Da LA REPUBBLICA 6 giugno 2002
La pulsione suicida del centrosinistra e la guerra per la leadership
Ora è in gioco la leadership del centrosinistra
di Massimo Giannini
In preda a un irresistibile richiamo della foresta, alla
vigilia degli appuntamenti che contano il centrosinistra non sa resistere alla
sua misteriosa pulsione suicida. Con involontaria, ma scientifica puntualità,
riesce a dare il peggio di sé. Alle amministrative di due settimane fa è
successo il miracolo: non solo l'opposizione non è stata annientata dal Polo, ma
ha dato qualche confortante segnale di risveglio.
Oggi, a tre giorni dai
ballottaggi decisivi in città importanti come Asti e Gorizia, Piacenza e
Cosenza, l'Ulivo offre all'opinione pubblica la solita, penosa figuraccia.
Confuso, rancoroso, comunque diviso. L'alleanza si sfarina sull'articolo 18
dello Statuto dei lavoratori. La Margherita contro la Cgil, i Ds contro la
Margherita, petali di Margherita e cespugli dei Ds contro se stessi,
Rifondazione comunista contro tutti.
L'elettore medio si aspetterebbe una
compagine compatta e agguerrita, pronta a conquistare al centrodestra centimetri
preziosi di territorio politico nel test di domenica prossima. Nelle ultime
mosse del presidente del Consiglio potrebbe cogliere non trascurabili indizi di
debolezza, dei quali approfittare: aveva giurato che non avrebbe fatto campagna
elettorale, e invece oggi Berlusconi farà un comizio a Frosinone per compensare
il mancato effetto Storace al primo turno, e domani volerà a Verona per
arringare le folle ricche ma perplesse del mitico Nord-Est. La Casa delle
libertà ha urgente bisogno del Cavaliere, suo unico signore e padrone. Quale
occasione migliore per dargli un'altra, sia pure modesta spallata? E invece no.
Non solo non approfitta per rosicchiare altri consensi nelle città, ma l'Ulivo
fa il possibile per buttare al vento quelli che ha faticosamente
conservato.
E' una sindrome masochistica, vecchia come la sinistra. E'
accaduto quattro anni fa al governo Prodi, devastato dalla diaspora di
Bertinotti sulle pensioni e sulle 35 ore. E' accaduto alla vigilia delle
regionali di due anni fa, quando l'apertura di D'Alema ai radicali mandò in
frantumi i già precari equilibri della coalizione. E' accaduto alla vigilia
delle politiche di un anno fa, quando lo scontro per la leadership tra Amato e
Rutelli portò al voto del 13 maggio un'alleanza logora e litigiosa. Si ripete
oggi per la riforma del mercato del lavoro. Un minimo di buon senso politico
suggerirebbe quanto meno di rinviare di qualche giorno il rituale "autodafè".
Magari a dopo i ballottaggi, per ovvie ragioni di opportunismo. Ma al
centrosinistra manca anche questo.
Lo scarso senso tattico denuncia una
perdurante latitanza di strategia e di progetto politico. Dal '96 l'alleanza è
prigioniera del suo passato. L'insopportabile frastuono sul "contenitore" copre
il dibattito sul "contenuto". Sulle ali del riformismo, sei anni fa, l'Ulivo
vinse al centro la sfida con Berlusconi. Come Blair la vinse subito dopo in
Inghilterra. Oggi, e dopo la parziale conferma di un'esperienza di governo
positiva ma non esaltante, si scopre quanto piombo c'è in quelle ali. Il
riformismo, alla prova dei fatti, resta una formula vuota. Ogni volta che la
formula precipita in una scelta, l'Ulivo si spacca, si blocca, non sa scegliere.
La contesa sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è il paradigma di
questa incapacità di scegliere, secondo un'identità risolta e definita. La
divisione sulla trattativa con il governo attraversa l'opposizione sociale, ma
riflette in modo persino più drammatico le divergenze culturali dell'opposizione
parlamentare. Non stupisce che la rottura dell'unità sindacale anticipi la
dissolvenza della coesione politica. La stagione del vecchio collateralismo è
finito. Rispetto ai vecchi partiti di riferimento, Cgil, Cisl e Uil fanno da
traino, e non più da bagaglio. Da più di un anno, ormai, l'antica "cinghia di
trasmissione" funziona al contrario. La forza del sindacato è l'effetto della
debolezza del centrosinistra, che in questi mesi non ha saputo dettare la sua
agenda, ma se l'è lasciata imporre dalla vecchia Triplice.
All'apparenza,
ognuno dei protagonisti in campo ha qualche giustificazione da rivendicare. Sul
fronte sindacale, Cofferati non ha torto a considerare la difesa dell'istituto
della giusta causa nei licenziamenti un principio di civiltà. E spinge fino
all'estremo la sua coerenza: dopo aver fatto un grande sciopero generale per
difendere quel principio, oggi si rifiuta di trattare con un governo che afferma
in premessa di voler modificare comunque quell'istituto. Ma Pezzotta e Angeletti
non hanno torto a vedere in una trattativa a tutto campo i margini per uno
scambio nel quale forse, alla fine, i lavoratori di oggi non hanno nulla da
perdere e quelli di domani hanno magari qualcosa da guadagnare. Forse derogano
alla coerenza di una lotta che finora era stata unitaria: ma non si possono
considerare "traditori", vanno solo a vedere le carte di Berlusconi convinti che
la trattativa offra comunque un'opportunità, e la rottura sia una via d'uscita
sempre possibile.
Sul fronte politico, Rutelli non ha torto nell'indicare
l'utilità del dialogo. La Margherita incarna l'anima moderata dell'alleanza. Le
sue radici storiche affondano nella tradizione del migliore sindacalismo
cattolico della Cisl di Giulio Pastore. E' giusto non recidere quelle radici e
tentare di ancorarle a questa metà del campo. Soprattutto in una confederazione
che, dopo la deriva di Sergio D'Antoni, si è avvicinata sempre di più al
centrodestra. D'altra parte, Fassino e i Ds non hanno torto a offrire una sponda
a Cofferati. Per l'establishment della Quercia uscito vincitore dal congresso di
Pesaro è una minaccia, ma per il futuro della sinistra italiana è una risorsa.
E' una delle poche personalità riconosciute, che attraverso la Cgil ha mantenuto
e anzi ha accresciuto la sua fonte di legittimazione. La sua battaglia
sull'articolo 18 è anche una delle armi che il centrosinistra può giocare nella
campagna d'autunno contro il governo, se e quando sarà possibile usarla nel
quadro di una grande offensiva referendaria che abbracci anche il conflitto di
interesse e le rogatorie.
Ma la somma di questi "non torti" non fanno una
ragione. Alla fine, un pezzo dell'Ulivo sembra pronto a sedersi al tavolo e ad
accettare una riforma del mercato del lavoro targata Berlusconi. Un altro pezzo
sembra pronto a far saltare il tavolo, e magari a perdere la battaglia pur di
non concedere nulla al "nemico". In realtà, per un'alleanza riformista e moderna
la questione sarebbe meno complessa di quel che sembra. Il governo finora ha
sbagliato tutto. La flessibilità non è una minaccia, ma un'opportunità. Per
renderla tale, deve agire in un sistema di tutele solide ed estese, per i vecchi
e per i giovani. Queste tutele, in Italia, mancano. Si deve partire da queste.
Alla flessibilità si arriva a valle del processo riformistico, non a monte. Per
questo è giusto opporsi oggi alla modifica dell'articolo 18 voluta, insieme e
non a caso, da governo e Confindustria. Ma mentre afferma questo, un'alleanza
riformista e moderna è anche capace di affrancarsi dal sindacato, riconducendolo
nell'alveo della sua funzione di organo che rappresenta una parte e non il
tutto. E di chiedergli, insieme alla legittima difesa dei suoi iscritti, un
passo avanti sul terreno della modernizzazione che riguarda la
collettività.
Il centrosinistra non produce questa sintesi. L'anima
ex-comunista e l'anima ex-democristiana non si integrano. Non evolvono in un
soggetto riformista compiuto e coeso al di là delle formule (partito unico della
sinistra europea, partito democratico, Ulivo mondiale). Galleggiano sulle
emozioni, inseguono la destra sulle tensioni. Dopo la vittoria di Pim Fortuyn in
Olanda imperniata sull'emergenza immigrazione, in una stessa giornata il governo
Berlusconi ha inventato la sedicente operazione "alto impatto", Rutelli ha
lanciato la tolleranza zero per i clandestini e Fassino le 14 idee sulla
sicurezza.
Il paradosso è che, con tutte le sue forzature e le sue
ambiguità, questa sinitesi è riuscita al centrodestra. La modifica in senso
peggiorativo dell'articolo 18 avrebbe dovuto ridurre in cocci una coalizione in
cui convivono il populismo becero dei leghisti e il moderatismo benpensante dei
centristi, gli "spiriti animali" dei forzitalioti liberisti e gli istinti
assistenziali della destra sociale e statalista. Invece la maggioranza
multiculturale di Bossi e Follini, di Martino e di Alemanno, ha tenuto e tiene.
Mentre si sfascia l'opposizione, che almeno sulla carta avrebbe più motivi di
omogeneità politica e di affinità culturale.
Tanta stupefacente entropia
ha un movente preciso. Sullo sfondo delle polemiche, c'è un nodo mai sciolto,
che col tempo si aggroviglia sempre di più. Nel centrosinistra si impone la
madre di tutte le scelte: quella della leadership. Lo scontro sull'articolo 18
sembra diventato il pretesto per una resa dei conti tra i Ds e la Margherita. La
schermaglia tra Rutelli e Cofferati sembra preludere a una guerra più ampia. Si
litiga sul ritorno di Romano Prodi, si bisticcia su nuovi ticket. Nel frattempo
Bertinotti torna ai cancelli di Mirafiori. E Berlusconi
governa.
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