Da LA REPUBBLICA del 5 novembre 2003
In AN è avvenuto il distacco dal passato fascista, non l'elaborazione culturale compiuta di quel passato
La lunga marcia della destra italiana
di Ezio Mauro
Da poche settimane, valutata la crisi della maggioranza e in
particolare del berlusconismo, ha ripreso libertà di movimento, e con due mosse
in successione ha spiazzato partito, alleati ed elettori, aprendo al voto
amministrativo degli immigrati, e dialogando direttamente con gli ebrei
italiani: facendo cioè politica a tutto campo, senza teorizzare svolte o
revisioni, ma andando nei fatti oltre i confini della sua costituente e della
cultura originaria di An. Una sorta di estemporaneità craxiana di movimento, con
lo slogan aggiornato: la strada è a zig-zag, la meta sconosciuta.
DUNQUE
la lunga marcia della destra italiana per fuoriuscire definitivamente
dall'eredità del fascismo e dalle sue persistenze è davvero finita? Lo ha
affermato solennemente Gianfranco Fini, nel dialogo con il presidente
dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane Amos Luzzatto che si è svolto a
Repubblica e di cui il nostro giornale ha dato conto ieri. Per il leader di An
la revisione è conclusa, il destino della destra si è compiuto, tutte le parole
che definiscono il prima e il dopo sono state pronunciate. Vale la pena
ragionare su questa affermazione, anche per l'importanza che Fini e Luzzatto
hanno attribuito alla loro pubblica discussione, sotto l'aspetto prima di tutto
simbolico. Un incontro mancato per cinquant'anni - e non per caso - nella storia
repubblicana: che per la prima volta vedeva dialogare direttamente, come ha
detto Mario Pirani, il rappresentante della comunità ebraica italiana con
l'erede, sia pure aggiornato e revisionato, del movimento fascista. Fini
rifiuta questa eredità. Alleanza Nazionale, ricorda, non è figlia diretta di
Salò, ma del Movimento Sociale, dunque l'ascendenza è mediata, non diretta, e fu
lo stesso leader, a Fiuggi, a ricordare al partito in lacrime che bisognava
"uscire dalla casa del padre con la certezza di non farvi più ritorno". Ma Fini
sa di essere, oltre che il presidente di An, anche l'ultimo segretario del Msi.
Questo nodo di rottura e di discendenza lo lega organizzativamente,
politicamente e culturalmente a quella eredità e lo carica di un doppio peso,
comune del resto ai post-comunisti della sua generazione: essere nello stesso
tempo autore di una svolta e di una trasformazione, e reggere comunque
l'ingombro di una tradizione immane, con cui non si possono non fare
continuamente i conti.
Per questa ragione, credo, Fini non si è
sottratto alle domande inevitabili sulla "natura" del suo partito e sulle
contraddizioni di questa natura. Poiché oltre che leader di un partito è anche
vicepresidente del Consiglio, nominato dopo aver vinto le elezioni con la Casa
delle Libertà, avrebbe potuto rivendicare anche per sé quella speciale "unzione"
del voto popolare in cui si immerge periodicamente Berlusconi per cercarne la
fonte di un potere supremo, sciolto dai contrappesi e dai controlli tipici di
uno Stato di diritto.
Quell'unzione maggioritaria avrebbe potuto essere
usata da Fini per chiedere la cessazione di ogni prova e di ogni esame: sono
come sono, e così il popolo mi ha accettato votandomi. Invece, nel dialogo con
Luzzatto, l'unzione è rimasta nella sacra ampolla del Cavaliere.
Certo,
Fini sapeva di avere davanti a sé non un dirigente burocratico di una comunità,
ma un uomo che all'inizio del 1939 aveva dovuto lasciare l'Italia in seguito
agli effetti delle leggi razziali, dopo aver vissuto con la casa piantonata, la
madre pedinata nei suoi spostamenti, la scuola abbandonata per forza. Dunque un
vero "rappresentante", nello stesso tempo degli ebrei italiani e di quella
tragedia concreta che è stata il fascismo nel nostro Paese per uomini, donne,
comunità.
Ma non è solo questo. Per le due ore di discussione, Fini ha
cercato di muoversi su un sentiero stretto, ma evidente. Ha evitato abiure, per
non riaprire il capitolo di una legittimazione che considera conclusa. Ma ha
evitato nello stesso tempo rimozioni e neutralità. Per lui, con ogni evidenza,
il percorso di revisione finisce con la completa accettazione del gioco
democratico e delle sue regole. Dunque, essendo An giunta fin qui, alla sponda
accettata e consapevole della democrazia, non c'è secondo il suo leader bisogno
di altre rotture e revisioni.
In realtà, a mio parere, la definizione di
sé fatica a compiersi perché è avvenuto il distacco dal passato, non
l'elaborazione culturale compiuta di quel passato. Siamo cioè nella fase lunga
del "post", più che dell'"ex". Paradossalmente, ma non tanto per la sua
generazione, Fini ha fatto e fa quotidianamente i conti con la democrazia,
compiutamente accettata, mentre ritiene di non dover più fare i conti con il
fascismo, perché gli è bastato distaccarsene, rifiutandolo. Ma in questo modo,
senza andare fino in fondo nel travaglio di capire ed elaborare ciò che il
fascismo è stato, cos'è stata Salò, perché generazioni successive hanno potuto
aderire a quel mito tragico anche dopo il ritorno della democrazia, si rischia
di restare in una terra di nessuno che definirei con una sola, sterile parola:
a-fascismo.
Ma la democrazia ha dei corollari inevitabili, potremmo dire
delle conseguenze. La nostra, ad esempio, è una democrazia repubblicana nata
dall'opposizione al fascismo e dalla lotta di liberazione: e dunque è importante
che Fini, dopo la costituzionalizzazione di An, abbia dichiarato di riconoscere
questo carattere specifico della Costituzione, e in particolare della prima
parte della Carta che da quei valori trae legittimazione, come ripete il
presidente Ciampi. Così come è importante che Fini, contro le tentazioni
ricorrenti in Forza Italia di trasformare il 25 aprile in data-simbolo della
lotta contro tutte le dittature, abbia riconosciuto la semplice verità storica
(oggi contestata a destra) secondo cui il 25 aprile celebra l'evento concreto
della caduta della dittatura fascista.
Cosa significa tutto ciò? Lo ha
in qualche modo detto Fini, in una frase a voce bassa, rispondendo a Luzzatto:
"Sento il peso della storia". Questa è una sincera ammissione della complessità
del compito che hanno sulle spalle i dirigenti di An, e Fini per primo. Sono al
governo, hanno ottenuto il consenso degli italiani. E tuttavia per le ragioni
storiche più che biografiche di cui abbiamo parlato prima, la loro generazione
può rifiutare l'eredità del fascismo, non può ignorare il peso di quella vicenda
tragica. E dunque deve farsene carico, con onestà culturale, anche dopo
l'approdo alla democrazia, anche dopo la revisione, anche dopo il governo. Per
essere chiari: la banalizzazione del fascismo in corso oggi in Italia è un
problema di Fini, prima e più ancora che della sinistra italiana. Come direbbe
Luzzatto, la democrazia come la Bibbia non chiede ritorsione, ma riparazione. E
proprio perché nessuno oggi la chiede ad An, nella distrazione strabica e
ideologica dei cosiddetti liberali italiani, tutti impegnati soltanto con la
revisione dei post-comunisti, l'atto politico e la testimonianza di onestà
culturale vale ancor di più nella sua gratuità, nel bisogno politico spontaneo.
A cominciare magari dal 2004, quando la destra che governa l'Italia avrà davanti
a sé l'anniversario del delitto Matteotti.
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