell’intelligence, che in questi giorni rifiutano d’esser tramutati
in capri espiatori, e negano la responsabilità che i politici disperatamente, e
ingiustamente, vorrebbero loro addossare.
George Tenet stesso, capo dei
servizi Usa, scagiona Bush ma afferma che la Cia "mai parlò di pericoli
imminenti" in Iraq. - Scott Ritter, ex ispettore in Iraq fra il ‘91 e il
‘98, ha scritto sull’Herald Tribune del 6 febbraio che "non tutti si sono
sbagliati", come affermato dall’ispettore David Kay incaricato di trovare le
armi irachene dopo la guerra e tornato a casa senza risultati. Fin dall’inizio,
confida Ritter, i governi furono ammoniti da esperti e ispettori come lui, da ex
dell’intelligence come Ray McGovern, dallo stesso ispettore Onu Hans Blix.
In Inghilterra, Brian Jones, capo-analista strategico nel ministero
della Difesa, ha rivelato sull’Independent del 4 febbraio che i veri esperti in
armi di distruzione di massa vennero scavalcati da piccoli impenetrabili gruppi
di intelligence legati al governo: "Mancava qualsiasi prova consistente del
pericolo Saddam. (...) Ci dissero che esistevano prove dell’intelligence ma
nessun autentico esperto d’intelligence poté vederle".
Poi c’è il caso
di Valerie Plame, l’ex agente Cia sposata all’ambasciatore Joseph Wilson: il 6
luglio 2003, sul New York Times, questi aveva messo a nudo le menzogne di Bush
sul presunto uranio arricchito acquistato da Saddam. Lui stesso, Wilson, era
stato incaricato dal vicepresidente Cheney di una missione nel Niger, aveva
scoperto che mai l’Iraq aveva voluto acquistare uranio a Niamey, e aveva
comunicato i fatti al governo, undici mesi prima che Bush denunciasse i contatti
Iraq-Niger. Dopo di allora il nome di Valerie Plame venne reso pubblico - molti
dicono: per rappresaglia - e la moglie di Wilson ha perso lavoro e sicurezza
personale.
Tutto questo significa che i politici impegnati nella guerra
sono più responsabili di quanto lascino d’improvviso intendere. Ma perché non
osano dire come stanno le cose, allora? Perché i belligeranti occidentali
(Italia compresa) non dicono che le armi erano un pretesto e che il casus belli
era ben diverso: era il desiderio di eliminare un tiranno, o ancor più il
desiderio d’avere basi più affidabili in una zona energetica cruciale, una volta
appurato che l’Arabia Saudita, infiltrata ormai dal terrorismo, non era più un
alleato sicuro? In realtà hanno avuto bisogno di fabbricarsi un casus belli
contraffatto, perché solo su di esso era possibile mobilitare l’America, l’Onu,
gli alleati. Per una politica neo-coloniale di cambio di regime, pochi oggi -
tranne Putin forse, che sta colonizzando la Cecenia fino a distruggerla -
sarebbero stati disponibili.
Il fatto è che i politici devono oggi
scegliere fra alternative egualmente letali. O ammettono d'aver mentito a tutti
(opinione pubblica e Congresso Usa, Onu e alleati), ma in tal caso dimostreranno
di essere non solo disonesti moralmente, ma anche poco affidabili, poco
credibili: gli stati atomici come Pakistan e Corea del Nord non saranno
dissuasi, ma capiranno che la guerra contro Saddam è stata osata proprio perché
questi non era pericoloso. Oppure i politici si confessano impotenti, e il
risultato è lo stesso: caduta di credibilità, e auto-dissoluzione nella
non-responsabilità.
In parte è vero quello che Sergio Romano sostiene sul
Corriere della Sera: il diritto alla menzogna è specialmente arduo nella moderna
democrazia, dove la sovranità è del popolo, anche se le menzogne comunque si
dimenticano quando il mentitore vince le guerre. Ma il diritto alla menzogna non
è un'arma che si possa impugnare senza rischio, come dimostra già Kant nel ‘700
polemizzando con Benjamin Constant. L’uomo "non ha il dovere di dire la verità
assoluta, giacché essa non esiste". Può scegliere di tacere, certo, ma "se parla
ha un dovere assoluto di veridicità soggettiva": deve esser sincero, dire almeno
quel che a suo parere è veridico. Sono in gioco l’onestà e l’etica, dunque anche
il rispetto dei contratti stretti fra uomini, anche la fedeltà alla parola data,
senza cui nessuna società può sussistere. Se ci si arroga un diritto a
mentire nessuno crederà più a nessuno, le guerre preventive diverranno lo
zimbello dei dittatori, e la dissuasione stessa (che consiste nel minacciare con
tanta forza l’avversario da convincerlo senza dover ricorrere alla guerra) ne
uscirà infranta. Si rivelerà impotente e finita, così come minaccia d’esser cosa
finita la politica.
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