Da LA REPUBBLICA del 6 luglio 2002
I due sindacati hanno ceduto su un accordo dalla incerta copertura finanziaria
Don Giovanni e Cisl-Uil sedotte e abbandonate
di Eugenio Scalfari
TUTTI i salmi finiscono in gloria ed anche la farsa delle
resistenze negoziali di Cisl-Uil si è alla fine materializzata nella famosa
firma, data per incerta fino all'ultimo minuto quando fin dall'inizio si sapeva
certissima. L'intera vicenda che ha visto come protagonisti il Gatto e la Volpe,
alias Pezzotta-Angeletti, mi ha fatto venire in mente il "vorrei e non vorrei,
mi trema un poco il cuore" della Zerlina mozartiana che alla fine, prima di
cedere alle seduzioni di Don Giovanni, si rassicura dicendo a se stessa: "Nelle
mani son io d'un Cavaliere" . Sembra scritta su misura di Cisl-Uil la
cavatina di Da Ponte. Ma chi sarà il Commendatore, il convitato di pietra che
porterà l'impenitente mentitore e seduttore Don Giovanni all'inferno? Questo
resta ancora da vedere. Nel frattempo lasciamo i protagonisti di quest'opera
buffa e tragica insieme ad esaltare i trionfi raggiunti ed esaminiamo da vicino
la realtà vera di quanto è accaduto. Mi scuso fin d'ora con i lettori se dovrò
affaticarli con qualche cifra di troppo, ma la realtà e la verità dei fatti in
casi come questi è fatta anche di numeri. Cercherò d'essere il più chiaro
possibile e mi affido alla loro vigile pazienza.
Che Cisl-Uil avessero
fin dall'inizio deciso di accettare la deroga "di soglia" sopra i quindici
addetti per quanto riguarda l'articolo 18 l'avevamo capito tutti da tempo, ma
premeva conoscere quali contropartite avrebbero ricevuto in cambio. Se ne
aspettavano i solerti Pezzotta-Angeletti molte e numerose. Enumero: la
cancellazione della decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato,
che avrebbe messo a rischio l'intero monte pensioni, oppure il suo finanziamento
a carico della fiscalità generale; un vasto e nuovo sistema di ammortizzatori
sociali, a cominciare dall'aumento consistente dell'indennità di disoccupazione
ma non soltanto; il primo modulo della riforma fiscale in favore dei redditi
minori e di consistenti esenzioni per i redditi minimi; l'estensione dello
Statuto dei lavoratori alle varie forme di contratti atipici che riguardano
ormai molti milioni di dipendenti; la fissazione di parametri di indennizzo per
quanto riguarda i lavoratori dipendenti sotto la soglia dei 15
addetti. Questo era l'oggetto dello scambio atteso o almeno sperato. Che cosa
è stato ottenuto? Enumero: 1. La somma di 700 milioni di euro l'anno per
finanziare l'intera gamma degli ammortizzatori, in realtà soltanto l'aumento
dell'indennità di disoccupazione. Quando la trattativa cominciò Cisl-Uil avevano
fissato in 5 miliardi il costo dell'operazione. La distanza tra l'obiettivo
sperato e quello raggiunto è enorme e fa pensare più ad una mancia che ad un
risultato. 2. Della decontribuzione a carico della fiscalità non si parla ma
neppure si parla dell'annullamento della decontribuzione. La questione sembra
dunque rimasta così com'era all'inizio, cioè a carico dell'Inps e quindi del
monte pensioni esistente. 3. I diritti da estendere agli atipici e ai
dipendenti sotto la soglia non vengono menzionati se non per dire che sarà
istituita una commissione di studio di "alto profilo". Nella scorsa legislatura
il problema era stato risolto con una legge presentata dal centrosinistra e
approvata da un solo ramo del Parlamento. Non c'è molto da studiare in proposito
che già non sia stato studiato: bastava riprendere quella legge, eventualmente
emendarla e ripresentarla alle Camere. Ma Confindustria ha puntato i piedi:
commissione di studio di alto profilo; se ne parlerà a babbo morto. 4. Per la
riforma fiscale le cose stanno così: la quota esente passa da 6.000 a 7.000
euro; il governo Amato aveva previsto di innalzarla a 9.000 euro (18 milioni di
vecchie lire), il risultato è dunque meno della metà di quanto deciso dal
precedente governo. Per la fascia di reddito compresa tra 7.000 e 10.000 euro
resta l'aliquota Irpef del 18 per cento con alcune deduzioni per la fascia tra i
7.000 e i 9.000, quella cioè che Amato-Visco avevano programmato in totale
esenzione. Per la fascia di reddito dai 10.000 ai 15.000 euro l'aliquota viene
ridotta in un punto, da 24 a 23 per cento; tra i 15.000 e i 25.000 euro la
riduzione passa dal 32 al 27 per cento. Conclusione: i redditi minimi
ottengono meno di quanto sperato rispetto agli impegni del precedente governo;
quelli appena superiori (tra i 15.000 e i 25.000 euro) un poco di più. E questa
è definita dal presidente del Consiglio la più grande riforma mai fatta nel
mondo. Sono queste le contropartite di scambio. Dietro l'angolo c'è il taglio
delle pensioni senza il quale Tremonti non potrà arrivare nemmeno al
2004.
Ma perché tanta avarizia? Qui bisogna fare un passo indietro, dal
quale uscirà una verità che definirei sconvolgente: neppure queste concessioni
addirittura insultanti per la loro esiguità sono promesse certe, ed ecco perché.
Un paio di mesi fa, alle prime prove tremontiane di "cartolarizzazione" di
cespiti fiscali e patrimoniali dello Stato, tra le altre numerose critiche nel
merito di quei provvedimenti mi fu facile prevedere che il comitato europeo di
statistica e vigilanza contabile sulle operazioni degli Stati membri avrebbe
bocciato i metodi scelti dal ministro per fare cassa e per portare gli introiti
a diminuzione del disavanzo corrente. Il ministro in quell'occasione ebbe
anche la bontà di rispondermi; mi diede dello sprovveduto incompetente e si
disse certo che Eurostat avrebbe approvato le sue cartolarizzazioni. Anzi,
arrivò a sostenere che le aveva già approvate in via preventiva. Naturalmente
non era vero. La risposta è arrivata da Bruxelles mercoledì scorso: le
cartolarizzazioni tremontiane sono pure entrate di cassa equiparate
all'accensione di altrettanti debiti garantiti dallo Stato; le banche danno
soldi al Tesoro come farebbero con una qualunque operazione "swap"; solo che la
fertile ingegnosità tremontiana aveva circondato questi swap da una serie di
complicate architetture barocche allo scopo di farle passare per entrate vere e
utilizzabili per ridurre il deficit corrente e quindi anche il rapporto
disavanzo/Pil, significativo ai fini del patto di stabilità
europeo. L'incidente è grosso per la credibilità del ministro, ma lui non si
scompone. Sostiene che Eurostat si sbaglia, minaccia di fare intervenire il
Consiglio dei ministri europeo per mettere in riga i tecnocrati di Bruxelles e
afferma soprattutto che la deliberazione di Eurostat non avrà alcuna conseguenza
sulla politica finanziaria del governo poiché riguarda i conti del 2001 che
ormai sono dietro le nostre spalle. Chi se ne frega (dice Tremonti) del 2001:
sul 2002 ed anni seguenti, anzi, la censura di Eurostat produrrà effetti
benefici poiché le entrate censurate diventeranno reali e impingueranno
l'Erario. È veramente un fenomeno il ministro Tremonti, al quale mi permetto di
obiettare: 1. Se i paletti messi da Eurostat miglioreranno la situazione
finanziaria del 2002 e seguenti, vuol dire che le operazioni a suo tempo da lui
varate l'avevano peggiorata. 2. In realtà anche questo assunto è falso. 3.
Non è vero che le modifiche imposte da Bruxelles alla contabilità del 2001 sono
prive di conseguenze; il ministro del Tesoro se ne può anche infischiare del
fatto che il disavanzo in termini di Pil è ora aumentato a 2,2 avvicinandosi
alla linea rossa del 3 dalla quale scattano le sanzioni europee; ma non può
invece infischiarsi di un effetto molto concreto prodotto da questa vicenda e
cioè l'aumento del debito pubblico. I proventi erogati dalle banche nel 2001
sono debiti e hanno fatto aumentare il debito complessivo mentre la sua
riduzione era stata fin qui uno degli obiettivi primari dei governi dal 1993 al
13 maggio del 2001. Ora la tendenza si è invertita e Tremonti vi ha dato una
buona mano. Dobbiamo ringraziarlo per questo? Non direi. Confermo che è un
fenomeno. Temo che ci stia portando verso una catastrofe finanziaria anche se
sono ancora in pochi quelli che l'hanno capito. Certo la credibilità del
Fenomeno risulta oggi piuttosto incrinata e altrettanto accade per il suo Dpef
che il Consiglio dei ministri ha appena approvato. Il documento prevede un
aumento del Pil nel 2003 del 2.9% e di altrettanto nel 2004. Ma chi ci crede? Le
previsioni per il 2002 erano fino a ieri inchiodate al 2.3% e il rapporto
disavanzo/Pil allo 0.5. Ma oggi le prime sono scese all'1.3 e il secondo è
salito allo 0.8 (ma salirà ancora, statene certi). Chi ha preso un abbaglio
di questa grandezza non merita fede sulle cifre dei prossimi tre anni, anche
perché l'andamento del ciclo internazionale non fa affatto prevedere
miglioramenti sostanziali e rapidi. E poiché l'intera politica economica e
sociale del governo si fonda su quelle cifre di base, ecco che il Dpef altro non
risulta essere che l'ennesimo libro dei sogni che il governo Berlusconi diffonde
dopo le promesse elettorali del 2001. Vediamo più da vicino questo libro dei
sogni. Le entrate di competenza non sono splendide, direi che galleggiano a
stento. Le prime notizie sull'autotassazione sono deludenti. Vedremo tra pochi
giorni le cifre. Le entrate di cassa vanno decisamente male; il semestre si
chiude con un disavanzo di oltre 30 miliardi e passa di euro (60 mila di vecchie
lire); di altrettanto aumenta il fabbisogno e quindi il debito necessario a
finanziarlo, più il maggior debito (ex cartolarizzazione) ereditato dal 2001. Ma
sopravvengono nuove spese aggiuntive: i 700 milioni di euro per l'indennità di
disoccupazione, le decontribuzioni per i nuovi assunti se verranno messe a
carico della fiscalità generale; la copertura finanziaria dell'accordo firmato
con i dipendenti dello Stato ma non ancora formalizzato nella contabilità
pubblica; il primo modulo di riforma fiscale cui dovrà seguire quello ancora più
consistente del 2004; i maggiori fondi necessari per la scuola e per la
giustizia. Anche tralasciando queste due ultime voci (tuttavia essenziali
della società italiana) il complesso delle altre qui indicate si colloca per il
2003 nell'ordine di grandezza di 11-12 miliardi di euro, diciamo 22 mila
miliardi di vecchie lire, ai quali sono da aggiungere circa 9 mila miliardi di
vecchie lire imputabili alla spesa sanitaria. Totale: 30 mila miliardi. La
copertura di questi esborsi aggiuntivi dovrebbe essere effettuata con tagli di
spese correnti dei ministeri, provvedimenti sui farmaci e maggiori imposte
regionali, vendita di immobili. Dalla prima voce il Fenomeno si aspetta
economie pari all'1% del Pil; se riuscirà ad ottenerne un terzo potrà aspirare
ad un busto al Pincio, se arriverà alla metà si sarà meritato una statua
equestre da vivo (per quanto posso sono pronto a contribuire). I provvedimenti
previsti per la sanità dimezzeranno forse quei 9 mila miliardi. Se tutto andrà
bene dunque, il Fenomeno avrà così rastrellato metà dei fondi necessari; gliene
resterebbero ancora da coprire per altrettanto. Il suo progetto era di ricavare
dalle cartolarizzazioni 7.5 miliardi di euro ogni anno fino al 2004, ma ora non
sarà più così. Dopo i paletti dell'Eurostat sarà grasso che cola se ne ricaverà
3.5 miliardi. Alla fine gli resterà uno scoperto di circa 4 miliardi di euro, 8
mila miliardi di vecchie lire, per il 2003 e parecchio di più per l'anno
successivo. Poiché il Fenomeno (e il Super-Fenomeno che sta sopra di lui) non
vogliono sentir parlare di nuove e maggiori imposte (salvo quelle regionali che
pure fanno parte della pressione fiscale complessiva) l'ammanco di almeno 4
miliardi comporterà la rinuncia ad alcuni impegni solennemente sanciti nel patto
sociale firmato appena ieri a Palazzo Chigi con gran clamore di truppe e tamburi
e nel Dpef approvato anch'esso ieri dal governo. Quattro miliardi di euro non
sono poca cosa in un programma di impegni così stretto. Qualche cosa salterà.
Che cosa? Il futuro è sul grembo del Fenomeno. Certo chi si fida di lui corre un
bel rischio. Tra quelli che si fidano ci sono evidentemente anche il Gatto e
la Volpe i quali, per colmo di generosità, hanno anche accettato di inserire nel
patto sociale la loro approvazione del Dpef. Hanno cioè trasformato un patto tra
parti sociali in un patto politico con il governo che li porterà inevitabilmente
in linea di collisione con tutto l'Ulivo, Margherita compresa. Ma non era la
Cgil a comportarsi come un soggetto politico e non sindacale? Ebbene, con
l'approvazione del Dpef anche Cisl-Uil escono dall'alveo sindacale per entrare
mani e piedi in quello politico. D'Antoni sarà contento, la sua lunga marcia
verso il collateralismo a destra è stata finalmente premiata. Tutto ciò, come
diceva Marco Biagi a proposito di chi si schierava con Cofferati, mi sembra
indecente. E altrettanto indecente è proclamare di farlo per onorare Biagi.
Lasciateci almeno la libertà di piangere i morti senza usarli per santificare le
furbizie dei vivi.
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